Fantasia, concretezza, metadisciplinarietà. Alice annotata 32

“It’s my own invention”. La creatività, intesa come commistione di fantasia e concretezza, è un fattore strategico dell’organizzazione, dicevamo in chiusura di Dal Brainstorming all’Idea Management – Alice annotata 31.

Nella costituzione di gruppi di lavoro e community online finalizzati alla trasformazione dell’impresa in social organization, è importante allora mettere insieme professionalità e singoli individui che hanno gradi alti dell’una o dell’altra caratteristica. Mentre, generalmente, nei contesti di lavoro prevale una logica ispirata allo slogan “similia cum similibus”, volta a creare una cultura d’impresa e relativo clima organizzativo che impedisce una collaborazione fattiva fra queste due anime, in linea di massima presenti ma quasi mai comunicanti.

Questa dinamica è rafforzata da quello che lo Humanistic Management definisce trionfalismo funzionale e che si traduce nella presenza diffusa di sub-culture d’impresa e da prassi lavorative di tipo divisionale. La suddivisione di uffici, reparti, gruppi di lavoro in base a competenze specifiche ostacola l’incontro fra queste due anime e rende gli eventuali punti di contatto occasionali, sporadici, conflittuali, poveri di contenuto o comunque non decisivi come invece potrebbero essere potenzialmente (es. quasi sempre è adottata una netta separazione dei reparti creativi dai reparti produttivi e di marketing).

Questo è un punto essenziale, che pure sfugge persino agli autori del Social Business Manifesto. Nell’articolo intitolato L’innovazione oggi partono giustamente dalla distinzione fondamentale dello Humanistic Management 2.0 fra organigramma e Personigramma, come chiave di volta per ripensare l’impresa in termini di social organization incentrata sulla sviluppo di community collaborative online, oltre che offline: “Il capitale sociale o, in altre parole, la rete di relazioni formali e informali che esistono all’interno dell’azienda, rappresentano come l’azienda stessa funziona veramente: ogni organizzazione ha una struttura formale, da cui si può desumere chi occupa quale posizione e chi riferisce a chi; ma quando si cerca di capire come realmente funzionino le cose, scopriamo una rete completamente diversa: le persone sanno a chi rivolgersi nella realtà per prendere decisioni rapide ed efficaci, indipendentemente da ciò che dice l’organigramma. Ognuno sa a chi rivolgersi se deve raccogliere informazioni aggiornate su una tecnologia o sul mercato dei prodotti. Questa rete di relazioni – il capitale sociale – è ciò che oggi dobbiamo liberare se vogliamo sfruttarlo a nostro vantaggio”.

Qui giunti, però, cadono nello stesso errore degli Scientific Manager. Proseguono infatti scrivendo: “Quindi, come si può farlo crescere? Esistono oggi piattaforme (il riferimento è a piattaforme di Idea Management come ideatre60 o Alice Postmoderna, ndr) che consentono alle persone di trovare i propri “simili”, che possono trovarsi in parti o in ruoli molto diversi dell’azienda, ma che condividono le stesse passioni o le stesse esperienze”. Questa affermazione è a mio avviso come minimo da chiarire meglio. Da una parte è vero che la social organization fondata sul principio dell’apertura “consente alle persone di scoprire e di appoggiarsi a questa sorta di reti intangibili all’interno delle organizzazioni, della cui esistenza prima nemmeno si sapeva (in realtà il Personigramma è stato concettualizzato da Piero Trupia nel 1996 nell’ambito del volume da me curato per AIDP   La metamorfosi manageriale, Sperling&Kupfer, pp 53 e sgg: “Personigramma.Dall’impresa di organi all’impresa di persone”, ndr). É un modo di cogliere la possibilità che queste persone si trovino e comincino a lavorare insieme in modi impensabili sinora. I silos organizzativi vengono aggirati”.

