Dal management 1.0 alla social organization: una trasformazione in 4 mosse


Il-modello-di-sviluppo a 4 stadi

Allineare conversazioni interne ed esterne

Come ricordavo nel post pubblicato a commento dell’ultimo rapporto KPMG,    Il Social Banking è possibile? Sì, ma solo se i processi HR sono 2.0,    l’intelligenza collaborativa   sviluppata   all’interno   dell’organizzazione,   anche grazie ad un sistema di   social HR, costituisce la base fondamentale su cui costruire un modello di Banking 2.0 rivolto ai clienti.

Si tratta, in altre parole, di allineare le conversazioni interne a quelle esterne, nella consapevolezza che, come ha affermato l’Amministratore Delegato di Allianz George Sartorel, la rivoluzione del web 2.0 ha un impatto sull’intera catena del valore e non solo su alcuni isolati processi (la distribuzione, il marketing, il customer care, ad esempio). Occorre dunque affrontarla con un approccio integrato ed olistico, fondato sulla rivisitazione complessiva del modello strategico, organizzativo e culturale, prima ancora che operativo, dell’azienda.

Una sfida che peraltro non si pone unicamente a banche e assicurazioni, ma a tutte le realtà pubbliche e private che intendono muoversi lungo il cammino che porta alla loro trasformazione in social organization, per fare emergere quello che McKinsey ha definito “il tesoro nascosto” del lavoro collaborativo, valutato in almeno     1.300 miliardi di dollari.

Bene, ma come farlo in pratica? Una buona e articolata risposta a questa domanda si trova nella   Ricerca sull’uso dei social media da parte delle banche italiane   realizzata   da   Social Minds, che sarà presentata durante   un convegno   in calendario l’11 luglio a Milano al Palazzo delle Stelline. Il volume contiene infatti un capitolo intitolato “Gestione e organizzazione social” che siamo in grado di anticipare in parte qui. Il focus è su logiche, prassi e modelli di organizzazione interna, legati allo sviluppo del social web. “Andando quindi oltre l’utilizzo dei social media per la comunicazione, pr, marketing e social care”, leggiamo, “vengono analizzate le risposte date dai manager delle 16 banche intervistate, che sono stati sottoposti ad alcuni stimoli volti a sondare il livello di organizzazione aziendale, con particolare riferimento a tutta l’area della comunicazione interna (cfr su questo Dalla Intranet 1.0 al Social Portal) e dell’HR, per cogliere il grado di sviluppo di un sistema di management che, per essere sintonico alla comunicazione social, deve evolversi e adattarsi al modello dell’organizzazione collaborativa    (Morgan, 2012).”

E’ interessante notare che i ricercatori di Social Minds individuano 4 possibili modelli organizzativi e di governance emergenti che si pongono come “step evolutivi del passaggio da logiche 1.0 verso pratiche di management 2.0” corrispondenti    alle 4 fasi di sviluppo proposte nel primo capitolo del volume L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization. Vediamoli dunque uno per uno e valutiamone la concreta attuazione in casi specifici, attraverso le dichiarazioni dei manager intervistati.

Outsourcing

Il primo stadio di sviluppo del modello proposto nel libro è quello in cui l’organizzazione è caratterizzata da una incomprensione totale del cambiamento che sta avvenendo. I manager vedono i social media come una minaccia per produttività, capitale intellettuale, privacy, principio del comando e controllo, conformità alle normative e una miriade di altre cose. Del resto non a torto, perché la strada che conduce alla social organization implica la revisione radicale di tutto il modello operativo e mentale tradizionale (scientific management). Così scoraggiano   e   addirittura vietano l’utilizzazione di qualsiasi social media, all’interno e verso l’esterno. Per dirla con Frank Rose, il mondo del «command and control» si sta trasformando in quello del «sense and respond». Occorre essere sensibili a ciò che accade e reagire appropriatamente, ma alcune realtà si rifiutano di prenderne atto.

