Quale Team per il Cambiamento Strategico? – The Collaborative Organization, Parte Quarta


The collaborative organizationUna guida strategica al cambiamento organizzativo 2.0: riassunto delle puntate precedenti

Una volta presa la decisione strategica di riorganizzare l’azienda intorno al concetto di Collaborazione Emergente per ottenere i benefici promessi dalla Social Economy, stimati da McKinsey in 1300 miliardi di dollari (parte prima); definito il nostro posizionamento su una mappa di sviluppo organizzativo che descriva in maniera evolutiva (dal modello organizzativo gerarchico tradizionale a quello reticolare della social organization) i processi chiave su cui si gioca il futuro dell’impresa (parte seconda); chiariti i rischi cui si andrà incontro nel seguire la roadmap  del processo di trasformazione, ma anche quelli conseguenti ad una eventuale decisione contraria alle novità portate dalla valorizzazione del talento individuale al servizio della lavoro collaborativo (parte terza); tocchiamo ora insieme al nostro Morgan un punto chiave: come costruire il Team per l’avvio e la gestione del processo di cambiamento.

Come comporre il team per la gestione strategica del cambiamento organizzativo

Affidarsi infatti unicamente ad un generica partnership fra Direzione IT e linea (secondo la filosofia originaria, ma ingenua, dell’Enterprise 2.0, cfr. Verso la Corporate Social Identity: come ripensare strategia e modelli organizzativi per vincere la sfida del Management 2.0) non è la scelta più efficace. Così come non  lo è quella di lasciare libere di avviare specifici progetti 2.0 singole business unit o funzioni all’interno dei rispettivi silos organizzativi. Quest’ultima è una tentazione forte, in primo luogo perché le applicazioni e le piattaforme collaborative disponibili sul mercato sono di utilizzo così semplice che in buona misura si possono scaricare e attivare anche senza alcun supporto da parte della funzione IT: valga per tutti l’esempio della versione sample di Yammer, il cui utilizzo pone le stesse difficoltà di gestione di una pagina Facebook, ovvero è alla portata di un bambino (anche se molti manager qui si troveranno a ripetere la famosa gag di Groucho Marx: “E’ una cosa così facile che la capirebbe anche un bambino di quattro anni. Presto, portatemi un bambino di quattro anni che non ci capisco niente!”).

Ma questa soluzione piace fondamentalmente perché da una parte salva in apparenza la capra dell’organizzazione tradizionale lasciando i cavoli (inizialmente anche assai amari) dei processi di cambiamento al manager visionario e coraggioso che si assume la responsabilità di portare avanti l’innovazione organizzativa all’interno della sua unità o per uno specifico progetto (con il suo budget!). Tuttavia, si tratta di una pseudo-soluzione, che  in genere nasconde la volontà di difendere ad oltranza il passato invece che procedere verso il futuro. Confinare la portata della collaborazione emergente ad una sola unità organizzativa (a meno che naturalmente non si tratti di un pilota o di un laboratorio finalizzato a sperimentare una soluzione che poi si intende trasferire a tutta l’azienda) è contrario al principio fondamentale della social organization, che è l’apertura dei confini organizzativi sia all’interno che all’esterno. Che questo sia il principio cardine dell’innovazione contemporanea è  dimostrato da moltissimi elementi. Uno per tutti: l’affermarsi della cosiddetta “cross-innovation” (già al centro della Wikinomics di Tapscott), che un articolo apparso sull’ultimo numero di Affari e Finanza di Repubblica definisce come “la strada maestra da percorrere nell’economia globale”: “innovazione che non nasce più solo dai processi produttivi di una singola azienda, ma fermenta nell’intreccio di esperienze e nelle partnership tra imprese, anche concorrenti”.

Peccato che i manager italiani non perdano l’occasione per dimostrarsi del tutto impreparati. Secondo un sondaggio Manageritalia su 1.294 dirigenti italiani, “il 51,1% degli intervistati non sarebbe disponibile a collaborare con i concorrenti per sviluppare innovazione e il 31,4% è scettico di fronte alla possibilità di creare comunità professionali aperte alla partecipazione di soggetti esterni. Purtroppo (per loro), le aspettative dei manager sono sempre più smentite dalle strategie aziendali che, anche nel caso di colossi multinazionali, accettano di condividere progetti ambiziosi con altri competitor”.

