Per questo terzo appuntamento con la grande poesia di Wislawa Szymborska interpretata con gli strumenti concettuali dello Humanistic Management (rivisitando quindi le riflessioni contenute in Nulla due volte. Il management attraverso la poesia di Wislawa Szymborska) ho scelto di concentrare l’attenzione su La gioia di scrivere.
La poesia, da cui è anche tratto il titolo della antologia Adelphi che sta andando a ruba, soprattutto dopo lo show televisivo di Roberto Saviano, si presta particolarmente bene a sviluppare le riflessioni avviate nei precedenti due post, alla luce della trasformazione delle organizzazioni tradizionali verso nuove forme di social organization.
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Sostenuta da quattro zampette prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta i rami
causati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco s’acquattano, pronte a balzare,
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio nel mirino,
pronti a correr giù per la rapida penna,
a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà finché lo dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà una foglia,
né uno stelo si piegherà sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere che a mio commando è incessante?
La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta di una mano mortale.
Penna e computer: costruire mondi, indagare la complessità
Vivere la molteplicità intensamente, assolutamente, senza rinunciare a nessuna esperienza: questa è l’ambizione del nostro tempo. Scrive Bauman: “la risposta alla domanda sulla nostra identità non è più «sono ingegnere della Fiat (o alla Pirelli)» o «faccio l’impiegato statale» o «il minatore» o «il gestore di un negozio Benetton», ma – in base al metodo usato di recente da uno spot pubblicitario per descrivere la persona che avrebbe indossato quella marca prestigiosa – sono uno che «ama i film dell’orrore, beve tequila, possiede un kilt, tifa per il Dundee United, ama la musica anni Ottanta e gli arredi anni Settanta, va pazzo per i Simpson, coltiva girasoli, preferisce il grigio scuro e parla con le piante»….I dettagli sono tutto.” Dettagli che cambiano e si rimescolano e si trasformano e si sovrappongono e si contraddicono e si dimenticano e a volte ritornano, ma non esattamente come prima: nulla due volte accade/ne accadrà…
Poiché tuttavia è difficile essere tutti dei novelli Escher, capaci cioè di inventare prospettive esistenziali in cui il sopra coincide con il sotto, la salita con la discesa, la destra con la sinistra (e poi, a ben vedere, sarebbero solo illusioni ottiche), più semplicemente facciamo del palinsesto televisivo e del blog gli archetipi della vita più desiderata. Quella in cui tutto è significativo perché importanti non sono i singoli programmi o i singoli “post”, ma il montaggio, lo smontaggio e il rimontaggio quotidiano che ogni individuo produce delle sue esperienze. La vita diviene così una continua avventura, una rinnovata sorpresa, un gioco leggero ma da prendere dannatamente sul serio, con quella serietà scherzosa che richiedono tutti i giochi: diviene, direbbe Cortazar, un giro del giorno in ottanta mondi.
Proprio qui risiede il segreto della “gioia della scrittura”, in primo luogo autobiografica: nella scoperta che esiste un mondo (anzi, ottanta, ottocento, ottomila mondi) di cui io “reggo le sorti indipendenti”; che è possibile “un esistere” che è sotto il mio controllo; che sono in grado di costruire mondi in cui, letteralmente, non si muove foglia che io non voglia. Una scoperta che sempre più frequentemente viene considerata centrale ai fini della formazione manageriale. Mi rendo conto che si potrebbe trovare non compatibile il riferimento alla poesia di Szymborska con l’enfasi sulla scrittura autobiografica: “un genere letterario da cui la poetessa polacca rifugge costantemente”, ha rilevato Gammaitoni. Di fatto, però, la stessa studiosa rileva come, “nonostante il rifiuto della Szymborska di contribuire a correlare la propria biografia alla sua poetica, è invece evidente, quasi scontato, quanto l’esperienza personale si rifletta inevitabilmente sulla creazione letteraria”.
