Da Le Città Invisibili… a Le Aziende InVisibili, 23. I protagonisti

Icona_extruscaNe Le Aziende In-Visibili i dialoghi fra l’Imperatore Kublai Kan e l’esploratore Marco Polo delle Città Invisibili calviniane si trasformano nelle conversazioni intessute dall’Amministratore Delegato Bill H. Fordgates (che rappresenta la crisi degli innumerevoli scientific manager allevati ad una scuola che inizia con Henry Ford e arriva a Bill Gates) e il suo Direttore del Personale Sam Deckard. Il rapporto dialogico fra i due riecheggia quello fra  Imprenditore e Responsabile del personale che è stato splendidamente descritto nel recente romanzo di Yehoshua intitolato appunto Il Responsabile delle Risorse Umane.

Ma soprattutto si è voluto fare ironico riferimento al Rick Deckard di Blade Runner, ovvero al cacciatore di mutanti, protagonista del famoso film tratto da un romanzo di P.K. Dick, che alla fine scopre di essere lui stesso un “replicante”.

Questa scelta è legata a tre ragioni. La prima è legata al fatto che P.K. Dick è autore da sempre centrale nelle riflessioni sviluppate sullo humanistic management nel corso degli anni, dall’esperienza di Hamlet fino a Nulla due volte (cfr in particolare il capitoletto Per un anima sognante). La seconda è che il protagonista di Blade Runner assomiglia in maniera sconcertante all’archetipo del direttore del personale, così come viene tradizionalmente raffigurato. Quando viene inquadrato per la prima volta, Deckard sta leggendo il giornale. La voce fuori campo informa lo spettatore e recita: “They don’t advertise for killers in a newspaper. That is my profession. Ex-cop, ex-blade runner, ex-killer”. E ancora, due scene dopo: “Sushi. That’s what my ex-wife called me. Cold fish”. Lo spettatore viene informato che il protagonista è un duro, un ex killer, un individuo freddo e solo. Francamente, con un paio di correzioni (del tipo: “ex carabiniere” al posto di “ex-cop” e “tagliatore di teste” invece che “cacciatore di androidi”) questo è  il ritratto di molti responsabili “Risorse Umane e Organizzazione” di mia conoscenza.

Ciò che più  lo caratterizza è l’insensibilità: paradossalmente (ma non poi tanto, come vedremo) supposto tratto  distintivo di quei replicanti che alla fine risultano più empatici di lui. Fino al duello con Roy Batty,  Deckard è indifferente all’eliminazione degli androidi: persino a quella di Pris, la copia di Rachael,  con cui ha appena fatto l’amore. Ma l’indifferenza nei confronti degli androidi è una indifferenza nei confronti degli uomini. Deckard non si scompone nell’apprendere che il test VK, in base a cui decide se ha di fronte un replicante o un uomo, può essere inefficace e che, molto probabilmente, sono stati “ritirati” per errore veri esseri umani con facoltà empatiche poco sviluppate.

Ebbene, come Deckard, anche i direttori del personale sottopongono continuamente i dipendenti a test: per valutare potenziale, competenze, conoscenze, prestazioni. Anche se sanno benissimo che sulla base di questi test  è possibile commettere  errori. E come tanti direttori del personale, Deckard, quando scopre degli individui eccezionali… li elimina, se si rifiutano di eseguire i lavori più umili, faticosi e duri. Straordinaria analogia con l’impresa di oggi: i mediocri controllano, i migliori sono eliminati, o scappano dai campi di prigionia aziendali. Ahimè: con ogni probabilità, dovunque andranno, verranno “ritirati”.