Dall’altra è importantissimo ricordare la lezione di The Medici Effect: l’innovazione creativa si fonda sulla commistione di competenze e caratteristiche diverse e spesso ritenute fino a quel momento incompatibili. Secondo l’autore del libro Frans Johansson (cfr. Un approccio umanistico alla creatività. Conversazione con Frans Johansonn: Postfazione di Marco Minghetti), come la Firenze dei Medici fu il fulcro del Rinascimento perché consentì a scultori, filosofi, poeti di incontrarsi ed entrare in relazione, così l’azienda contemporanea può diventare un centro creativo se riesce a pensarsi come una zona in cui si realizzano tutte le ‘intersezioni’ possibili fra culture anche molto lontane tra loro: contaminandosi, ibridandosi, abbattendo le barriere interculturali o interdisciplinari, combinando in un ambiente conviviale idee apparentemente senza nulla in comune e sviluppando modi diversi di vedere le ‘stesse’ cose. In altri termini, l’ideale per la generazione di creatività innovativa sarebbe mettere insieme non i “simili” ma coloro che  sono al limite del tutto dissimili.

Magari grazie anche a quel pizzico di Serendipity che Gary Hamel annovera fra i 12 principi fondamentali del Management 2.0: “Il verificarsi di eventi casuali ha sempre giocato un ruolo fondamentale nell’innovazione. Il Web è forse il più grande motore di serendipità nella storia della cultura, spinto dalla sua natura connettiva di ipertesto così come dalla fame continua dei social media per tutto ciò che è nuovo. Le organizzazioni devono imparare dal Web e aumentare le probabilità di creazione di valore basata sulla casualità, incoraggiando lo sviluppo di connessioni il più possibile diversificate con e fra gruppi diversi di persone, il più spesso possibile”. Lo evidenzio anche perchè è un concetto abbastanza antitetico rispetto all’ingegnerizzazione delle reti sociali proposta dagli autori del Social Business Manifesto nell’articolo Social Business Process Reengeneering.

La ricerca di intersezioni fra “dissimili” porta infine a valorizzare esperienze e conoscenze maturate in passato considerandole sotto una luce nuova, ricombinandole in modo “strano”, aggregandole in combinazioni di senso imprevedute. Insomma, consente quel mash up di cui abbiamo parlato in Il genere dei capolavori è il mash up? – Alice annotata 27  e che persino Umberto Eco, le cui opinioni sulla rigidità dei canoni letterari abbiamo messo in discussione, sembra in qualche modo apprezzare. Nel suo articolo del 7 luglio apparso su Repubblica in cui elogia le opere artistiche “imperfette, ovvero non pienamente rispondenti ad un canone prefissato”, scrive ad esempio:

“Si è tentati di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un’opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare, ma all’imperfezione della sua composizione. Amleto sarebbe l’effetto di una fusione fallita tra varie versioni precedenti della storia, così che la sconcertante ambiguità del personaggio principale è dovuta alla difficoltà dell’autore di mettere insieme diversi temi… Eliot ci dice che il mistero dell’Amleto si chiarisce se, invece di considerare l’intera azione del dramma come cosa dovuta al disegno di Shakespeare, noi riconosceremo nella tragedia una sorta di patchwork mal riuscito di materiali tragici precedenti (…). Così, lungi dall’essere il capolavoro di Shakespeare, il dramma è un insuccesso artistico. «Sia la tecnica che il pensiero sono instabili. E probabilmente i più hanno ritenuto Amleto opera d’arte perché l’hanno trovata interessante, non che l’abbiano trovata interessante perché opera d’arte. È la “Monna Lisa” della letteratura».

In scala minore, a Casablanca è successo lo stesso. Portati a inventare una trama a braccio, gli autori ci hanno messo dentro tutto, attingendo nel repertorio del già collaudato. Quando la scelta del già collaudato è limitata, il risultato è semplicemente kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha un’architettura come la Sagrada Familia di Gaudi: stessa vertigine, stessa genialità (…). Due cliché fanno ridere. Cento cliché  commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà, e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravedere un sospetto di Sublime”.