Come osservano Bradley e MacDonald, questo atteggiamento di paura del nuovo deriva anche dalla mancanza di conoscenza, non solo del social software, ma delle tecnologie di comunicazione disponibili anche più basiche, come ad esempio la telepresenza. Manca inoltre del tutto la comprensione del fatto che i social network sono sempre più usati non solo dai “Nativi Digitali”, ma dalle persone molto più in là con gli anni e che in particolare è in significativa crescita la percentuale di over 60. Esemplare la seguente testimonianza raccolta nella ricerca di Social Minds di una banca che qui lasceremo anonima: “Adesso la nuova frontiera è quella del cliente che si informa online, la cross canalità, ma non è scienza, è buon senso. Il tema aperto è: come posso usare i social per fare business vero? I clienti che oggi contano molto per noi sono i clienti anziani, su questi facciamo davvero raccolta. Non è quindi questo il canale giusto, perché i miei clienti più importanti sono tutti in pensione, non hanno problemi di tempo e vengono in banca. È come se pensassimo al medico online, che ti visita online, e la banca è un po’ come il medico, se devi fare delle operazioni di routine te le fai da solo, ma se devi chiedere consulenza per qualcosa di rilevante deve esserci sempre un omino… Quindi i social come possono aiutarci, ma su un target che ci interessa? Abbiamo visto che i figli dei nostri clienti diventano nostri clienti, in automatico, e noi abbiamo comunque numerose iniziative per i giovani (come la carta ricaricabile a partire dai 12 anni). I giovani non sono comunque il target che al momento ci interessa”.

Anche nelle realtà più lontane dai modelli della social organization, tuttavia, può nascere la consapevolezza della potenza dei social media. Ciò avviene tipicamente nel marketing. In questo quadro i canali social, quando esistono, sono invitabilmente affidati ad agenzie esterne come accade nel caso di due BCC, Carate Brianza e Fornacette, che così rispondono alla domanda “Come gestite i canali social?”

BCC Carate Brianza: “Ci interfacciamo con un’agenzia, i contenuti sono nostri ma l’impalcatura e la struttura è gestita da una società scelta accuratamente e che secondo noi riesce a darci una valida consulenza. Insieme a loro abbiamo scelto di non essere presenti per il momento su Facebook, ma solo su Twitter e Youtube. Riteniamo che una banca debba essere sui SN, ma seguendo la propria etica”.

BCC di Fornacette (BCC for Web): “Questa attività viene svolta tutta da un esternal outsourcing anche per problemi strutturali che la banca ha, nel senso che la banca deve tenere attivi dei protocolli di sicurezza tali che non ci consentono di accedere liberamente alla rete se non tramite accorgimenti particolari come le chiavette, che però non ci permettono di avere una connessione fluida costantemente attiva tale da poter essere garantito un monitoraggio sufficiente.

Questo ci ha spinto ad affidare la gestione ad un esterno. Con la società esterna vengono concordate le linee di comunicazione, e nell’ambito di queste linee strategiche la società si muove autonomamente, quindi sceglie i contenuti in totale autonomia. Noi diamo loro delle indicazioni ma poi loro si muovono da soli”.

Singola funzione/singole persone dedicate ai social

Le organizzazioni allo stadio 2 (Comunità emergenti)  si caratterizzano per la ricerca di nuove opportunità di sviluppo in termini di management 2.0 e l’avvio di progetti pilota, soprattutto nei settori Marketing, ICT e HR. È  da questo che Morgan riconosce una “exploratory organization”. Una situazione corrispondente in buona misura anche a quella che l’Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano definisce di “process change”, in cui   le iniziative Enterprise 2.0 sono spesso nate per «supportare ben determinati processi aziendali, all’interno dei quali sono rimaste confinate».