Il team per la gestione strategica del cambiamento

Una impresa seriamente intenzionata a procedere verso la Collaborative Organization deve attrezzarsi con un team che, sotto la regia tecnica della Direzione HR e con un fortissimo commitment da parte dell’Amministratore Delegato, idealmente (ovvero salvo i correttivi resi necessari dalla specificità delle singole situazioni) dovrebbe comprendere:

un senior executive a livello di Top Management che guidi l’iniziativa dall’alto;

i leader delle business unit che devono implementare il cambiamento;

professional della Direzione IT che gestiscano i processi di integrazione e sicurezza;

professional della funzione legale che prestino assistenza nella redazione di policy e guidelines;

un gruppo di utilizzatori esperti che agiscano come “evangelist”. E’ importante disporre di un buon numero di queste figure, ben distribuite geograficamente e a tutti i livelli dell’organizzazione;

project manager che siano in grado di gestire tutti le parti del processo di cambiamento in un quadro sinergico e unitario;

un gruppo di dipendenti non esperti di web 2.0 che siano disponibili a testare le nuove piattaforme e a disegnarle in maniera tale che la user experience risulti il più possibile soddisfacente;

rappresentanti degli stakeholder esterni che si desidera coinvolgere nei processi di lavoro collaborativo.

Per quanto riguarda responsabilità e compiti della funzione HR rimando alla serie di 7 post Una social media strategy per le risorse umane. Vediamo invece più in dettaglio caratteristiche e ruoli degli altri componenti del Team di Cambiamento.

Senior executive

Avere nel team almeno un Top Manager è essenziale, per ragioni probabilmente chiare a tutti, ma che comunque è bene riassumere. In primo luogo, la presenza attiva di un Top Manager nel processo di cambiamento testimonia la volontà forte del Top Management di investire nel lavoro collaborativo e incoraggia tutti i dipendenti ad impegnarsi nel cambiamento. In secondo luogo, è importante avere a disposizione un manager che sia in grado di prendere rapidamente decisioni strategiche o di portare la presa di decisione sul tavolo del Board. Infine, avere in squadra almeno un manager che ha il potere formale e il budget necessari per condurre le operazioni aumenta le possibilità che il progetto si traduca in concrete realizzazioni. Quando il livello Top non è direttamente coinvolto nei progetti di change management, le iniziative sono destinate a tradursi in “raccomandazioni ad agire” invece che in “azioni” effettive.

Business Unit leaders

Questi manager (a livello di quadri o dirigenti) possono incoraggiare l’adozione delle nuove piattaforme collaborative all’interno delle unità di cui sono responsabili. Inoltre, possono aiutare a definire specifiche applicazioni e modalità di utilizzo relative alla loro area di competenza. Per entrambe queste ragioni, è assolutamente cruciale che essi siano pienamente consapevoli e responsabilizzati con tutti gli strumenti disponibili (a partire dalla politica retributiva per arrivare a specifiche iniziative di comunicazione e training per i più ostili o i meno abituati al web 2.0. Ne parliamo meglio sotto).

IT Professionals

Anche se molte applicazioni 2.0 sono facilmente scaricabili senza alcun aiuto, è importante che la funzione IT sovraintenda all’integrazione delle piattaforme collaborative all’interno della infrastruttura aziendale, garantendone in particolare la sicurezza, nonchè la possibilità di mantenerle sempre attive e di “upgradarle”, mano a mano che sono disponibili nuove release. In alcuni casi, proposti da Morgan nel suo libro, la funzione IT è stata fra i protagonisti del processo di cambiamento, il che è naturalmente auspicabile: ma anche se non ci dovesse essere un particolare entusiasmo in area IT verso queste innovazioni (che da un certo punto di vista tolgono potere ai manager dell’informatica), va assolutamente evitata la tentazione di procedere senza il suo supporto.