Autobiografia ed Eventi
Diventa allora pertinente la domanda: “in cosa consiste propriamente la nostra autobiografia?”. Un’articolata risposta a questa domanda la ha offerta Duccio Demetrio nel capitolo dedicato al tema de Il Manifesto dello Humanistic Management. Qui sinteticamente potremmo rispondere: in quelli che Piero Trupia chiama gli Eventi, che, se accolti, “generano altri eventi. Una vita è narrabile, non se ha generato eventi, ma se li ha riconosciuti e li ha lasciati operare; se li ha accolti, mettendo a rischio la consolidata routine”. Ma come fare a riconoscerli ed accoglierli? Risponde Trupia: occorre “esercizio dello sguardo sul mondo per cogliere segnali, soprattutto anomali, del sopraggiungere dell’Evento; una continua, incessante, drammatica necessità di relazionarsi consapevolmente e responsabilmente con sé stessi e con gli altri portatori di diversità-novità”. Ogni Evento può essere quindi, ha affermato Szymborska, “spremuto, concentrato in una poesia”: di più, anche il più futile accadimento “contiene in sé una carica che la poesia è in grado di raccogliere”. La costruzione dell’identità si gioca infine sulla capacità di ricollegare fra loro, secondo uno schema narrativo, che li rende rappresentabili e comprensibili all’interno di un contesto dato, sia gli Eventi, con la maiuscola, sia gli accadimenti quotidiani, con la minuscola ma liberati dal velo della loro apparente banalità.
A questo proposito si può osservare che le nuove tecnologie multimediali, rispetto alle tecniche di narrazione tradizionali, consentono di elaborare delle storie molto più coerenti con le contraddizioni insite nei racconti, la loro costante parzialità, la loro chiusura mai del tutto definitiva. In un breve saggio intitolato L’autobiografia come diritto e come dovere, Francesco Varanini asserisce che “non si scrive più come una volta…la Rete mette a disposizione materiali infiniti, sui quali si può agevolmente lavorare di taglia e cuci. Perciò ci sono oggi sempre più libri che sono un mosaico di testi, di elementi diversi, dove la figura dell’autore si sfrangia e si sfuma e si scompone in mille pezzi. L’immagine di un autore che nel chiuso della sua stanza distilla nella sua mente una storia, parola dopo parola, riga dopo riga, pagina dopo pagina, è sempre più lontana da quello che veramente accade. Siccome le nuove tecnologie lo permettono, si scrive sempre più per accumulazione”. Ciò che distingue un autore da un altro – e che permette di usare queste tecniche e queste tecnologie anche a fini autobiografici e di formazione aziendale – consiste nell’individuazione dei singoli pezzi (fra gli infiniti possibili) che compongono il discorso; nella logiche che ciascuno sceglie per costruire il proprio percorso narrativo; nello stile che adopera; negli artifici retorici utilizzati: soprattutto, nei nuovi significati che emergono dall’accostamento originale di tutti questi elementi. Del resto gli scrittori moderni hanno lavorato per la maggior parte così, pur non avendo avuto a disposizione Internet – ma l’introduzione della pressa da stampa a metà del Quattrocento ebbe effetti paragonabili alla rivoluzione della Rete oggi: l’invenzione di Gutenberg segna l’affermazione dell’Umanesimo europeo come la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione rende urgente l’adozione di una visione umanistica della società.
L’immagine romantica evocata da Varanini, quindi, già in passato era più un mito che una realtà. Ad esempio Leonardo da Vinci, ricorda Italo Calvino, “inveisce contro i letterati, capaci secondo lui solo di ripetere ciò che hanno letto negli altrui libri”. Senza volere tirare in ballo la vexata quaestio -peraltro trattata in Alice la sensemaker: il futuro crea il passato (Alice annotata 16a) e in Alice la sensemaker: la visione retrospettiva (Alice annotata 16b)– dei “predecessori di Kafka” (quel Kafka che in racconti, pure visionari, onirici, come La tana, dà al mito dello scrittore solitario una angosciante concretezza), ovvero la discussione sui plagi, sulle riscritture o sulle influenze esistenti in letteratura, consideriamo il più grande di tutti: Shakespeare, referente chiave dello Humanistic Management. Il Bardo era bravissimo nel comporre storie traendone gli elementi di fondo dal repertorio che la tradizione o la cronaca gli forniva. Su queste basi creava i suoi capolavori. Basi che spesso sono le stesse: il primo esempio che mi viene in mente è l’idea della giovinetta infelicemente innamorata che si finge morta: meccanismo narrativo semplicissimo che produce esiti completamente diversi in Romeo e Giulietta, Molto rumore per nulla e nel Racconto d’inverno. Non parliamo poi di Omero, degli aedi e dei poeti epici del medioevo, la cui creatività si esercitava nella ricombinazione di un apparato formulaico standard.