Queste sperimentazioni sono rese possibili dal forte supporto e coinvolgimento dei top manager più illuminati, che spesso devono coraggiosamente impegnarsi contro un persistente muro di ostilità. Per chi si è   assunto la responsabilità di avviare il cambiamento l’obiettivo principale   è   quello di educare il management alle nuove opportunità offerte dalla   social organization, anche grazie all’appoggio di almeno un top manager che sponsorizza le attività social. Di norma in questi contesti si registrano in tutto o in parte questi fenomeni:

sono stati identificati dei «social champion» per ciascuna funzione   aziendale chiave (HR, Comunicazione, ICT, Legal ecc.) con il compito di coordinare le attività e le iniziative pilota;

community pilota hanno dei community manager e sono dotate di un set di obiettivi chiaramente definiti;

sono stati creati account aziendali sui principali social network;

esistono precise guidelines per l’utilizzo dei social network da parte dei dipendenti;

l’organizzazione reagisce ai commenti dei consumatori sui canali social;

l’organizzazione proattivamente costituisce forum o luoghi di incontro in rete con gli stakeholder;

i social media vengono utilizzati nell’ambito del crisis management;

è attivo un programma strutturato di ascolto e monitoraggio con un responsabile esplicitamente formalizzato;

vi è un flusso regolare di comunicazione – sia formale sia informale – relativo alle iniziative delle community pilota;

un programma di formazione ad hoc almeno per alcune popolazioni aziendali fa parte delle normali attività di training.

A questo stadio di sviluppo sembrano appartenere Emilbanca Credito Cooperativo, Montepaschi, IW Bank e Unicredit. Alle domande poste da Social Minds “Che tipo di organizzazione interna avete strutturato per adempiere a questi obiettivi? Chi si occupa del piano editoriale e della gestione dei social media? Avete una social media policy nei confronti dei dipendenti?”, rispondono così:

Emilbanca Credito Cooperativo: “E’ un’attività che viene presidiata dall’area che cura l’identità aziendale all’interno della quale vi sono la funzione “responsabilità sociale e comunicazione”, che presidia la comunicazione e la relazione con gli utenti, e la “funzione stampa”, che   collabora come gestione dei contenuti. […]

Quando siamo partiti con il progetto di gestione di FB, contemporaneamente stavamo lavorando ad un progetto di coinvolgimento dei giovani collaboratori, anche in vista di un ringiovanimento della cultura aziendale. Da loro è nato l’interesse ad aprire un canale sui social network, è emersa proprio la necessità di un profilo della banca. Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo canale avevamo costituito una sorta di comitato di redazione dedicato per provare a mantenere coinvolte una serie di persone anche anagraficamente giovani e probabilmente più attive su questi canale, ma poi anche per mantenere una sorta di filone       tematico coerente con i vari media, compreso il blog che è quello che per sua natura assorbe maggiori risorse perché è quello più impegnativo. Poi, per tutta una serie di situazioni legate a fattori contingenti, cambiamenti di ruolo e disponibilità, oggi rimane la gestione da parte soprattutto di 3 o 4 persone che operano stabilmente riversando le energie principali al lavoro su questi canali. Ovvio che poi c’è una apertura e una sensibilizzazione interna costante. […] La struttura   organizzativa quindi è piuttosto snella, con un presidio fisso giornaliero   e      delle collaborazioni che provengono dallo stesso ambito organizzativo”.

Monte dei Paschi di Siena: “Siamo riusciti a portare avanti tre canali social mantenendo una struttura organizzativa minimale costituita da tre persone. Non c’è mai stata una vera e propria formalizzazione    dell’esistenza di questi canali, né tanto meno dell’organizzazione. Tutti in MPS sanno che siamo su questi tre canali, anche se non sono accessibili dall’interno… Siccome FB è diventato il terzo portale più visto dopo Repubblica   e la Intranet, una scelta anche se a malincuore andava fatta per limitare il danno alla produttività. Anche se poi i dispositivi per connettersi a questi canali sono nelle tasche di tutti, almeno sui computer dell’azienda si è deciso di limitare l’accesso a chi effettivamente ci lavora. […]

Dopo che tutti questi ambienti sono stati avviati, abbiamo visto che bisognava fare un passo in avanti. Quindi abbiamo redatto un documento informativo in cui viene spiegato cosa sono questi canali, a cosa servono per la banca e chi li gestisce, ovvero il gruppo dedicato nell’area comunicazione. Su questi canali i dipendenti possono interagire a livello personale, ma per scrivere a nome della   banca ne devono fare richiesta.

