E' in uscita L’IMPRESA NELL’ERA DELLA CONVERGENZA. Il volume, curato da Luigi Ferrari e che si avvale di collaboratori prestigiosi come Massimo Bartoccioli e Mario Ruotolo, oltre che di un contributo di Nando Pagnoncelli, si fonda su un assunto apparentemente semplice e “scontato”, ma in realtà gravido di complesse conseguenze: grazie all’avanzamento dell’evoluzione tecnologica in chiave di convergenza degli strumenti di comunicazione disponibili (pc, radio, televisione, email, eccetera), si vengono a delineare, per le imprese del terzo millennio, che devono e vogliono comunicare con i propri pubblici (clienti in primis, ma anche cittadini, comunità, opinion leader, media, istituzioni: in una parola tutti i soggetti con cui l’impresa entra in relazione e che vengono di solito definiti con il termine stakeholder) innumerevoli quanto innovative opportunità per intrattenere relazioni, ricevere e trasmettere messaggi, in un panorama sempre più vasto, ricco e complesso, di cui diviene assolutamente vitale conoscere le caratteristiche e prevedere l’evoluzione per trarne vantaggio o anche solo per non perdere posizioni.
E’ bene chiarire da subito che non si tratta di una sfida meramente tecnologica. Come ha ben evidenziato Wu Ming nella prefazione all’edizione italiana di Cultura Convergente di H. Jenkins, “la collisione tra diversi media, vecchi e nuovi, è più un bisogno culturale che una scelta tecnologica. Computer e cellulari hanno accorpato molteplici funzioni e si sono trasformati in telefono, televisione, stereo, fotocamera, tutto-in-uno. Eppure nessuno di questi agglomerati ha sostituito i singoli avversari. Piuttosto sono i contenuti della comunicazione che vengono declinati in ogni formato, per potersi spostare da un mezzo all’altro e ricevere così una distribuzione sempre più capillare e pervasiva. [..] Non c’è un singolo attrattore, computer o cellulare che sia, capace di trasformare ogni idea in un unico prodotto, fatto di immagine, suono, testo, relazione. Al contrario ogni idea è capace di molte facce, per attirare su di sé strumenti diversi e attraversarli tutti.”
Per stare al passo l’impresa deve mettere in discussione il modo con cui persegue la sua missione, la sua stessa identità. “Lo scopo di questo nostro lavoro”, affermano gli autori di L’Impresa nell’era della convergenza, “è dimostrare come, parlando di convergenza in questa seconda decade del terzo millennio, si debbano necessariamente prendere in considerazione diversi ordini di fenomeni, che si affiancano e si intrecciano con la citata evoluzione tecnologica, rafforzandosi a vicenda in una sorta di Superconvergenza culturale. La diffusione e gli effetti di questo processo, in pieno sviluppo all’inizio degli anni 2010, saranno a nostro avviso tali da determinare e portare a compimento un vero e proprio ribaltamento del tradizionale modo di comunicare dell’impresa, attraverso una inversione di paradigma, che potremmo sintetizzare nella locuzione “dal controllo alla mediazione”, o anche, “da emittente di messaggi a nodo di conversazioni”.
Come si vede, siamo al cospetto di un ragionamento in piena sintonia con le tesi che da molto tempo sosteniamo su questo blog e che sono anche al centro del progetto Delphi 2.0 La rivoluzione social e le aziende. Abbiamo quindi cercato di capire meglio alcune delle tesi-chiave proposte nel volume parlandone con Luigi Ferrari (che del resto è uno dei componenti del nostro panel) e i due coautori.