L’Agire Drammaturgico
Resta comunque che, a prescindere dal mezzo usato e dai materiali di partenza, il processo di autocoscienza inteso come “costruzione di significato” è essenzialmente comunicativo e narrativo. La capacità di metterne per iscritto i risultati si può poi sviluppare a qualsiasi età. Szymborska incoraggia così un maturo lettore della rubrica Posta letteraria, da lei tenuta negli anni Sessanta su una rivista di Cracovia e da cui è stato tratto un prezioso libretto dallo stesso titolo: ”Anche dopo i quarant’anni si può improvvisamente cominciare a scrivere. Non è affatto tardi, basta sapere che sono altre le leggi che governano un inizio maturo. Del successo di un debutto giovanile decide la freschezza della fantasia, uno sguardo sul mondo non di routine, in cui prevalgono più le impressioni che le riflessioni, osservazioni più casuali che selezionate secondo una concezione della vita sedimentata nel tempo. Da un debutto tardivo ci aspettiamo altri valori, fondati su una buona dose di esperienza e un consolidato gusto artistico”.
Analizzare la propria vicenda e rielaborarla in una qualsivoglia forma scritta è dunque possibile, ma richiede una specifica formazione, tanto più se il suo sviluppo è ricercato a fini aziendali. Il ruolo del formatore sarà, in primo luogo, di illustrare il metodo di indagine della realtà che sta sotto ogni sua restituzione letteraria. Il che, scrive Guerci, significa:
- “maturare una coscienza della limitata portata di qualsiasi modello, visto come strumento di conoscenza che inevitabilmente esclude porzioni di realtà più o meno rilevanti;
- consegnare valore euristico a percorsi di conoscenza basati su ipotesi interpretative e strumenti di indagine sempre nuovi;
- prestare costante attenzione ai dati devianti: è nelle due code di ogni gaussiana che si nascondono le informazioni più interessanti.”
Prima ancora, occorre chiarire a sé stessi l’insieme degli assunti teorici, dei principi, dei valori, da cui si muove nell’agire quotidiano; tenere conto della molteplicità dei punti di vista e delle opportunità rese praticabili dall’interazione dei punti di vista stessi; accettare che nessuno potrà prevedere e dominare tutte le variabili possibili; considerare l’errore come ciò che non si sa (per il momento) di un processo. Su queste basi, la persona può imparare a narrare a sé e agli altri la propria storia di formazione e sviluppo. Proprio come il giovane Jim, eroe dell’Isola del Tesoro di Stevenson: attraverso il racconto dello scontro con i pirati, dell’incontro con Long John Silver e delle altre mille meravigliose peripezie narrate nel libro, egli si ritrova alla fine consapevolmente adulto (cfr La mappa e il territorio -Alice annotata 6).
Così, per il tramite della scrittura autobiografica e del lavoro pedagogico su di sé, si arriva alla inesauribile autocreazione personale come vitale ricerca della propria verità. Ricerca che inizia con un atto che distingue dagli altri, ma che giunge a riconoscerne il ruolo determinante.
Ci ritroviamo quindi dalle parti di quello che Habermas chiama l’agire drammaturgico e che gli individui praticano ai fini dell’autorealizzazione simbolica, “mettendosi in scena” e recitando con grande enfasi. Tale tipo di agire è così connotato da Habermas: “con agire drammaturgico intendiamo un’interazione sociale come un incontro nel quale i partecipanti costituiscono gli uni per gli altri un pubblico visibile e si rappresentano reciprocamente qualcosa”. È particolarmente importante la nozione di pubblico, che acquisisce la fondamentale valenza di essere costitutivo di quell’agire stesso. Per Habermas è questa la forma di agire umano (le altre sono l’agire strategico, l’agire regolato da norme e l’agire comunicativo) in cui meglio sono racchiuse e custodite le componenti sentimentali dell’azione umana (le passioni, le volizioni, le pulsioni). Il che, in termini aziendali, porta a ragionare su come sviluppare caratteristiche personali particolarmente essenziali per la costruzione di una social organization (cfr la serie di post dedicati allo Humanistic Management 2.0), quali la capacità di rappresentare agli altri (ad esempio, dinnanzi ad un Consiglio di Amministrazione) una visione chiara, completa e di ampio respiro, fondata sulla capacità di prefigurare e sintetizzare in modo prospettico gli scenari di contesto, le possibili evoluzioni degli eventi e gli orientamenti del business; la propensione a costruire e gestire reti relazionali interne ed esterne all’organizzazione; la leadership come capacità “convocativa” di fare cooperare attivamente in vista di uno scopo comune persone con mentalità, culture e approcci diversi.
