Apertura è la parola chiave. Come si afferma nella Premessa al Manifesto dello Humanistic Management «per capire il presente e guardare al futuro occorre promuovere apertura mentale, autoanalisi e riflessioni individuali, coniugate alla capacità di trovare continuamente soluzioni originali, attraverso una maniacale attenzione al contesto, a ciò che sta fuori». Principio fondamentale del Pop Management è un aprirsi al mondo fondato su trasparenza, condivisione di informazioni, opinioni ed esperienze con tutti gli stakeholder: clienti, partner, dipendenti, fornitori, comunità locali, associazioni, fondazioni (Total Experience). Presupposto per l’applicazione del quale è un modello imprenditoriale che annoveri la metadisciplinarietà fra le competenze diffuse nell’organizzazione.
Questo principio si articola in tre elementi:
Parità. L’apertura a tutti permette di acquisire le migliori idee attraverso la loro selezione naturale; questo significa accettare il criterio della “Relazione tra pari (Peering)” da attuare non solo all’interno dell’azienda, ma soprattutto all’esterno, con altre aziende e altri collaboratori, in un contesto di co-creazione del valore scaturente dalla collaborazione orizzontale, a differenza del tradizionale flusso della catena del valore. Ancora una volta, questo processo è stato resa possibile dalla rivoluzione tecnologica che ha messo nelle nostre mani potenti strumenti di connessione: i social network, in particolare, ci hanno abituato a nuovi modi di comunicare. Questa abitudine alle connessioni sociali attraverso Internet, stratificata ormai da più di un decennio, caratteristica saliente della odierna Popular Culture, ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo di ragionare. L’essenza della Rete è la connessione da nodo a nodo che genera appunto una “Relazione Peer to Peer”, una relazione tra pari. La lezione di Michael Bawuens e della P2P Foundation è stata decisiva per la comprensione di questa nuova prospettiva.
Per quanto mi riguarda, ricordo che nel 2009 entrai in Fondazione Italiana Accenture, dove assunsi la responsabilità della progettazione e della gestione di ideaTRE60, il primo social media dedicato all’innovazione di utilità sociale. “Intelligenza collettiva per un mondo vitale”, recitava il pay off. Fu un’occasione concreta di rivitalizzare il patrimonio culturale di radice umanistica della Fondazione attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. La piattaforma ebbe un grande successo grazie all’originale sistema di Concorsi per idee e alla comunicazione multicanale che diffondeva i contenuti sviluppati nel blog, nei Forum e nella Web Television di ideaTRE60 attraverso pagine dedicate su otto social network. Oggi iniziative come Hackaton, Premi per l’innovazione, Call 4 Ideas, aperti sia a dipendenti sia a esterni (talenti, startupper, eccetera) fanno parte integrale di prassi manageriali sempre più Pop (Idea Management).
Open Innovation. L’open innovation nasce nel 2003, quando Henry Chesbrough pubblica il saggio Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology. Qui viene descritto per la prima volta il paradigma in base al quale si assume che le imprese possono e devono utilizzare le idee esterne così come quelle interne, in maniera trasparente e condivisa. Tutto questo può suonare strano. È come se Coca-Cola diffondesse la ricetta della sua bibita. L’apparente enigma è sciolto da Dan Tapscott in Wikinomics[1]. Il libro, che risale al 2007, si apre con la case history di Goldcorp, una azienda mineraria in crisi che è diventata la più importante azienda nel settore dell’estrazione dell’oro, dopo aver deciso di divulgare i dati relativi alle proprie mappe geologiche e chiedendo su Internet a chiunque ne avesse la capacità di interpretarle per avere nuove indicazioni di ricerca. In settori meno hard, venivano già allora segnalate Amazon, Google, e-bay come imprese di successo che avevano deciso di aprire le loro infrastrutture e le loro applicazioni allo scopo di sviluppare vasti ecosistemi di business.