Uno dei problemi maggiori è il registro linguistico: uno dei lavori più faticosi in questi giorni di crisi è stato quello di evitare che le risposte date a chi faceva le domande fossero scritte in “bancarese”. Non per incapacità, ma perché la forma mentis di un ufficio legale è difficile che entri nelle logiche e nei linguaggi adatti ai social media […]

Tutta l’attività dedicata all’ascolto e al monitoraggio, relativo ai social network e al capitale reputazionale, sono seguiti da elementi specifici del team che si occupano di quell’aspetto e del web. […]

A livello di policy interna, i nostri dipendenti non accedono a Facebook. Quindi il dipendente nelle ore extralavorative si aggiorna attraverso Facebook, dà il proprio contributo, i propri commenti su questi canali con un’affezione extralavorativa, in forma personale, senza spendere il nome della banca”.

IWBank: “La gestione dei canali social della banca è in carico dell’area dedicata alla comunicazione. Nello specifico il social media team si occupa del presidio quotidiano in stretta collaborazione con l’agenzia stampa e PR. Il team, che nei prossimi mesi verrà potenziato, prevede l’impiego full time di una risorsa interna e in affiancamento altre due risorse dell’ufficio comunicazione.[…]

La  principale  complessità rilevata alla partenza del progetto è stata sicuramente relativa alla preparazione e alla conseguente formazione del personale dedicato. Attualmente possiamo affermare che stiamo raccogliendo   risultati incoraggianti e che il team si dedica quotidianamente con passione   e   dedizione […].

La   gestione dei profili aziendali sui social media è riservata esclusivamente   all’ufficio comunicazione di IWBank. Attualmente non è stata stabilita una   policy interna per i dipendenti ma è previsto che venga fatto a breve”.

UniCredit: “Da noi l’ufficio stampa fa un lavoro molto imponente sugli stakeholders attraverso Twitter. Facebook è invece gestito da chi si occupa del brand del gruppo, che ha raccolto da subito migliaia di ingressi. È un’attività che cerca di essere un ponte e fungere anche da dialogo commerciale verso i follower della rete.

In Unicredit è stato inoltre creato il “Social Media Lab”,  un gruppo misto e interdisciplinare dove c’è chi si occupa di ufficio stampa e chi di marketing. […] Un gruppo quindi di persone che provengono da vari uffici e funzioni, che gestisce a livello organizzativo, di piano editoriale e pubblicazione dei contenuti tutti i social. Noi siamo supportati comunque per quanto riguarda l’attività di community management e gestione dei thread da un fornitore esterno. Questo compie un’attività di base di lavoro del piano editoriale settimanale e quindi fa da primo filtro anche delle richieste e domande di caring. Dopo di che è il Social Media Lab che interviene e a seconda dell’attività richiesta coinvolge il caring, o il marketing o i legali […].

Siamo poi attrezzati sotto il profilo della governance, tanto che abbiamo due specifiche policy: una social policy e una social media policy specifica soprattutto dedicata a chi si occupa di ufficio stampa e relazioni coi media. […] c’è una social media policy condivisa a livello di gruppo, ci sono delle linee guida sia dal punto di vista di come costruire e quali obiettivi dare ai canali, ma anche delle linee guida specifiche sui contenuti e su come gestire le crisi sui social…ma anche dal punto di vista organizzativo, nel senso che in ogni Paese è stato formato un gruppo come il   Social Media Lab, quindi interfunzionale”.

Hub-and-spoke

Il terzo Stadio di sviluppo è quello denominato “Comunità diffuse” (“defined organization”, nella terminologia di Morgan, situazione di “cultural trasformation” per l’Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano). Qui  i manager hanno un atteggiamento costruttivo e hanno compreso come funziona una social organization. L’intera organizzazione sta cominciando a sviluppare competenze specifiche nell’uso dei social media per raccogliere, alimentare e ottenere valore concreto dalle community. Tutto questo si traduce nel fatto che:

l’organizzazione conta numerose community interne ed esterne;

esiste un team dedicato al loro coordinamento, all’ascolto strutturato degli stakeholder, al monitoraggio sui risultati conseguiti (in base a metriche radicate negli obiettivi aziendali);