Compliance e legal

Avere la certezza che i dipendenti utilizzino le nuove possibilità di accedere alle informazioni e che le condividano nel rispetto delle norme giuridiche e della necessaria riservatezza (ad esempio tutelando copyright, segreti industriali, eccetera) è decisivo, non solo in settori come quello bancario e assicurativo, ma in tutte le organizzazioni, specie se complesse e di dimensioni internazionali. Per questo è necessario avere in squadra delle persone che conoscano molto bene la realtà normativa e giuridica con cui deve fare i conti l’azienda che intraprenda il cammino del cambiamento. So per esperienza quanto possa essere faticoso il confronto con gli avvocati, che in genere tendono a sottolineare ciò che non si può fare e a consigliare soluzioni restrittive e punitive, piuttosto che indicare possibili modalità per risolvere positivamente le questioni, tanto più quando si tratta di quelle poste da un modello per sua natura radicalmente opposto al paradigma tradizionale e rassicurante del Comando e Controllo. Inoltre la legislazione anche internazionale su molti temi posti dalle nuove frontiere del web è tutt’altro che chiara e necessita di una continua attenzione ad un panorama normativo in perpetua evoluzione: anche questo agevola un atteggiamento di chiusura da parte di chi ha la responsabilità degli aspetti legali del progetto. Tuttavia, proprio per questi motivi, è indispensabile avere in squadra almeno un paio di giuristi (possibilmente uno molto esperto, ovvero con una ampia conoscenza delle problematiche relative allo specifico settore di business, e uno magari più junior, ma aggiornato sui temi del 2.0 e di mentalità aperta all’innovazione). 

Evangelist

Gli Evangelist, ovvero i “campioni del cambiamento” presenti in tutte le aree aziendali che con la loro azione quotidiana sollecitano, supportano e spingono proattivamente l’organizzazione verso l’adozione dei nuovi processi e strumenti di lavoro, devono costituire un gruppo numeroso e soprattutto ben selezionato. Come? Gli Evangelist sono persone che credono veramente (e non opportunisticamente) ai valori che sono alla base del Management 2.0 (cfr. seconda parte del post HR 2.0? Una social media strategy per le risorse umane. Parte settima.Dalla famiglia professionale alla learning community),  amano il lavoro collaborativo, sono leali nei confronti dell’azienda e non di una cordata di potere interno, hanno delle competenze specifiche in ambiti decisivi per il raggiungimento dei risultati e conoscono bene il web 2.0. Insomma proprio quelli che a causa delle logiche perverse del Management 1.0 tradizionalmente vengono trascurati, marginalizzati se non addirittura espulsi dall’organizzazione.

Project managers

Queste figure sono le stesse che sono necessarie in qualsiasi progetto complesso. Devono monitorare lo sviluppo dell’iniziativa a livello globale e nelle sue specifiche articolazioni, individuare prima possibile eventuali problemi emergenti e segnalarli  al team. In una parola, devono garantire che il progetto si evolva nella giusta direzione nei tempi previsti.

User Experience e Design

Un aspetto essenziale del lavoro collaborativo è che si svolge prevalentemente su piattaforme digitali. E’ dunque cruciale che queste piattaforme siano molto facilmente fruibili e che la user experience sia il più possibile soddisfacente. E’ vitale perciò il processo di personalizzazione della piattaforma che verrà utilizzata, che dovrà flessibilmente adeguarsi alle particolari esigenze delle community aziendali che si è deciso di attivare. Per uesto occorre disporre di un panel rappresentativo di dipendenti (in termini di età, livello contrattuale, conoscenza del web 2.0, possesso di competenze che si desidera vengano socializzate) che in fase di beta test offrano dei feedback utili per la messa a punto dello strumento. Se poi ad una o più community dovranno partecipare altri stakeholder (clienti, fornitori, partner, eccetera) è naturalmente necessario disporre di analoghi campioni rappresentativi disponibili a partecipare alla fase di test.

Come gestire l’ostilità al cambiamento

E’ un tema che abbiamo già trattato in HR 2.0? Una social media strategy per le risorse umane. Parte quinta: Training The Company, ma su cui vale la pena di tornare. Tanto più l’organizzazione è grande e complessa, tanto più avremo persone che si opporranno all’introduzione di nuovi modelli organizzativi, processi di lavoro e strumenti. La chiave per risolvere il problema non sta nell’escluderle, bensì nel dar voce alle loro preoccupazioni, ansie, frustrazioni. Spesso chi inizialmente si oppone al nuovo, quando ad esso si converte diventa un potente Evangelist. Il suggerimento quindi è di identificare chi si oppone al rinnovamento (cosa non sempre facile, perché in molti casi questi oppositori si limitano a sabotare silenziosamente il progetto, non a palesare esplicitamente la loro avversione) e cercare di coinvolgerli, ponendo loro domande quali:

Per quali ragioni sono contrari a soluzioni e modelli organizzativi 2.0?