È recente invece la dichiarazione di Zuckenberg di sviluppare l’Intelligenza Artificiale di Meta, LLaMa 3, in codice open source. «Significa che è una tecnologia aperta, trasparente e gratuita: chiunque può leggere le sue “istruzioni”, insomma, e poi farne ciò che vuole». Si consideri che sviluppare Intelligenza Artificiale ha un costo altissimo. Nel 2024 Meta ha in programma di spendere 40 miliardi di dollari in questa tecnologia. È circa il doppio di quanto l’azienda ha investito negli ultimi cinque anni. Ed è una cifra molto vicina a quella che spenderanno Microsoft e Google, che però concedono le loro Intelligenze Artificiali a pagamento o in licenza. «Aprendo la nostra tecnologia, acceleriamo il suo sviluppo», ha affermato Naila Murray, AI Research director di Meta e responsabile del FAIR di Parigi, il laboratorio in cui l’azienda di Zuckerberg studia e sviluppa la sua intelligenza artificiale. «Disponiamo di molti ricercatori – ha spiegato ancora Murray – ma su scala globale si tratta di un numero modesto. Per questo ha senso lavorare con l’intera comunità», ha concluso, riferendosi «agli sviluppatori, alle startup e a tutti quegli istituti di ricerca che ogni giorno usano l’AI di Meta, la modificano a seconda delle loro esigenze e, in molti casi, la migliorano. È come avere a disposizione un esercito di collaboratori. A costo zero. Tutti disposti a dare il massimo». «Perché – ha concluso Zuckerberg forse un po’ retoricamente, vista la posizione dominante della sua organizzazione – anche loro non vogliono che poche aziende decidano cosa si può fare con l’AI».[2]
Peraltro, non è pleonastico ricordare che la società madre di Chat GPT, la più nota fra le Intelligenze Artificiali, è OpenAI, nata come laboratorio di ricerca sull’Intelligenza Artificiale costituito dalla società no-profit OpenAI e dalla sua sussidiaria for-profit OpenAI. Fondata il 10 dicembre 2015, l’organizzazione, con sede a San Francisco, ha lo scopo di “collaborare liberamente” con altre istituzioni e ricercatori rendendo i suoi brevetti e ricerche aperti al pubblico. Tuttavia, va anche detto che il successo di Chapt GPT ha portato alla messa in discussione il suo paradigma fondativo. Nel corso della aspra diatriba con Elon Musk, successiva alla sua uscita (era uno dei fondatori), la società gli ha ricordato che la parola “open” nel nome di “OpenAI” non implicava l’open-sourcing dell’AGI (Intelligenza Artificiale Generale, capace di imparare come un essere umano) ma che «tutti dovrebbero beneficiare dei frutti dell’IA dopo la sua realizzazione, senza comunque condividerne la scienza».
Abbattimento dei silos aziendali. Comporta la rottura delle barriere fra sub-culture d’impresa e l’abolizione di prassi lavorative di tipo strettamente divisionale, quali la rigida suddivisione di uffici, reparti, gruppi di lavoro in base a competenze specifiche e non interconnesse. Al cuore dell’integrazione inter-aziendale (e quindi extra-aziendale, per garantire la Total Experience di tutti gli stakeholder) si pone l’ineludibilità della rivoluzione Pop per antonomasia, quella social, come confermava nel 2013 l’allora Presidente del MIP Gianluca Spina nel suo contributo a L’intelligenza Collaborativa: «Due cose mi colpiscono nell’appassionato discorso di Marco Minghetti per convincere il lettore generico, ma forse ancor più il manager “old economy”, della potenza trasformativa del lavoro collaborativo sostenuto dai social media. La prima è l’inevitabilità della rivoluzione… La pervasività dei social media è già oggi tale da rendere il fenomeno irreversibile. Dunque, le aziende e più in generale le organizzazioni non potranno più permettersi di ignorare o addirittura contrastarne l’utilizzo quando gli individui che fanno parte dell’organizzazione li considerano naturalmente parte integrante della loro giornata, del loro modo di rapportarsi agli altri e, in definitiva, della loro vita… Il secondo elemento di rilievo delle considerazioni di Minghetti (con, nel mio caso, un impatto personale probabilmente non intenzionale da parte dell’Autore) sta in questo: quanto le considerazioni svolte si applicano in modo anche più radicale al «mio» business, quello della formazione del capitale umano e della classe dirigente». Anche Spina, con le sue riflessioni, evidenziava dunque come si imponga nelle aziende l’allineamento delle conversazioni interne con quelle esterne attraverso un sempre maggior utilizzo dei social media e delle community a queste associate.