il modello organizzativo prevalente è quello per hub and spoke (che è poi quello utilizzato da Barack Obama): un gruppo di esperti trasversali alle varie funzioni aziendali, organizzati in una specifica community collaborativa, individuano, descrivono e tengono aggiornati i contenuti chiave oggetto delle conversazioni, che poi figure professionali dedicate (community manager, blogger, web editor, eccetera) veicolano verso l’esterno su specifici social media (ognuno dei quali necessita di specifiche competenze), sul sito web/blog aziendale, attraverso brand community appositamente create, eccetera;

l’individuazione di esperti knowledge owner e giovani da avviare al community management è stata realizzata attraverso l’utilizzo di Organizational/Knowledge Netwkork Analysis (per l’individuazione di una prima rosa di persone che costituiscono snodi conversazionali rilevanti) abbinata a strumenti più tradizionali di Talent Management (per la scelta delle persone con le migliore competenze collaborative da avviare ai ruoli di governance e di presidio delle community);

sono state introdotte applicazioni o piattaforme di lavoro collaborativo in maniera diffusa per orientare la cultura verso modelli social, accompagnandole con strumenti di valutazione della performance orientati a premiare il lavoro collaborativo;

si registra la presenza di social media policy incentivanti e aperte.

In questo gruppo, dallo studio di Social Minds, sembrano collocarsi BNL e   ING Direct.

BNL: “Noi abbiamo due grandi opportunità e differenze rispetto alle altre grandi banche italiane: la prima è che siamo una banca di origine francese ma di diffusione mondiale e siamo tutti costantemente in contatto, quindi il gruppo non fa che sollecitare nuove idee o rendere contemporaneo ciò che esiste già, sottolineando la cultura proattiva del gruppo. La seconda è che abbiamo un management assolutamente aperto a livello di cultura aziendale.

Ci sono 42 persone (BNL People) che lavorano dietro i social e più della metà nel customer care: sono quelli che servono a fare le “escalation di primo e secondo livello”, quando arrivano le domande critiche. La cosa complessa non è stato convincere il management della bontà dell’iniziativa, ma rassicurarlo sul fatto che eravamo pronti a tenere testa alla grande quantità di domande che arrivano, riuscendo a stare dietro ai tempi dello strumento.

Oggi c’è bisogno di lavorare sui processi di organizzazione, cambiati con l’ingresso dei social, siamo dovuti diventare tutti più liquidi e non è per niente facile. […]

Il modello organizzativo scelto è quello per hub & spoke. C’è una redazione centrale fatta dai capi delle singole strutture intorno a BNL People, la direzione comunicazione e un’agenzia social che ci aiuta sia in una visione più strategica che nella gestione ordinaria. Però poi c’è anche un’organizzazione periferica, che è fatta dal capo progetto che coordina la propria squadra, formata da persone che ben conoscono l’argomento centrale del canale. Perché chi è che parla al mondo retail se non il mondo retail? Chi è che parla di mutui se non l’esperto di mutui? Quindi per assicurare il contenuto dobbiamo andare da chi lo scrive il contenuto. Questa è la nostra attuale organizzazione di cui siamo estremamente soddisfatti”.

ING Direct […] Da aprile 2012 l’intera responsabilità del social è passata all’interno del marketing, nel reparto branding and communication al quale si è aggiunta la voce social media. All’interno poi vi è un ulteriore team social.

Una scelta che va a inglobare funzioni diverse per ragioni di efficienza, semplicità, importanza e consapevolezza della velocità necessaria in questo mondo. Ci siamo accorti che una gestione non integrata faceva si che arrivassero messaggi contrastanti e che per nessun reparto la comunicazione sui social fosse la priorità, mentre la direzione generale ci ricorda di tener presente che il social è il futuro, tanto più che siamo una banca online.