Il mondo come rete e conversazione
MM: Luigi, nell’introduzione al libro poni in epigrafe questa frase: “La gente parla, parla di tutto, parla anche delle marche e dei prodotti. Se coloro che fanno i prodotti vogliono prendere parte alla conversazione sono i benvenuti, altrimenti sappiano che la conversazione avverrà ugualmente” (Cluetrain Manifesto). In altre parole, come già aveva fatto Giampaolo Fabris in Societing e come facciamo nel nostro Delphi 2.0, si parte dal fatto che “i mercati oggi sono conversazioni”. Così esprimi il concetto nel tuo libro: “Prima condizione per poter non solo sopravvivere, ma trarre vantaggio da questa realtà è quindi l’aprirsi all’ascolto e al dialogo, non già usando la rete come mero strumento di comunicazione (nella illusoria convinzione di poter adattare i vecchi messaggi al nuovo sistema di media), bensì ribaltando il paradigma della verticalità e del controllo che ha caratterizzato, nel bene e nel male, l’attività d’impresa dagli albori del marketing fino alle nuove forme di marketing evoluto e di aperture al sociale (più o meno genuine) della prima decade del millennio”. Il cambio di paradigmi cui ti riferisci, può essere definito come un passaggio dal modello dello Scientific Management ad un modello che su questo blog abbiamo definito di “Humanistic Management 2.0”?
R. (Luigi Ferrari): Quello che tu definisci Humanistic Management è molto in linea con i principi della Stakeholder Care che stanno alla base dei ragionamenti di questo libro. Si tratta di vedere la persona al di là del ruolo, l’uomo al di là del cliente, o dell’impiegato o del fornitore. E si tratta di comprenderne la personalità, le istanze, i timori, i problemi, e per questo occorre predisporsi all’ascolto prima che all’azione. E’ un atteggiamento culturale di fondo che si deve diffondere. Ma non credo che sia alternativo allo Scientific Management, che conserva la sua validità nell’affrontare razionalmente i problemi e le decisioni: Scientific e Humanistic Management possono e devono coesistere per riuscire a trovare soluzioni innovative, non penalizzanti per nessuno degli Stakeholder, capaci di far crescere davvero il valore globale dell’attività d’impresa.
MM: L’affermazione secondo cui "i mercati sono conversazioni”, pone il rischio reputazionale in grande evidenza. Deiana presentando il tuo libro scrive: “La reputazione è fatta di quattro cose. Primo, la “fiducia” perché noi dobbiamo avere fiducia in quella persona, in quell’impresa. Due, l’“attenzione”: posso essere anche Einstein o la Microsoft ma se non so comunicare la mia conoscenza ad altri e quindi se non so generare attenzione negli altri, probabilmente i clienti vanno da chi riesce a comunicare meglio (e questa è la lezione del grande Steve Jobs). Tre, la “conoscenza”, ovvero l’insieme dei saperi, delle informazioni e della loro combinazione creativa. Quattro, la continuità del tempo dei tre precedenti fattori. L’insieme di queste cose fanno la reputazione.” E in uno dei capitoli interni Nando Pagnoncelli afferma: “Se la Rete è sempre più luogo di scambio e creazione di opinioni e informazione, diventa centrale soprattutto per le aziende (ma anche per le istituzioni e i partiti), conoscere ciò che viene detto in Rete. Oggi la Rete non è più solamente un medium dove le aziende ospitano proprie “vetrine” commerciali o informative ma è un luogo dove circolano informazioni specifiche sui prodotti, un ambiente dove confrontare prodotti e prezzi ed un luogo dove si formano flussi informativi che hanno una portata virale estremamente importante. È cruciale comprendere se, quanto e come si parla sul web, al fine di monitorare i fenomeni oggetto d’interesse ed, eventualmente, intervenire prontamente a fronte di situazioni particolarmente critiche. Sempre più diffuse sono infatti le community in cui ci si scambia commenti e informazioni su prodotti e servizi, sia per quanto riguarda i prezzi che la qualità (si pensi ad esempio a siti come trip advisor, kelkoo, ciao.it ecc. – Vedi su questo anche la presentazione del progetto La rivoluzione social e le aziende, ndr). Dall’indagine Ipsos per Consumers’ Forum emerge che tra il 2008 e il 2010 la quota di individui che si informa su internet del prezzo dei prodotti è passata dal 35% al 47% e la percentuale di persone che visita i siti di marche o prodotti dal 18% al 33%.” Quale è il tuo pensiero al riguardo?