Tornando dalla narrativa letteraria e cinematografica allo storytelling aziendale, si tratta in definitiva di abbandonare il modello organizzativo scientifico del lavoro, caratterizzato da un approccio che tende a distinguere e moltiplicare gli specialisti e teso verso la ricerca di one best way, best practice e standard, a favore di un modello di management umanistico, segnato al contrario da quello che abbiamo definito un approccio metadisciplinare (che garantisce la commistione di competenze, professionalità e profili curriculari diversi su progetti condivisi non parcellizzati). Soltanto la metadisciplinarietà può favorire non solo la nascita di un contesto creativogenico, ma anche una ampia visione dell’organizzazione: delle sue premesse, dei suoi modi di essere, dei suoi fini. Il che non significa che all’interno dell’organizzazione tutti sappiano fare tutto, bensì che le persone siano in grado di relativizzare il proprio contributo rispetto ad altre discipline e competenze possedute dai propri colleghi e di sentirsi profondamente arricchiti da questa sinergia. Questo può avvenire (e qui torno a concordare con gli estensori del Social Business Manifesto) quando si condivide una stessa passione, o meglio, come scrivono Bradley e McDonald, la stessa value proposition (cfr. La social organization).

Ma, in concreto, come l’incrocio metadisciplinare diventa un moltiplicatore di senso? Lo spiega bene Deleuze commentando le reazioni al racconto del Topo su Guglielmo il Conquistatore:

“’William the Conqueror, whose cause was favoured by the pope, was soon submitted to by the English, who wanted leaders, and had been of late much accustomed to usurpation and conquest. Edwin and Morcar, the earls of Mercia and Northumbria—‘

 `Ugh!’ said the Lory, with a shiver. 

`I beg your pardon!’ said the Mouse, frowning, but very politely: `Did you speak?’

 Not I!’ said the Lory hastily. 

`I thought you did,’ said the Mouse. `–I proceed. “Edwin and Morcar, the earls of Mercia and Northumbria, declared for him: and even Stigand, the patriotic archbishop of Canterbury, found it advisable–“‘

`Found WHAT?’ said the Duck.

`Found IT,’ the Mouse replied rather crossly: `of course you know what “it” means.’ 

`I know what “it” means well enough, when I find a thing,’ said the Duck: `it’s generally a frog or a worm. The question is, what did the archbishop find?’. 

Deleuze osserva che qui si crea un malinteso poiché mentre l’Anatra usa e comprende questo (it) in maniera generica e perlopiù in riferimento a ciò che mangia, il Topo usa lo stesso termine per indicare un evento storico. E’ come se ad un convegno si confrontassero un biologo e uno storico cercando di imporre l’uno all’altro il proprio linguaggio (quindi il proprio modello cognitivo), invece di cercare una interazione che porti ad un vero scambio e quindi ad un aumento della conoscenza di ognuno. Come spiega Piero Trupia, un contesto sociale caratterizzato dalla chiusura iperspecialistica genera, al posto del potere di Convocazione, che si esprime nella capacità di suscitare l’iniziativa discorsiva e operativa dei membri di una community chiamati alla realizzazione di un progetto e che è il “cemento” di una social organization, una tendenza alla Revocazione. Ovvero  alla negazione del riconoscimento dell’altro come interlocutore attivo e inter-attivo.

Così nel caso del Topo e dell’Anatra si creano “due serie che non convergono, se non all’infinito…mentre una delle serie riprende a suo modo mangiare, l’altra estrae l’essenza di parlare.”[i] Al contrario in molte poesie di Carroll lo sviluppo autonomo di due serie contemporanee determina un insieme  apparentemente privo di senso, ma che appare invece straordinariamente significativo se si trova la chiave (e questo può farlo solo una mente “perfettamente equilibrata”) per farle convergere in una nuova unità dal senso molteplice. L’esempio più mirabile lo offre La canzone del Giardiniere di cui abbiamo parlato alla Nota 4a. Lo stesso processo, a livello di singoli vocaboli, si compie con le parole portmanteau delle composizioni poetiche “nonsense”  di Carroll,  Jabberwocky e Snark su tutte (cfr. Wonderland e il genius loci della creatività – Alice annotata 26).

Alice annotata  32. Continua.

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[i] Deleuze, cit.p. 31.