Quindi a livello organizzativo un team dedicato sotto   un’area è risultato più efficiente.  Questo non vuol   dire che non ci siano inserimenti da parte di altri team, gestiti con una logica di hub & spoke. La gestione è nel marketing, quando poi ci sono da chiamare altri reparti, ad esempio per gestire una risposta critica, ci si confronta. […]

Noi abbiamo aperto i canali social all’inizio per finalità   di   immagine, di relazione, di ingaggio a 360 gradi, ma questo fa si che ci sia tutta un’altra parte da seguire, ovvero l’area di workcare dove le persone chiedono informazioni, anche semplici, o espongono problemi. Per questo motivo nel nostro team siamo in 4: uno che si occupa di social media e di brand communication, poi ci sono 3 persone divise per aree di competenza. C’è la persona che si occupa dei contenuti, del calendario e del blog aziendale, che vogliamo diventi sempre più social e che sia sempre più integrato anche perché ben risponde al nostro posizionamento sul mercato. C’è una persona che segue la parte di engagement e di community, quindi ha il ruolo di mantenere la community, ingaggiarla e occuparsi del budget a supporto della riuscita della community. Mentre le prime due vengono dal marketing, c’è una terza persona che segue il service e il workcare e viene dal settore del customer care.

È quindi un team multidisciplinare. Il canale è lo stesso ma le diverse funzioni che stanno dietro sono legate alle responsabilità di ogni singola persona. Al momento per noi per noi questa è la migliore soluzione gestionale data la mole di lavoro attuale. Ovviamente al crescere della community andrà rivista l’organizzazione, soprattutto sul webcare.

Per quanto riguarda la social media policy, l’abbiamo appena completata e la manderemo a tutti i dipendenti. Spiega esattamente cosa i dipendenti possono o non possono fare sui social.

La nostra visione era di lasciare molto aperto il coinvolgimento con i canali social, nel senso che vorremmo che anche i nostri dipendenti diventassero ambasciatori delle nostre attività e quindi le condividessero: quindi non vietiamo il like, ad esempio.

Il primo passo sarà inviare la policy a tutti e poi vorremmo coinvolgere i dipendenti (cosa che già facciamo, per esempio alcuni spot sono girati con i dipendenti stessi), facendoli diventare promotori del cambiamento, anche in riferimento a proposte interne all’azienda.

Invece su ciò che sono le informazioni di business vale la nostra media relationship policy, quindi in questo campo i dipendenti non possono a loro nome rispondere ai clienti, fornire informazioni, etc. Solo il team social è autorizzato a postare su Facebook, quindi tutto è gestito in logica Facebook e tutte le risposte passano da noi”.

Organizzazione flessibile

La perfetta integrazione delle community nei processi rappresenta lo stadio di maturazione (in cui l’impresa è divenuta una “adoptive organization” secondo Morgan, ovvero rientra nel cluster «business trasformation» descritto dall’Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano), a cui oggi molto raramente le organizzazioni pubbliche e private possono dire di essere giunte. Più facilmente si realizza questa situazione per le aziende che nascono già con tale filosofia.

È comunque importante sottolineare, con Bradley e McDonald, che arrivare a questo stadio non significa utilizzare la collaborazione di massa sempre e comunque; al contrario, significa avere perfettamente compreso quando e come utilizzarla per ottenere il massimo dei benefici in termini di risultati di business.

I casi Webank, Banca Mediolanum e Banca Etica sono quelli che più si avvicinano a questo modello, anche se non si può dire che lo realizzino compiutamente.

WEBANK: “Negli anni abbiamo aperto una nuova sezione del nostro sito denominata “la banca che vorrei”, ovvero una piattaforma di crowdsourcing sulle migliorie della banca, da dove abbiamo sviluppato moltissime idee dei nostri clienti. È importante sottolineare che ci siamo aperti al cliente, anche per quanto riguarda il processo stesso di ideazione del prodotto/servizio, ma tutte queste attività nascono nella mia area, che funge da motore, ma diventano poi un modello condiviso. Ad esempio, in “la banca che vorrei”, il processo che segue l’idea per lo sviluppo e l’implementazione segue l’iter che seguono i progetti interni: c’è la valutazione del product manager, l’analisi dal punto di vista funzionale, e il cliente viene costantemente aggiornato sullo stato della sua pratica, così come se fosse proprio un manager interno.