Il principio dell’Apertura, così come è stato fin qui delineato, può essere praticato nella misura in cui ogni persona può muoversi nel contesto aziendale con «l’Autonomia, resa possibile da condizioni organizzative di Agio e dalla possibilità di realizzare la massima Auto-espressione, valore umanistico per eccellenza. Operare lungo la traccia epistemologica dell’Autonomia implica che l’impresa accetti e faccia sua una visione che non prospetta una descrizione definitiva e onnicomprensiva degli attori organizzativi. In cui la gestione aziendale è interessata a seguire, sul piano dell’esperienza diretta, quali caratteristiche specifiche gli esseri umani possono sviluppare. E’ una gestione della vita vivente e non della vita statica. Gli esseri umani conservano la loro Autonomia, mutando in coerenza con le proprie caratteristiche vitali: il contesto manageriale può avviare, favorire, ma non costituire in toto il loro cammino evolutivo. Resta così aperta per gli esseri umani una crescita della propria auto-organizzazione, senza una necessaria connessione all’idea di un programma predefinito dettato.
Dalla prospettiva dell’Autonomia si vede con chiarezza che le imprese devono andare a costituire uno spazio nel quale le singolarità diverse trovino ospitalità in un collettivo comunitario: Agio è il nome proprio di questo spazio irrappresentabile; il termine agio indica infatti, secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacens, adjacentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col compito opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione. Agio come luogo da raggiungere, dove i singoli possono esprimersi attraverso quel “libero uso del proprio” che, secondo un’espressione di Hölderlin, è il “compito più difficile”.
Se il riconoscimento è il bisogno individuale emergente nella società contemporanea, la libera Auto-espressione è la motivazione individuale fondamentale; un mix gestionale qualitativo, riconoscente, con capacità di contenimento, dei fattori che caratterizzano gli attuali contesti di lavoro, è la condizione, per così dire irrinunciabile, perché l’Auto-espressione del sé da possibilità divenga emergenza quotidiana»[3].
L’apparato concettuale elaborato nell’ambito dello Humanistic Management è stato ulteriormente approfondito, nel 2014, da Paolo Bruttini ed Elisabetta Pasini, che, insieme a un consistente numero di colleghi, hanno scritto un altro Manifesto: il Manifesto della Open Leadership – una proposta di articolazione unitaria di 5 macro-tendenze: engaging leadership, distributed leadership, ethical leadership, leadership nel mondo lean, agile leadership. Le 48 tesi che lo costituiscono, pubblicate sul sito www.openleadership.it, sono estremamente articolate e sostenute puntualmente dalle teorie di riferimento. All’epoca Paolo Bruttini mi scrisse per segnalare l’iniziativa. La missiva si concludeva così: «Personalmente vedo questa ricerca come complementare alla tua ottima analisi sull’Humanistic Management e l’Intelligenza Collaborativa (che abbiamo peraltro citato negli approfondimenti della tesi 1)»[4].
E, in effetti, moltissimi sono i punti di contatto fra le due proposte. Vediamone alcuni, lasciando poi al lettore la possibilità di trovare gli altri. Le prime tre tesi, «Il leader non può più controllare» e le due seguenti che ne sono corollari, si ispirano direttamente sia a Charlene Li, che nel volume Open Leadership indica (2010, p.8) «the biggest indicator of success as been an open mindset: the ability of leaders to let go of control at the right time, in the right place, and in the right amount», sia «all’idea di un passaggio dallo Scientific Management allo Humanistic Management che viene ampiamente sostenuto da Minghetti ne L’Intelligenza Collaborativa (2013)».