Rappresentare, vedere e far vedere: queste capacità manageriali hanno molto a che fare con “il terzo occhio” di Platone, quello che ci consente di avere idee (parola che deriva da un verbo greco che significa appunto “vedere”). La scrittura di Szymborska ci fa capire esattamente cosa significa “evocare una visione”. Non sembri azzardato il paragone, ma la poetessa polacca spesso mi sembra vicina ad un romanziere come Stephen King, quanto a capacità di rendere sulla carta una scena che nel palcoscenico interiore della mente si “vede” come fosse un film. Si pensi all’immagine iniziale della corsa della “cerva scritta in un bosco scritto” ; al suo gesto di abbeverarsi, al suo alzare il muso. Non sembra di vedere Bambi o un film di Walt Disney? E che dire dei versi: “Un batter d’occhio durerà finché lo dico io,/si lascerà dividere in piccole eternità/piene di pallottole fermate in volo”. Szymborska ha invitato la “slow motion” ben prima dei registi di Matrix! E questo senza dimenticare mai che il gioco cui stiamo giocando è fatto di parole, di parole scritte, di immagini che si riflettono “come carta carbone”…..
La rivoluzione umano-centrica del management 2.0
Ma non sono questioni che riguardano solo i manager, top o bottom che siano: stiamo parlando della trasformazione della cultura aziendale attraverso il coinvolgimento di tutte le persone che la condividono, anche attraverso un modo nuovo di concepire gli strumenti e i processi. Ad esempio, partendo dal livello più basico, quello del profilo personale. Scrive a questo proposito Alessandro Donadio: “Ecco che l’emersione della persona dalle macerie della rappresentazione formale genera quella flessibilità di cui il ruolo e l’organizzazione (intesi in senso dinamico e reale) hanno bisogno. In questo senso va detto che la scommessa degli owner di un progetto e2.0 rispetto alla pagina del profilo è proprio quella di accompagnare la persona in una compilazione, magari progressiva, che sempre più dia evidenza delle caratteristiche extra curriculari, oltre (ma io dico anziché) quelle professionali. Intendo con questo, concretamente, la possibilità, l’auspicio, che la persona trovi lo spazio e la volontà di condividere “competenze”, storie di se in altri ambiti della propria vita, che diano la cifra ampia della persona stessa, laddove una di queste informazioni possa poi diventare utile ove necessario all’organizzazione, alla comunità.
Si tratta per la verità non solo di serendipity (uno dei 12 principi del Management 2.0 individuati anche dagli esperti di Hackaton, ndr) che, intendiamoci, da sola rischia di valere ben più dell’ennesimo assessment del potenziale quale strumento tipico della toolbox dell’HR. Ma della possibilità da parte di quest’ultimo di raccogliere informazioni che nella dinamica tipica fra employee e struttura semplicemente non si scambiano perché ritenute non pertinenti (perché, per esempio, nell’ambito di un progetto interno una persona che ha raccontato di fare parte di un’associazione di volontariato cittadina e di avere con questa organizzato eventi di varia natura, non dovrebbe essere cooptata per la propria manifesta predisposizione? Il progetto interno ne avrebbe beneficio o no?) Quanto valore buttato a mare!”
Tema questo che ci condurrebbe molto lontano, ovvero a quello che Giacomo Mason ha definito Il cammino tortuoso della Intranet personalizzabile e che passa dal “rapporto tra informazioni profilate e non profilate, in quanto la profilazione definisce i criteri (geografici, dipartimentali, di ruolo, di lingua, di azienda, ecc) che consentono di “localizzare” le informazioni e i servizi… una dimensione che va sempre associata a quella della personalizzazione, ovvero delle scelte lasciate al singolo dipendente nel costruire il proprio set di informazioni”.