R. (Luigi Ferrari): Credo che parlare della Rete in termini prevalentemente di reputazione sia limitante e addirittura fuorviante, poiché tenderebbe a mettere l’azienda sulla difensiva nei confronti della Rete stessa. Questo è altrettanto sbagliato come la convinzione (purtroppo assai diffusa) che la Rete sia semplicemente un nuovo media per diffondere i propri messaggi. La verità è che la Rete (e con essa i social netwok) è uno Stakeholder, un potente Stakeholder: l’impresa deve ascoltarla, con responsabilità e umiltà, capire cosa vi si dice, comprendere a fondo quali sono le sue regole, interagire con essa proprio come si interagisce con una persona-stakeholder. Certo è difficile, come tutte le cose nuove che hanno uno sviluppo più rapido di quello che si può controllare, per questo ho parlato di umiltà, non si può controllare la Rete, bisogna starci dentro, con trasparenza e continuità, imparare a nuotare. I giovani lo sanno fare meglio, tra qualche anno diventerà più normale e più naturale per tutti, certo anticipare i tempi dà vantaggi competitivi formidabili.
L’apertura dei confini organizzativi
MM: Leggo sul tuo libro: “La vera sfida della competitività per qualsiasi impresa oggi risiede nel saper perseguire non più il valore dei prodotti e nemmeno il valore delle soluzioni, bensì il valore delle esperienze individuali, e quindi passare dalla accezione di creazione del valore di tipo prodotto-centrico alla visione di creazione del valore legata alle esperienze individuali, diverse per ciascun individuo, e perciò in numero tendente all’infinito. E allo stesso tempo, sapersi dotare della necessaria flessibilità e lungimiranza per poter accedere non più solo alle risorse interne all’azienda, ma imparando ad accedere alle risorse disponibili nella catena dei fornitori, a quelle risiedenti nella comunità dei consumatori, in una parola alle risorse disponibili ovunque nel mondo, purchè finalizzabili per lo scopo di creazione valoriale sopra indicato”. Questo significa una profonda revisione dei modelli organizzativi aziendali, oggi fondata su una rigide distinzione fra interno ed esterno e quindi fra funzioni interne all’azienda (per cui il marketing non parla con l’HR, l’HR non si occupa di innovazione, eccetera). Sapranno le aziende rivoluzionare i propri organigrammi o meglio, passare dal concetto di organigramma a quello che lo Humanistic Management definisce “Personigramma” (“una sceneggiatura, da aggiornare continuamente, in relazione all’esercizio interattivo dell’iniziativa personale”, nella definizione di Piero Trupia)?
R. (Luigi Ferrari): In alcune imprese, questo processo è già in atto, l’organizzazione diventa piatta, gli scambi tra funzioni, anche informali, si sovrappongono alle disposizioni organizzative, il processo decisionale è portato a livelli più bassi. Ma non penso che questo sia sufficiente per aprire veramente l’impresa facendo tesoro delle risorse disponibili all’esterno e soprattutto avvalersi delle possibilità offerte dalla co-progettazione e co-creazione con i clienti. Per raggiungere questo risultato ancora una volta è necessaria l’apertura concettuale verso l’esterno, la rinuncia al paradigma della centralità dell’impresa, senza che questo beninteso rappresenti una rinuncia alla propria identità o alla propria mission, ma più semplicemente l’accettazione di uno status di pari dignità degli stakeholder con cui si entra in contatto, e quindi di rispetto e trasparenza nei loro confronti. Le aziende a cui si vuole bene, di cui si parla nel libro, sono proprio quelle che vengono riconosciute dai loro pubblici come più trasparenti, collaborative, “vicine”, su cui si può contare. Non è solo immagine e neanche reputazione, è un atteggiamento coerente con i comportamenti.
MM: Un tema centrale del libro è la co-creazione di valore, proprio come nel nostro Delphi 2.0. “L’emergere e la rapida diffusione di questa superconvergenza fra tecnologia, empowerment individuale e missione d’impresa hanno reso possibile e sempre più importante quella che è oggi da più parti considerata la più promettente spinta alla innovazione, alla competitività e al miglioramento del sistema offerta-domanda: la co-creazione di prodotti, servizi, contenuti mediatici, promozioni, spot pubblicitari. Nella realtà della co-creazione, gli utilizzatori collaborano attivamente con i produttori nella ideazione, nella implementazione, nella fruizione e perfino nella promozione dei prodotti o servizi co-creati”. Puoi dirci in sintesi perché questo fenomeno è così importante?
