Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili. 11, Nomi (Parte Seconda)

“La rosa profumerebbe ugualmente anche se non si chiamasse rosa”, osserva Shakespeare: e Szymborska: “Quando pronuncio la parola Silenzio – lo distruggo”. Ciò che io chiamo tubo è un tubo? Ciò che io chiamo colonna è una colonna? Ciò che, condividendo simurgh manaral’esperienza con altri, arrivo a riconoscere come il Sacro Elefante Bianco, è il Sacro Elefante Bianco? E se fosse invece la Balena Bianca di Achab?

E se, peggio ancora, nel mio sforzo di rendere Visibile l’Invisibile, mi concentro così tanto sul segno da perdere il contatto con ciò che esso indica? Al centro di Mao II, il profetico romanzo scritto da De Lillo nel 1991, vi è la relazione fra una fotografa che dedica la sua vita a riprodurre l’immagine degli scrittori, e uno scrittore da decenni ritiratosi nell’ombra a scrivere un romanzo che non vedrà mai a luce. E la lezione morale che se ne ricava è che ormai è più importante l’immagine, la foto, il video di uno scrittore, del contenuto dei suoi libri.

D’altro canto non è neppure vero che è stato commesso il crimine perfetto, l’uccisione della realtà da parte dell’immagine. E’ semmai vero il contrario: basta pensare a fenomeni come YouTube, per comprendere come: “Il virtualismo digitale ha semplicemente consentito di assistere alla presentazione del reale senza andare a vedere sul posto. Ha eliminato il rischio connesso all’esserci veramente. Ma anche al pensare veramente, che è sempre un interpretare. Questo percepire senza esserci veramente definisce un mondo di diniego nel quale ormai si cerca meno di vedere che di essere visti da tutti nel medesimo istante secondo le medesime modalità” (Le Aziende In-Visibili, Episodio n. 124).

Dunque riassumendo:

se non entro nella tenda dell’essere  non potrò mai sapere cosa essa cela;

se entro ma tengo la luce del linguaggio spenta, avrò una comprensione solo parziale o illusoria; come Amleto con il fantasma che gli appare a mezzanotte, non posso sapere se ciò che mi sta parlando è una finzione magari diabolica o una forma vera dell’essere;

se accendo la luce del linguaggio, creo immediatamente delle ombre che posso confondere con la verità;

se la luce è così accecante da essere pura e priva di ombre, passo dal mondo dell’analogia a quella del digitale, mi “acceco”, come direbbe Virilio.

Che fare?

Forse la strada è indicata in un noto apologo borgesiano, Il Simurg:

“Il remoto re degli uccelli, il Simurg, lascia cadere in mezzo alla Cina una piuma splendida; gli uccelli risolvono di cercarlo, stanchi della loro antica anarchia. Sanno che il nome del loro re significa trenta uccelli; sanno che la sua reggia è nel Kaf, la montagna o cordigliera circolare che cinge la terra.Al principio, per paura, alcuni si scherniscono: l’usignolo allega il suo amore per la rosa; il parrocchetto la sua bellezza, che gli è ragione di vita ingabbiata; la pernice non può prescindere dalle colline, nè la gazza dalle paludi, nè il gufo dai ruderi.

Alla fine, si lanciano nella disperata avventura; superano sette valli, o mari; il ponte del penultimo è Vertigine; l’ultimo si chiama Annichilimento. Molti pellegrini disertano; altri periscono nella traversata.

Trenta, purificati dalle proprie fatiche, toccano la montagna del Simurg. Lo contemplano finalmente: s’accorgono che essi stessi sono il Simurg e che il Simurg è ciascuno di loro”.