Se la freccia temporale è quella che dal futuro conduce al passato, la retrospettività è la modalità fondamentale per raggiungere l’obiettivo del sensemaking, la costruzione dell’identità, individuale e collettiva. Alice è continuamente impegnata in questo sforzo (la continuità essendo, abbiamo visto, un’altra caratteristica fondamentale del processo di sensemaking, un vero “never ending process”), poichè non solo ha perso le coordinate spaziali e temporali del luogo in cui si trova, ma prima ancora quelle della sua stessa individualità. Non sa più chi è e cosa sa: “Dear, dear! How queer everything is to-day! And yesterday things went on just as usual. I wonder if I’ve been changed in the night? Let me think: was I the same when I got up this morning? I almost think I can remember feeling a little different. But if I’m not the same, the next question is, Who in the world am I? Ah, THAT’S the great puzzle!”. Andando oltre Amleto, Alice capisce che la “grande questione” non è “essere o non essere”, ma CHI essere.
Come nelle poesie della Szymborska, “nulla due volte accade, nè accadrà”, il mondo di Alice è un mondo eracliteo, in perpetuo mutamento. Nelle parole di Pietro Citati: “L’ unica, grande legge, che regge senza eccezione sia Alice nel Paese delle meraviglie sia Attraverso lo specchio è quella della Metamorfosi, che trasforma le persone e le cose, dissolvendole nella fantastica pantomima della possibilità. Nel primo libro, Alice cresce mostruosamente e snoda il collo come un serpente tra le cime degli alberi: poi rimpicciolisce fino alle dimensioni di un topo, rischiando di annegare nel lago delle proprie lacrime. Nel secondo libro, la Metamorfosi diventa il principio stesso della narrazione. Non sappiamo chi muova gli scacchi sopra l’ immensa scacchiera, distinta, come la terra, da siepi, ruscelli, prati, stagni, boschi e campagne. Ogni volta che uno dei giocatori sposta una pedina, la narrazione si interrompe di scatto, e il paesaggio e i personaggi si dissolvono. Entriamo in un nuovo spazio-tempo: un treno nasce dal bianco tipografico e vi scompare, una bottega diventa una barca e un gruppo d’ alberi, un uovo si trasforma in Humpty Dumpty, il russare della Regina Rossa e della Regina Bianca cede a un’ aria musicale… Così l’altro mondo rivela finalmente la propria essenza. Mentre la struttura superficiale del nostro mondo è compatta e continua, quella dell’ universo dietro lo specchio è discontinua e frammentaria: briciole, pezzettini, tessere di mosaico, caselle di scacchi, atomi, tenuti insieme da una forza che non conosciamo”[i].
Il disorientamento che prova nel labirinto di Wonderland è così radicale che Alice deve rassicurare se stessa innanzitutto di non essere qualcun altro: non la sua amica Ada, che è da lei diversa fisicamente (her hair goes in such long ringlets, and mine doesn’t go in ringlets at all) e neppure Mabel, che intellettualmente le è distante (I’m sure I can’t be Mabel, for I know all sorts of things, and she, oh! she knows such a very little!).
Tuttavia quando tenta di verificare le sue conoscenze “da Alice” nella consapevolezza, condivisa da Weick, che le informazioni in base alle quali costruire senso devono essere selezionate e plausibili (“il sensemaking avviene in funzione del mantenimento di una concezione di sé coerente e positiva”[ii]), tutto va a pallino: le nozioni di geografia si mescolano fra di loro e le poesie non solo non sono più come le ricorda, ma le appaiono confuse e incoerenti (ben lontane dall’essere quelle “strutture semplici, familiari che costituiscono il seme da cui le persone sviluppano un senso più ampio di quello che potrebbe essere in corso”[iii]).
“La perdita del nome – commenta Deleuze – è l’avventura che si ripete attraverso tutte le avventure di Alice. Il nome proprio o singolare è garantito dalla permanenza di un sapere; tale sapere è incarnata nei nomi generali che designano soste e stati di quiete, sostantivi e aggettivi con i quali il proprio mantiene un rapporto costante. Così l’Io personale ha bisogno del Dio e del mondo in generale. Ma quando i sostantivi e gli aggettivi cominciano a fondersi… si perde ogni identità… Il paradosso è innanzitutto ciò che distrugge il buonsenso come senso unico, ma, anche, ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse”[iv]. Il percorso di Alice, attraverso lo specchio del paradosso e il Wonderland del nonsense, la fa passare dall’identità unica pre-fissata della modernità, all’identità molteplice ed imprevedibilmente mutante della contemporaneità postmoderna.
Non solo, ma, sembra suggerire Carroll una volta di più, dal nonsense di Wonderland, emerge una Alice molto più profondamente sensata. Ad esempio quando testa le sue competenze matematiche: “Let me see: four times five is twelve, and four times six is thirteen, and four times seven is–oh dear! I shall never get to twenty at that rate!”. Ebbene, Alexander Tayler ha mostrato che in un sistema di numerazione in base 18, 4 per 5 fa effettivamente 12 e, sulla base di un ragionamento che matematicamente è piuttosto elementare, Gardner arriva a mostrare che la frase di Alice “non arriverò mai a 20!” si spiega con il fatto che le tavole di moltiplicazione si fermano normalmente a 12 e, in base a quel sistema di numerazione, per andare oltre al 20 occorrerebbe moltiplicare per 13.[v] Ecco allora che il commento “However, the Multiplication Table doesn’t signify”, risulta essere non la reazione di una bambina infastidita, bensì la rivelazione di una verità alternativa.
Ma Alice a questo punto è solo all’inizio del suo percorso di tras-formazione e ancora non si rende conto che ragionando con una logica divergente da quella consueta si arriva a cogliere verità alternative (cfr su questo il primo capitolo di Nulla due volte). Il “buonsenso” ha la meglio, ma è proprio questo che non le consente l’accesso ad un diverso livello di lettura del reale e, come molti di noi di fronte a ciò che appare irriducibilmente “strano”, finisce con l’irritarsi: “I must be Mabel after all, and I shall have to go and live in that poky little house, and have next to no toys to play with, and oh! ever so many lessons to learn! No, I’ve made up my mind about it; if I’m Mabel, I’ll stay down here! It’ll be no use their putting their heads down and saying “Come up again, dear!” I shall only look up and say “Who am I then? Tell me that first, and then, if I like being that person, I’ll come up: if not, I’ll stay down here till I’m somebody else“.
[i] Citati, cit.
[ii] Weick, 1997, p. 22.
[iii] Ibidem, p. 52.
[iv] Deleuze, p. 11.
[v] Fischer, cit. pp 43 e 44.