R. (Luigi Ferrari): Non è un mistero che oggi sia sempre più difficile innovare, in un mondo in cui le tecnologie e i capitali non sono più un bene scarso e un fattore di competitività. La capacità di innovare risiede più che mai nella componente umana, e la partnership tra produttori e utenti in questo processo è un fattore vincente in tutti i campi. Ognuno dei due attori ha il suo interesse, l’utente ad avere prodotti o servizi più rispondenti, l’impresa ad avere vantaggi competitivi, di prodotto, processo, di costi. Nessuna ricerca di mercato, per quanto ben condotta, può sostituire l’interazione fra utente e fornitore, sempre che quest’ultimo sia davvero animato da uno spirito di partnership e non da un interesse egoistico, che tra parentesi oggi in Rete non resiste alla prova della trasparenza (Vietato Barare, come dice Pagnoncelli), con ricadute, allora sì, negative in termini reputazionali e reali.
Individualismo e individualità
MM: “Oggi si assiste – scrive Ruotolo – a un processo di migrazione sempre più sensibile dalla dimensione dell’individualismo a quella della individualità, in cui si disegna una nuova mappa dei valori sociali in direzione della valorizzazione della persona. Fulcro di un cambiamento ancora in fieri, l’individuo esprime una nuova esigenza di socialità allargata che lo porta a trovare nell’altro l’anello di congiunzione fra la propria identità e la propria immagine in una pratica di costante riconoscimento e rispecchiamento. Secondo Maffesoli il concetto stesso di individualismo su cui si è retto il sistema di pensiero e di valori dall’Illuminismo in poi mostra evidenti segnali di corrosione: le cattedrali del razionalismo imperante, che porta a definire la nostra epoca ancora in balia di un egocentrismo come unica dimensione della sfera privata e di quella pubblica, si stanno sgretolando. Sta dunque nascendo una “ragione sensibile” che si nutre di un “orientamento-verso-il-tu” che si manifesta nell’identificazione del luogo come legame, in funzione partecipativa e co-creativa” . In questo contesto tu citi nel libro come esempio il caso Vodafone, di cui abbiamo parlato anche in questo blog. Più in generale mi sembra che il ragionamento di Ruotolo e tuo si possa riportare al concetto di “Mass Collaboration” di Bradley e McDonald. Il social software che si è affermato in tempi brevissimi, sostengono, consente infatti ciò che fino ad ora non era mai stato possibile: attivare la capacità di un vastissimo numero di persone sparse per il mondo di lavorare collettivamente valorizzando al massimo grado le singole riserve di competenza, talento, creatività ed energia. Insomma, se fine a ieri si parlava di individualismo di massa oggi avrebbe senso soffermarsi sulla necessità di valorizzare “la massa delle individualità”. Sei d’accordo?
R. (Massimo Bartoccioli): Sono assolutamente d’accordo. La collaborazione nella Rete è la logica stessa della Rete. Però non parlerei di “massa” come opposta a “individualità”. La Rete non è una cosa sola, anche se può essere rappresentata come un’immensa ( e in perenne espansione, come l’Universo ) connessione di reti neurali, un colossale cervello.
Al suo interno però la Rete si segmenta in una infinita serie di comunità ed è al loro interno che avviene la collaborazione che non è altro che il risultato di una connessione sempre più intensa.
La scelta della comunità è in funzione dei valori, degli interessi degli individui.
La mia conclusione è che la Rete esalta l’individuo nella sua dimensione di essere razionale, informato, ragionevole, che sceglie e sceglie anche di essere scelto.