Quindi tutta l’azienda è stimolata da un comportamento di ascolto e implementazione di quello che il mercato richiede e questo ci offre una grossa possibilità: in Webank all’evoluzione del servizio ci pensa il cliente (invece che il product manager), perché chi più del cliente può dirci che cosa vuole? Ci hanno chiesto di dare un nome alle linee vincolate, perché magari ci sono clienti che hanno 4/5 linee vincolate e il nome gli serve per capire che cose serve dare un vincolo su quel deposito, per cui il product manager non pensa più ma pensa il cliente. È un pezzetto di evoluzione della professionalità che si occupa del pensiero laterale, dello sviluppo di cose che non ci sono ancora.

Altro esempio, siamo stati i primi due anni fa a lanciare il social customer care su Twitter, e sono i nostri colleghi del customer care che si occupano di interagire con questo canale, quindi così come rispondono alle mail e al telefono, seguono anche i tweet dei clienti. Questo proprio per sottolineare che al nostro interno c’è un processo condiviso, perché la nostra azienda vive su un’intelligenza collettiva, coerente con la nostra mission e vision, il cui fine ultimo è creare relazioni di fiducia che noi chiamiamo “X.0” perché qualsiasi sia l’evoluzione che avrà internet, il nostro intento è di rimanere nell’ambiente cercando di fare la differenza.

Il customer service segue il social customer service, ci sono tre membri scelti all’interno del team ai quali all’inizio abbiamo fatto formazione per conoscere lo strumento, abbiamo fatto una simulazione con un account fake; in realtà c’è una forte collaborazione e sinergia e siamo noi di comunicazione che spesso informiamo i nostri colleghi che non possono avere sempre la visione al 100% sui tweet postati.

[…] Facebook e Youtube sono presidiati dall’area dedicata alla comunicazione. E di questo corollario di ambienti tutta la struttura ne ha conoscenza, ne è partecipe.[…] Nella nostra azienda siamo in 250, siamo divisi su quattro piani ed è un’azienda abbastanza informale in cui ci si parla, ci si incontra. Comunque per allineare un’organizzazione interna a una relazione social esterna, abbiamo creato un social network interno, che si chiama “Brenville” dove ci sono tutti i link con l’accesso facile a tutti i social network, che ognuno può controllare, che presidiamo ovviamente, ma anche gli aggiornamenti sugli ultimi tweet, etc.

Quindi tutti possono accedere ai social e aggiungere un tassello a questa evoluzione. C’è completa apertura. Le diverse direzioni sono strutturalmente presenti nel processo, come ad esempio “la banca che vorrei”, di sviluppo di qualcosa di fattivo, il customer care è tirato dentro proprio per la sua anima più social, gli esiti del monitoraggio sono visibili nei nostri cruscotti al pari dei clienti, delle masse, delle revenue… Abbiamo un processo strutturato anche di customer experience, per cui i valori patrimoniali sono sullo stesso livello di quelli del conto economico.

È un po’ strano per una banca/azienda, forse perché noi non siamo nati come banca ma come società di servizi/comunicazione, perché più siamo intellegibili e trasparenti meno chiamate arrivano al call center, più conti riusciamo ad aprire, etc.

[…] È difficile stabilire quante sono le persone che fanno parte di questo team, poichè è variabile. C’è un nucleo composto da me e altre due persone. Poi flessibilmente ci sono anche altri colleghi, di comunicazione e del servizio clienti. Quello che facciamo noi, oltre ad avere sempre gli occhi aperti per controllare quello che succede e segnalarlo all’azienda, siamo un po’ lo spioncino a ciò che potrebbe essere: guardare le case histories estere, capire le possibili esigenze, sviluppare determinati percorsi e approcci che poi con il confronto degli altri colleghi si sviluppano e vanno a nascere dei progetti”.

BANCA MEDIOLANUM: “La scelta che è stata fatta 18 mesi fa è stata quella di avere in casa completamente la gestione delle tecnologie social della banca. Questa decisione è dettata da due motivazioni: la prima è che noi usiamo portarci e costruirci in casa il knowhow e la conoscenza di qualunque cosa, la seconda è perché a maggior ragione su un canale di comunicazione diretta e in tempo reale è necessario avere in prima linea, sul fronte, persone che conoscano molto bene i valori dell’azienda e i meccanismi, processi interni all’azienda e che abbiano tutti gli strumenti di comunicazione (non tecnici) necessari per agire-reagire in maniera tempestiva.