Non solo business writing
Affrontare il tema dell’autobiografia in azienda non significa insomma mettere semplicemente nel catalogo formativo dei corsi aventi la pretesa di dettare le regole d’oro del business writing o della scrittura creativa. La cui esistenza, peraltro, è assai discutibile. Szymborska scrive, rispondendo ad un altro lettore: “No, da noi non esistono manuali di scrittura creativa. Credo che libri simili si pubblichino negli Stati Uniti, ma ci permettiamo di dubitare del loro valore, e questo per la buona ragione che l’autore che conoscesse una ricetta infallibile per il successo letterario, preferirebbe servirsene egli stesso, piuttosto che guadagnarsi da vivere scrivendo manuali. Semplice? Semplicissimo”. Dunque pochi sono i consigli che la poetessa elargisce, pochi gli incoraggiamenti a continuare a scrivere, a dedicare più tempo alla pagina bianca. Più che altro sono eleganti esortazioni a smettere, a lasciar perdere, quelle che distribuisce ai suoi corrispondenti: “Non tutti quelli che sanno disegnare un gatto seduto, una casetta col fumo che esce dal camino e una faccia formata da un cerchio, due linee e due punti, diventeranno in futuro dei grandi pittori. Per il momento le tue poesie, caro Marlon, sono allo stesso stadio di questi disegni.”
Proprio da osservazioni come queste, tuttavia, emerge come la poetessa sappia bene che la scrittura non dipende solo dal talento o dall’ispirazione, ma sia anche un fatto tecnico. Le risposte da lei date in qualità di redattrice e corrispondente si trasformano così, forse suo malgrado, in una serie di consigli per aspiranti scrittori e manager in vena di introspezione. Si concentrano soprattutto nello spiegare gli errori da evitare: “Un racconto può, in mancanza di meglio, non avere né inizio né fine: il centro sembra però necessario.” – “Tutto a questo mondo si distrugge per il continuo uso, tranne le regole grammaticali. Se ne serva con più coraggio, Signora – bastano per tutti!” – “I suoi Saggi sono costituiti da intricate esibizioni su temi slegati. Non c’è in essi ombra di composizione, per non dire della lodevole tendenza alla concisione. Perché non prova a scrivere epigrammi, che sono un esercizio perfetto di corto circuito mentale? Il lettore di oggi è nervoso, preferisce formi brevi e, per quanto possibile, che facciano ridere. L’estensione delle sue divagazioni fa perdere le staffe”. Quanto importante sia tenere sempre presente e quanto difficile seguire queste “ovvie” indicazioni lo sa bene chiunque abbia provato a cimentarsi con lo scrivere.
Il torbido piacere della lettura
La gioia della scrittura trae infine alimento dal “torbido piacere” della lettura. Pietro Marchesani cita un passaggio della conversazione premessa all’edizione polacca di Posta letteraria: “cercavo di trasmettere concetti elementari, invitavo a riflettere sul testo che mi era stato inviato, a un pizzico di capacità autocritica. Infine, invitavo a leggere libri. Forse mi illudo, ma spero che questa bella abitudine sia rimasta ad alcuni per tutta la vita”. Scrivere e leggere sono due facce di una stessa medaglia. Sono due modi diversi, ma strettamente interconnessi, di scoprire, costruire, inventare la propria biografia spirituale, la propria identità. Lo ha ben rilevato anche l’autrice algerina Assia Dejabar, vincitrice del Premio Grinzane Cavour nel 2006: “La lettura, per il bambino, è il primo contatto di una sensibilità, di una generosità dell’animo infantile, che partecipa, nel silenzio di un’avida lettura, all’ebbrezza di un oscuro contagio: i suoi occhi, da sinistra a destra, vanno sempre più velocemente da una riga all’altra, le sue dita girano febbrilmente ogni pagina; questo lettore, anche se precoce, si sente poco a poco in uno stato di fusione. Il bambino non è più bambino: scriverà qualcosa, scriverà per energia, semplicemente per scrivere, per scriversi o per inventare, per… La ricerca sarà già cominciata, fertile o difficile. Ma il primo segno incerto, inesprimibile, informe, di un’emozione condurrà questo primo lettore a cancellature, a parole senza seguito, a tracce che, una volta su mille, e ossessivamente, diventano «scrittura», ossia ricerca di sé e degli altri o della notte; una lenta decifrazione.”
La foto di Fabiana Cutrano è tratta da Nulla due volte. Il management attraverso la poesia di Wislawa Szymborka