La tesi 8 fa riferimento al concetto di Servant Leadership espresso da Robert Greenleaf che in «The servant as leader, (1982), ha introdotto la concezione di una Leadership di servizio. Le sue caratteristiche sono tre 1) integrità 2) servizio senza porsi in primo piano 3) condivisione del potere». Anche qui c’è una perfetta coincidenza di punti di vista. Come scrivevo in Prolegomeni 5, «nelle Community che costituiscono il fulcro delle nuove organizzazioni basate sulla collaborazione emergente, ci sono alcuni individui che ottengono più rispetto e attenzione di altri e di conseguenza hanno più influenza. Questi individui, tuttavia, non sono stati nominati da una qualche autorità superiore. Invece, il loro peso riflette l’approvazione liberamente data dei loro collaboratori». Colgo l’occasione per ricordare la poesia di Bukowski Un buon lavoro, più compiutamente analizzata in Nulla due volte: descrivendo un lavoro molto pesante da lui svolto per qualche tempo (scaricare casse di pesce surgelato dentro celle frigorifere) si accorge come in quel lavoro (che al termine della giornata si rivelerà sorprendentemente essere appunto un “buon lavoro”) c’era qualcosa di anormale: «non c’era /nessun caporeparto. /ci lasciavano semplicemente /a noi stessi, lì dentro, /sapendo che avremmo /fatto ciò che dovevamo». Dunque i lavoratori vengono lasciati soli, senza nessun controllo. Vengono responsabilizzati sul risultato finale. Viene data loro quella fiducia che spesso è negata agli impiegati, e persino ai quadri e ai dirigenti, dotati di un livello di istruzione superiore nelle grandi aziende. In questo contesto, quel rissoso irascibile, carissimo Bukowski diventa un leader, che sa esortare e condurre gli altri, senza averne alcun titolo. Un leader Pop è dunque anche un leader di servizio, un servant leader, non avendo nessun potere di comando o sanzione.
La tesi 9 insiste sul concetto di fiducia: «L’open leader ha una visione ottimistica delle altre persone e tende a fidarsi di esse. Tale positività si esprime in curiosità e umiltà nella relazione con l’altro. Fiducia significa sapere che i collaboratori si controlleranno. John Shook, Senior Advisor del Lean Enterprise Institute, sostiene che il leader in Toyota “1) Get each person to take initiative to solve problems and improve his or her job 2) Ensure that each person’s job is aligned to provide value for the customer and prosperity for the company”». Anche nel modello della Social Organization il tema della fiducia è centrale. Ad esempio, in L’intelligenza collaborativa scrivo che il definitivo abbandono del vecchio modello gerarchico, burocratico, autoritario e il passaggio alle nuove forme di social collaboration si registrano quando «fiducia, trasparenza, meritocrazia sono valori propugnati, diffusi, condivisi e realmente praticati da tutti. Per usare l’acronimo caro a Vala Afshar, l’organizzazione è divenuta S.O.C.I.A.L.: sincere, open, collaborative, interested, authentic, likable».
La tesi 11 «Il leader sa interpretare il ruolo di catalizzatore. Non è il solo protagonista. Svolge una funzione di ispirazione, allineamento e supporto ai colleghi», sintetizza alcuni elementi chiave della versione “catafatica” della leadership collaborativa, così come tesi successive quale ad esempio la 12, «I leader non devono pensare ai propri collaboratori come i genitori pensano ai figli (con una relazione top/down)», sono perfettamente coerenti con l'”apofatica” della convocazione (ovvero con ciò che la leadership NON è). Trovo fra l’altro molto adeguata l’insistenza sulla necessità di combattere strenuamente modelli autoritari, assai diffusi in Italia, che tendono a mantenere i dipendenti in uno stato perpetuo di minorità e di dipendenza psicologica da padri-padroni superficiali e meschini, incapaci di valorizzare la diversità e lo spirito critico dei “mutanti” che sono il motore dell’innovazione, della produttività e della creatività.
La tesi 18 recita «Il leader supporta i collaboratori nello sviluppo di processi auto-organizzativi. Tale supporto si esprime 1) come definizione di linee guida nella fase di impostazione 2) come astinenza nelle fasi successive»; enfatizza quindi il fatto che «l’auto-organizzazione in azienda ha l’obiettivo di valorizzare le differenze reciproche tra gli elementi al fine di raggiungere un’alta integrazione».