La trasformazione del modello operativo e cognitivo
MM: La sfida posta dai cambiamenti illustrati ne L’Impresa della convergenza, scrivi, “non è un passaggio semplice: accettare questo sistema rapidissimo basato sull’intelligenza collettiva, sullo stare in rete, sulla reputazione sta in realtà “tradendo” l’impresa formale, esperta, consolidata, autoritaria e, in qualche caso, anche autorevole. Ma il vantaggio sono la superconvergenza, la trasmissione e la sua rapidità. Perché il concetto di scambio ci costringe a pensare in maniera diversa come imprese, come individui, come professionisti, come cittadini. Non più come soggetti anarchici ma collettivi. Essere connessi, pensare collettivamente vuol dire che le capacità complessive generate dalla condivisione e dalla propagazione della conoscenza possono essere un fattore straordinario di evoluzione. E, perché no, di profitto.” Tuttavia secondo tutte le ricerche di cui abbiamo parlato anche in questo blog le imprese sembrano lontane anni luce dalla comprensione di quanto sia necessario trasformare radicalmente il proprio modello operativo e ancor prima cognitivo. D’altro canto, sempre citandoti, “se le imprese non introiettano questa realtà, se non cambiano la loro filosofia di base, l’atteggiamento, il linguaggio, anche l’utilizzo della Rete e dei blog aziendali si possono rivelare un’arma spuntata, quando non addirittura controproducente. Sono indicativi a questo proposito i risultati di una recente ricerca di Burson-Marsteller sugli utenti internet italiani relativa alla efficacia dei blog aziendali: oltre il 60% degli internauti italiani considera i corporate blog non attendibili, e questa inattendibilità è attribuita alla impreparazione delle aziende ad avviare un vero dialogo con i clienti. Si registra così una situazione di stallo che alimenta un circolo di potenziale divaricazione anziché avvicinamento: le imprese non hanno ancora fiducia nell’uso di questi strumenti, li usano con circospezione mista a diffidenza, sia per l’impossibilità del controllo, sia per i rischi connessi alla potenza e rapidità di diffusione di messaggi in qualche modo distorti o anomali, e gli utenti dal canto loro leggono queste esitazioni come una ulteriore prova della non disponibilità al dialogo da parte delle imprese”.
Come si esce da questo circolo vizioso?
R. (Luigi Ferrari): si esce in due modi, uno naturale, e cioè il progressivo arrivo alle leve di comando da parte dei nativi digitali, che, come sappiamo, hanno inscritta la cultura della rete, della trasparenza, dei diritti individuali; la seconda via è quella della diffusione di queste idee con tutti i mezzi, questo blog ad esempio, e poi i convegni, le discussioni, la sensibilizzazione culturale da parte del mondo scientifico e dei manager più avanzati in questa direzione.
MM: Cambia tutto e quindi cambia anche l’identità dell’impresa: anche essa deve divenire, affermiamo nel nostro Delphi 2.0, una social corporate identity. Questo mi sembra coincida con due tue affermazioni. La prima: “È del tutto evidente come sia in primo luogo l’impresa a dover porre in atto al proprio interno una formidabile inversione culturale, passando dalla strategia autocentrica dell’unidirezionalità (“io impresa faccio i prodotti che vanno bene per il consumatore, li distribuisco, li promuovo e il consumatore li acquista”) a quella del dialogo sulla base di pari dignità (“io rispetto il consumatore, le sue unicità e le sue competenze, gli chiedo quindi di stabilire un dialogo e di lavorare insieme per ideare prodotti e modalità che siano migliori per lui, che lui possa acquistare più volentieri, e che di conseguenza diano anche a me impresa un vantaggio competitivo rispetto ai miei concorrenti”)”. La seconda: “La Rete si può trasformare da mix di persone, tecnologie convergenti e social network, in un potentissimo Stakeholder, potenzialmente il più potente stakeholder dell’impresa, con le sue regole, i suoi interessi, e soprattutto con un livello di libertà e indipendenza mai raggiunto e non raggiungibile da altri soggetti. È con questa realtà di una Rete che vive di vita propria che l’impresa deve aprire un dialogo, è da questa realtà che deve ottenere il rispetto e la credibilità, stabilire un terreno comune, ben prima di poter passare a intessere relazioni e a scambiare messaggi e contenuti rilevanti per entrambe le parti.” Come può allora in concreto la corporate identity diventare social, attraverso quale strategia di cambiamento?
R. (Massimo Bartoccioli): Essere impresa “social” significa in una parola sentirsi parte della società, accettare di essere un soggetto tra i tanti, con missioni, interessi, capacità organizzative e finanziarie estremamente diversificate, ma con pari diritti e pari dignità. Questo è un assunto valido in generale e trova la sua massima espressione nella Rete, poiché la Rete è percorsa da una forte vocazione etica che ha poco a che fare con il moralismo perché è la consapevolezza
a) di poter raggiungere tutte le informazioni necessarie a un controllo delle affermazioni delle Imprese
b) di poterle sanzionare, in pubblico, perché la Rete è un’agorà, un luogo pubblico.