In questo quadro abbiamo creato un social media team  dedicato di quattro persone che si occupa esclusivamente di questo canale: tutti con una storia aziendale non giovanissima, che hanno delle attitudini di un certo tipo nelle relazioni e nell’utilizzo di strumenti tecnologici, con una attitudine personale ai social ma che fossero in grado di usarli in maniera funzionale agli obiettivi aziendali. Questo è il team, la formazione del team è costante perché ogni giorno c’è qualcosa di nuovo. […]

Esiste un connubio tra le logiche che stanno alla base dei social e l’organizzazione a monte di Banca Mediolanum, è una peculiarità che abbiamo. Ogni singolo family banker porta il brand con le persone, stringendo relazioni che vanno al di là del freddo rapporto contrattuale. FB sembrava fatto apposta per noi. È ovvio che poi per vendere ci deve essere una prospettiva di business, ma quando siamo partiti abbiamo fatto in modo di garantire la presenza dei nostri family banker su FB.

Come? Abbiamo sviluppato un’applicazione, si chiama “trova il tuo family banker”, in cui ogni family banker è collegato con il suo profilo   FB, la sua foto, i suoi account social, con la possibilità per il potenziale cliente di contattarlo direttamente, visitando prima il suo profilo FB e cercando affinità con il family banker, grazie ad una piccola descrizione (bio) che ogni family banker fa di se stesso in 140 caratteri. Abbiamo voluto fare questo e funziona, perché si va al di là del titolo di studio o all’anzianità, si passa dalla foto e da una bio in cui descrive se stesso. Siamo convinti che l’affinità vada al di là di quello che è il titolo, è importante consentire al cliente la massima opportunità di scelta, scegliendo quindi la persona, che passa in primo piano. Con questo strumento abbiamo ritrovato il modo di mettere al centro la persona, non imponendo una scelta a senso unico, perché a volte succede: ho bisogno   di   entrare in contatto con voi e mi viene detto di presentarmi il giorno X, all’ora Y e di parlare con “Mario Rossi”. La relazione è al centro, se sono appassionato di barca a vela andrò verso chi ha la mia stessa passione”.

Banca Etica: “Abbiamo un social media team composto da 7 persone che vengono dagli ambiti più disparati della banca, chi si occupa di marketing, chi di pianificazione e controllo, chi di crediti, copre un po’ le diverse funzioni di Banca Etica. Si è formato internamente con la consulenza di un esterno e ha definito internamente sia il piano editoriale sia il modello organizzativo e anche qui la produzione di post è interna alla banca. Utilizziamo quindi uno strumento per gestire in modo collettivo il profilo Twitter della banca e questo ci permette sia di essere più vari nella produzione di contenuti, grazie alle diverse competenze interne al team, sia di essere reattivi rispetto alle richieste dall’esterno.

Importante poi per noi il ruolo dei volontari, che sviluppano una comunicazione più tradizionale (realizzano ad esempio delle loro newsletter per i soci che sono sul territorio, piuttosto che eventi, spettacoli, dibattiti o altre iniziative a livello locale), ma tutti hanno una pagina su un social network che sia chiama Zoes. Sono raggiungibili tutti insieme con i loro contenuti all’indirizzo www.git-bancaetica.it   (perché loro sono GIT – gruppi di iniziativa territoriale), che in particolar modo riguardano gli eventi, che poi vengono raccolti sul sito istituzionale della banca. Lo scorso hanno, sommandoli tutti, abbiamo fatto più di 200 eventi.

A loro volta poi i nostri soci utilizzano i propri profili FB o Twitter per rilanciare, approfondire o rendere sempre più vicina la banca alle loro reti di riferimento. Ai soci noi forniamo dei servizi di carattere formativo: oltre ad una parte di consulenza on demand noi associamo anche un’attività istituzionale di formazione che si svolge una o più volte all’anno, con i referenti della comunicazione, per approfondire le tematiche di social media.  […] La nostra strategia generale interna è quella di: apprendere per essere autonomi”.

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