Ma, soprattutto, Blade Runner descrive un mondo in cui un caos strisciante e onnivoro si annida nelle case fatiscenti, nei condomini abbandonati, nelle strade buie e fumose, dove, sotto una incessante pioggia radioattiva, ogni forma  si annulla e ogni significato viene perduto. Ecco allora lo “scandalo” degli androidi, che non sono affatto dei replicanti, delle copie. Al contrario,  la disperata affermazione del loro “essere altri”, il rifiuto di abbruttirsi nelle colonie extra mondo sprecando i propri meravigliosi talenti, la volontà di avere un futuro  migliore: tutto ciò li rende entità sommamente pericolose. Per questo è necessaria l’opera di Deckard, che, sopprimendoli, distrugge il possibile ingresso nel mondo di un nuovo ordine basato sulla valorizzazione delle diversità (ivi compresa quella fra androidi e umani): consentendo la vittoria dell’indifferenziazione, del disordine, della mediocrità su cui perversamente il sistema si fonda, ma a causa dei quali, al tempo stesso, sprofonda nel nulla.

E diciamoci la verità: non si comportano così anche molte direzioni del personale, quando i Tyrell della situazione, i top manager,  non si occupano che di tagliare i costi, ridurre gli organici, rispettare i budget, aumentare la produzione? Questo non significa che i vertici aziendali siano “cattivi”. In Blade Runner c’è un  momento in cui si coglie Tyrell nell’intimità della sua camera da letto. In quanto presidente-tiranno della multinazionale che produce robot genetici, è l’ovvio candidato per una rappresentazione semplificata del potere. Quali malvagità starà covando? si chiede lo spettatore. Nessuna, risponde il regista Ridley Scott. Tyrell  sta solo studiando qualche iniziativa da intraprendere in borsa, mondo ben più artificiale  delle false memorie degli androidi: è il suo modo di sognare, ma illudendosi di essere  sveglio. Quando il disordine è massimo, si cancellano i confini fra vero e falso, giusto e sbagliato, veglia e sonno. Per citare Omero e Virgilio, l’incapacità di cogliere le differenze genera sogni che vengono dalla “porta d’avorio” (“che avvolgono d’inganni la mente”) e non da quella “di corno” (“che verità incorona”). Perso nel suo progressivo delirio di onnipotenza, Tyrell si è creato un proprio mondo in cima ad un grattacielo pressocchè inaccessibile. La vita nella sua concretezza brulica  fuori, molto lontano, in basso:  per arrivare al suo cospetto,  Roy Batty deve superare allarmi e barriere. Così, quando la realtà fa breccia nella  fortezza di Tyrell, egli non è più in grado di comprenderla: per lui sarà un incontro letale.

Mutatis mutandis, l’imperativo categorico che viene introiettato dai direttori del personale “tradizionali” è: “non si deve disturbare il manovratore”.  Sotto l’egida di formule sacrali quali “lean organization” o “bpr”, il loro vero obiettivo diviene quello di evitare che ai piani alti si possa generare irritazione: si preoccupano perciò di contenere le differenze, di sfrondare gli esuberi, di garantire “la pace sociale”, di mantenere “l’equità interna”: controllare, appiattire, normare, proceduralizzare. In sintesi, “fare chiarezza” immergendo l’impresa nella nerezza di una notte in cui tutte le vacche (o meglio, tutte le persone che rientrano nel “parco buoi” aziendale) sono nere. Indistinguibili, ma interscambiali. Abbruttite, ma (all’apparenza) innocue. Assimilate insomma a quel Calibano che così da Prospero viene giudicato: ”We cannot miss him. He does make our fire,/Fetch in our wood, and serve us in offices/that profit us” (“Un bruto, ma ci aiuta: accende il fuoco,/porta i ceppi e rende utili servizi”). Approccio gestionale con una sua giustificazione pratica solo fino a quando il management verrà sorpreso da un “imprevedibile” calo dei profitti e dalla conseguente sostituzione del Consiglio di amministrazione. Ma va da sè che lo zelante direttore del personale provvederà ad innalzare subito un nuovo muro che tenga ben distante il neo amministratore delegato dalla “banale” quotidianità aziendale.

In apertura: Icona extrusca,  di Luigi  Serafini