La risposta del sistema delle Imprese non può essere l’arroccamento, la difesa, e tantomeno l’arroganza, ma, invece, l’adozione della trasparenza come politica, che significa ricercare il dialogo a tutti i livelli.
E’ da questo atteggiamento che possono emergere i valori della marca comunitaria, cioè di un brand che si pone come membro della comunità perché non produce solo valore per il consumatore ma allo stesso modo per il cittadino ( che sono la stessa persona )
MM: Mario Ruotolo, tu dedichi uno spazio importante al tema della scrittura nell’epoca della convergenza, appoggiandosi fra l’altro su testimonianze di Massimo Carraro (che ha collaborato con me nella redazione dei testi per ideaTRE60) e Giuseppe Antonelli (uno dei co-autori de Le Aziende InVisibili). Vuoi dirci in sintesi quali sono le conclusioni del ragionamento su questo tema?
R. (Mario Ruotolo): Se è vero che tutte le rivoluzioni culturali passano attraverso una rivoluzione della lingua, stiamo effettivamente assistendo a un deciso cambio di paradigma, una rivoluzione antropologica nell’ambito della scrittura in generale e di quella delle imprese in particolare, in grado di proporsi come effettivamente co-creative. La nuova scrittura è fatica, dialogica, interlocutoria; rende protagoniste le persone prima che le cose; vuole imporsi come comunicazione bidirezionale che parta proprio da un nuovo fabbisogno di partecipazione. L’impresa, allora, tende a rinnovare la propria identità anche a partire da una codice che incontra l’altro favorendo uno scambio efficace. Le opportunità della nuova scrittura saranno però tali solo se le imprese saranno in grado di cogliere il senso profondo di un cambiamento in fieri, grazie al quale non ci si potrà più nascondere dietro le lingue paludate dell’economia e della politica, in nome di un’etica della comunicazione che mostra con maggiore trasparenza i suoi intenti. Inoltre, ciò potrà essere praticabile attraverso uno studio e un ascolto verso le nuove generazioni, quei “nativi digitali” con i quali sarà sempre più necessario dialogare.
MM: Fra le ricadute in termini di comunicazione interna e formazione derivanti dai nuovi scenari in cui si muove L’impresa nell’epoca della convergenza, Mario Ruotolo pone l’affermarsi del cosiddetto “Teatro d’Impresa”, cui nel volume si dedicata uno spazio specifico. E’ stato per me un grande piacere, dato che spingo in questa direzione fin dal 1996, data in cui ho fondato la rivista Hamlet (edita dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale) che aveva come scopo di trattare i temi dell’impresa alla luce della sapienza di Shakespeare e i cui più significativi risultati sono stati raccolti nel volume L’Impresa shakespeariana. Protagonisti reali e virtuali sulla scena aziendale”. Possiamo dare qualche indicazione in più su questo?
R. (Mario Ruotolo): Il teatro di impresa è oggi una realtà, grazie alla decisa intraprendenza di compagnie specializzate che stanno nascendo sempre più numerose e a un rinato illuminismo di qualche imprenditore che ne ha compreso l’efficacia in termini di formazione. L’arte più antica del mondo capace di trasmettere la sua “aura” coinvolgente arriva anche nell’azienda a rinnovare le pratiche di comunicazione interna. Il teatro di impresa, sia finalizzato alla formazione sia impiegato per ricerche di clima, sia ancora utilizzato per ottimizzare le risorse facendo emergere competenze, abilità, voci altrimenti sommerse, rende attivo il dipendente e lo coinvolge attraverso l’efficacia della drammatizzazione e della simulazione. In questo senso, la persona-che-lavora vede valorizzare aspetti del sé professionale ed esistenziale inediti, trova la dimensione ideale per favorire una trasparenza comunicativa, partecipa attivamente, nel caso del teatro agito, alla scrittura del testo finalizzando un progetto di crescita e di confronto. Così facendo, si staglia dall’anonimato e assume un ruolo da protagonista. Anche in questo caso il teatro di impresa lavora per una co-creazione di contenuti e metodi che rendono l’organizzazione aziendale effettivamente reticolare, attenuando le gerarchie e favorendo nella leadership una azione di guida e di coordinamento delle attività.