In tempi più recenti, Paolo Bruttini è approdato all’Open Management, attraverso una ricerca promossa da Fondirigenti e a cui hanno partecipato più di trecento imprese, che ha articolato in cinque fattori – Positive Expansion, P2P Leadership, Pro-Agonism, Innovation Purpose, Evolution Drive:
- Positive Expansion: chi ne è dotato si caratterizza per l’accettazione cognitiva ed emotiva del cambiamento, come condizione permanente del nostro tempo. Tale dimensione è sostenibile se si amplifica la fiducia dentro di sé e la fiducia verso gli altri. Si tratta della fiducia di potersi adattare ed evolvere, unitamente a una disponibilità a creare relazioni con altre persone, specie i collaboratori. La Positive Expansion si qualifica anche nell’aspetto più concreto del business. Il mondo contemporaneo porta tutti i ruoli manageriali a cogliere delle opportunità trasversali dentro e fuori l’organizzazione in grado di renderla più competitiva. La Positive Expansion è, quindi, una dimensione che si fonda su relazioni di fiducia (verso sé e verso altri), predisposizione al cambiamento continuo e orientamento al business.
- P2P Leadership: indica una concezione evoluta della leadership nello spirito della Rete, che dà particolare valore al contributo di ciascuno e allo sviluppo delle sue potenzialità di crescita in azienda. Ciò comporta l’instaurarsi di relazioni rispettose, non basate sulla dominanza, ma sull’interpretazione del ruolo del manager come di un “primus inter pares”. Molte ricerche dimostrano che l’adozione di questa leadership “di servizio” rende i capi più performanti nel lungo periodo, perché i loro collaboratori sono in grado di crescere di più e meglio. Queste dimensioni sono anche collegate ad un positivo orientamento a valutare l’impatto delle proprie ed altrui decisioni.
- Pro-Agonism: definisce il comportamento orientato all’innovazione che si focalizza sia sulla competenza tecnologica che sulla comprensione dei processi organizzativi. Connota chi si occupa di fare scouting delle innovazioni maturate all’esterno, impiegando le sue risorse per ricercare nuove tecnologie oppure prodotti complementari a quelli della propria azienda. Per integrarli deve conoscere molto bene il quadro di riferimento in cui vanno inseriti. Deve riuscire a comprendere il mercato e la modalità specifica dell’azienda di produrre valore.
- Innovation Purpose: descrive il comportamento di chi si approccia al business con agilità, ovvero agisce con grande sensibilità rispetto alle opportunità e ai vincoli che incontra. Negli attuali contesti VUCA (Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità) infatti è frequente dover prendere decisioni continue per sviluppare azioni che consentano di realizzare la strategia dell’azienda, ma anche cogliere delle opportunità che si generano e che non erano preventivabili. Ciò è possibile se il manager è capace di mettere in discussione le idee che ha maturato e muoversi velocemente per rimodulare la sua azione. Questa capacità di trasformazione riguarda il singolo, ma anche l’azienda che nella sua complessità deve possedere una “dynamic capability”, ovvero la capacità di evolvere con tutte le sue risorse a fronte di sempre nuove sfide.
- Evolution Drive: inquadra il comportamento di chi ha un forte orientamento a elaborare l’esperienza fatta, a mettersi in discussione e a imparare da essa, specie dagli errori fatti. Un manager, dunque, che dà valore non solo al cambiamento necessario per adattarsi al contesto, ma anche all’apprendimento, ovvero a una revisione cognitiva ed emotiva degli schemi che si considerano efficaci e di successo.
Il modello è stato approfondito nel 2022 in un long format pubblicato in cinque puntate su questo blog. Le Conversazioni a più voci che lo costituiscono ne riassumono gli elementi, illustrati da concrete esperienze applicative aziendali[5].