Non ritengono che una efficace collaborazione fra dipendenti sia importante?

Vedono aree di miglioramento rispetto ai processi di comunicazione e collaborazione in azienda?

Cosa potrebbe renderli più supportivi rispetto al processo di introduzione di strumenti di lavoro collaborativo?

Porre domande di questo genere aiuta a capire meglio la vera natura delle resistenze al cambiamento, da dove vengono e per quali motivi. Sulla base dei feedback, sarà più semplice costruire un Piano di Comunicazione e Formazione efficace anche nell’abbattere le barriere (spesso solo psicologiche) elevate per contrastare il rinnovamento.

Come gestire la fase di coinvolgimento nell’iniziativa

Una volta rimosse, nel limite del possibile, le resistenze al cambiamento, si può passare alla fase di coinvolgimento (engagement) delle persone nel processo. E non è difficile: basta cominciare a chiederlo. Ancora una volta: come?

In primo luogo è bene rivolgersi a persone e a team che abbiano già mostrato interesse per il tema. Mi sorprenderei se in organizzazioni grandi e complesse non esistessero già gruppi o funzioni aziendali che stanno sperimentando una qualche forma di lavoro collaborativo utilizzando tecnologie sociali anche molto semplici quali wiki, microblog, forum, piattaforme di idea management, soluzioni di Education 2.0 basate su concetti di gamification, eccetera. Ecco allora che un ottimo primo passo nella giusta direzione consiste nel raccogliere queste esperienze e incoraggiarne la condivisione.

Altre iniziative utili in fase di avvio potrebbero essere le seguenti:

realizzare delle indagini presso i dipendenti per verificare in quali aree organizzative, funzioni o processi aziendali loro gradirebbero maggiormente sviluppare modalità di lavoro collaborativo;

creare un caso pilota e presentare pubblicamente i risultati ottenuti;

fare benchmarking, raccogliendo case history ed esempi rispetto a quanto a stanno facendo su questi temi altre aziende, specie se diretti competitor o attori rilevanti nel settore merceologico di appartenenza;

sviluppare una attività di comunicazione interna finalizzata a spiegare con chiarezza i benefici che verrebbero innanzitutto ai dipendenti e quindi all’azienda nel suo complesso dall’introduzione del nuovo modello della collaborative organization.

In sintesi, come spiega bene un classico articolo sulla psicologia del cambiamento organizzativo pubblicato su McKinsey Quarterly nel 2003, quando si chiede alle persone di modificare i propri modelli cognitivi, prima ancora che i loro comportamenti, come nel caso che stiamo analizzando, occorre accertarsi che a) capiscano esattamente in che cosa consiste la proposta di cambiamento, b) siano d’accordo con essa: almeno abbastanza per fare un tentativo. Le strutture circostanti (a partire dalle politiche retributive e dai sistemi di riconoscimento pubblici) devono quindi essere in sintonia con il nuovo comportamento richiesto. In terzo luogo, è necessario che le persone abbiano le capacità tecniche per fare ciò che è necessario (e se non le hanno occorre agire con la leva della Formazione). Infine, le persone devono poter verificare che soprattutto coloro che occupano posti di responsabilità agiscano coerentemente ai nuovi modelli.

Il processo di change management: il quarto step

Riassumendo.

1) La costruzione di un Team dedicato alla trasformazione dell’azienda tradizionale in una social organization richiede che vengano selezionate persone non solo dall’IT, ma da diverse funzioni aziendali: HR (che è bene abbia la regia tecnica del processo), Legal, Project Management in prima battuta, ma poi rappresentanti di tutte le community che si intendono creare nei ruoli di Evangelist e/o User experience Tester;

2) E’ importante la partecipazione attiva sia di esponenti del Top Management, che dei middle manager;

3) Prima di partire è bene mappare tutte le resistenze al cambiamento per poterle gestire al meglio;

4) Occorre mettere a punto un accurato Piano di Comunicazione e Formazione per assicurare il coinvolgimento di tutti fin dall’inizio del progetto.

The Collaborative Organization. 4. Continua

Vedi anche:

The Collaborative Organization. Parte Prima: Cultura e Tecnologia

The Collaborative Organization. Parte seconda: La forza dei legami deboli

The Collaborative Organization.Parte Terza: i rischi della Collaborazione Emergente

Quale strumento per il lavoro collaborativo? – The Collaborative Organization, Parte Quinta