Il senso di appartenenza non può che accrescere, potenziando anche motivazione e resa produttiva ed organizzativa. Ben vengano, allora, compagnie specializzate, registi, attori, e, soprattutto, autori che possano guardare all’impresa con rinnovato interesse e curiosità.
Corporate social storytelling
MM: Nel capitolo significativamente intitolato Shareholder primacy vs. Stakeholder Vision scrivi “ribadiamo il nostro convincimento che un approccio umanistico, multistakeholder, orientato alla persona, alla sostenibilità e al medio lungo termine sia l’unico in grado di migliorare la qualità generale della vita, estendendo il livello di benessere e riducendo le immense sperequazioni cui abbiamo accennato nel primo capitolo”. Una conferma di quanto Giampaolo Azzoni affermava nel 2004 nel suo contributo al Manifesto dello Humanistic Management, non a caso intitolato L’impresa come protagonista di una storia che le persone desidererebbero sentire. Un approccio che esalta le pratiche dello storytelling citate anche nel tuo libro e che oggi trovano nell’Osservatorio sullo storytelling dell’Università di Pavia, con cui anche io collaboro, anche perché curato dal comune amico Andrea Fontana, che su questo ha scritto fra l’altro un Episodio del romanzo collettivo Le Aziende InVisibili. Perché raccontare storie è così importante nell’epoca della convergenza e come combia il modo di raccontare queste storie in Internet?
R. (Massimo Bartoccioli): Raccontare storie è la profonda vocazione degli essere umani. E’ nel racconto che si veicolano i significati e per questo così spesso la comunicazione, che è non la veicolazione di un significato “C” dal punto “A” a quello “B” ma la creazione di un significato comune fatto insieme da A e B, ha impregnato le storie
In Rete questo percorso va invertito: non c’è più soltanto la storia dell’Impresa, è l’Impresa che deve chiedere al suo consumatore (che in Rete è individuo) di scrivere la sua storia e di metterla in Rete. Individui-consumatori e Imprese narreranno una storia comune – Questa è l’essenza della co-creazione
MM: Un ultimo tema importante e che ci consente di chiudere guardando al futuro, è quello dei cosiddetti Nativi Digitali, cui in questo blog ci siamo occupati molte volte e a cui abbiamo in particolare dedicato il progetto Alice Postmoderna. Mario Ruotolo scrive “I nativi digitali sono i soggetti di una inconsapevole rivoluzione che porta l’umanità verso orizzonti ancora in parte incogniti. Certo è che stiamo attraversando una fase di cambiamento radicale che porta la trasformazione della galassia Gutemberg a una galassia Internet dai confini non definiti e ricca di stimoli e di conseguenze su tutti i piani del sapere, del saper fare e, soprattutto, dell’essere.” Secondo te le aziende si stanno attrezzando per un futuro (che in larga parte è già presente) in cui progressivamente tutti gli stakeholder saranno Nativi Digitali?
R. (Luigi Ferrari): Nelle conclusioni del lavoro parlo di fiducia, in particolare fiducia nei giovani, che “hanno valori diversi, una visione del lavoro diversa, un concetto di privacy diversa… possiedono da dentro la cultura della Rete, perché nella Rete sono stati educati…”.
E così l’invito finale che rivolgiamo alle imprese è “meglio quindi fidarsi, e sforzarsi di far propri e assorbire i lati positivi della mentalità e del modo di essere giovani”
Non credo che le aziende si stiano veramente “attrezzando”, sicuramente si stanno ponendo il problema, trovano grandi resistenze, spesso da parte di consulenti che, per il legittimo timore di essere un po’ superati, tendono a essere spesso più conservatori delle aziende stesse.
Prevedo una corsa molto sgranata, in cui le avanguardie di eccellenza in questa trasformazione saranno poche e che prenderà diversi anni prima che l’attraversamento diventi realtà per la maggior parte delle imprese. Meglio quindi iniziare da subito….