Sonia Malaspina, a proposito del fattore denominato Evolution Drive ha detto (in qualità di HR Director Italy & Greece di Danone Italia, carica che rivestiva nel periodo in cui si è svolta la ricerca): «Tante volte nelle organizzazioni del passato bisognava essere perfetti, guai a sbagliare; invece bisogna raccontare negli ambienti lavorativi che anche l’errore è prezioso, perché tu dall’errore impari qualcosa e non va demonizzato, nascosto, ma anzi messo a fattor comune perché tutti possano imparare. Bisogna coltivare una cultura dell’errore, per poi ricominciare, rimettersi in gioco. È importante lavorare sulla persona, sulla fiducia all’interno di un’organizzazione, creando un ambiente inclusivo, di tolleranza, di accoglienza del punto di vista diverso, perché così si permette a tutti di imparare».
Ed Enrico Parsi, Direttore HR Coop, analizzando il Positive Expansion ha aggiunto: «Il fatto di immaginare e praticare una “leadership aperta” e una organizzazione più collaborativa e cooperativa, sia internamente, sia verso il mondo “là fuori”, il fatto che si usino le parole “apertura” e “fiducia” come ingredienti organizzativi, caratterizzanti la Positive Expansion, mi sembra una buona notizia per l’umanità, oltre che per le imprese. Non si tratta di un esercizio semplice. Si tratta di un processo di cambiamento molto complesso che richiede pazienza, tempo dedicato, fallimenti su cui riflettere e successi da riproporre altrove a volte in altra veste. Cose che si scontrano con la percezione di urgenza e la velocità delle decisioni richieste. Quindi concordo con Marco Minghetti quando parlando dello Scientific Management e dei suoi derivati dice che sono inadatti ai tempi che stiamo vivendo. Questi presupposti non sono separati da noi, ma costituiscono anche la nostra visione profonda della realtà definendo parte della nostra identità. Per questo comportamenti, pensieri, emozioni nuove non sono facili da trattare e non si ottengono immediatamente con azioni semplici. Tra questi presupposti c’è il principio gerarchico che abbiamo assorbito attraverso un lungo tirocinio (famiglia, scuola, lavoro e non solo) talmente pervasivo da finire per considerarlo un dato di natura e come tale indiscutibile. Alla fine, gerarchizziamo tutto, dal più al meno importante: lo facciamo con gli oggetti, con le idee, con le persone, con i sentimenti e gli affetti. Affrontiamo la complessità che richiede anche l’orizzontalità che l’aggettivo open implica, con un algoritmo semplice, semplificato e inadeguato, la gerarchia. Come cercare di raccogliere l’acqua con una griglia, magari di fattura eccellente, molto ben tornita, ma inadeguata ad avere l’acqua che serve il giorno dopo».
Capacità di generare fiducia, tolleranza, inclusività ed accoglienza, passando per l’abbattimento della gerarchia e un’autorevolezza fondata su reputazione e riconoscimento della professionalità costruite giorno per giorno imparando dagli errori: appaiono evidenti le analogie dei fattori di successo dell’Open Manager con quelli che sanciscono il trionfo dei personaggi più popolari in Internet. Un articolo del Sole 24-Ore del 30 gennaio 2024 intitolava: Consumatori italiani e influencer: il rapporto di fiducia resta alto anche dopo il caso Ferragni. Qui si presentavano i risultati di una ricerca che in particolare segnalava «una crescita significativa della competenza come elemento premiato dai consumatori nell’azione e nella professione di un influencer. Se la trasparenza resta il valore più apprezzato da parte dei consumatori, la competenza è salita di quattro punti dal 2022 a gennaio 2024, mentre perde sei punti l’elemento della spontaneità».
Per concludere la rassegna di Manifesti Open che si sono susseguiti nel tempo, non posso esimermi dal citare l’ultimissimo nato, proprio nell’azienda di cui faccio parte da dieci anni e che ha l’Apertura nel suo DNA: OpenKnowledge. Così la società sintetizza il suo modo di vivere l’Openess:
- Valorizziamo una cultura aperta per diffondere dialogo, collaborazione e condivisione come abilitatori di risultati di business.
- Promuoviamo l’apertura all’altro tramite una cultura inclusiva by design.
- Riconosciamo il valore delle relazioni e degli ecosistemi come occasione per aprire nuove opportunità.
- Consideriamo le organizzazioni come sistemi aperti verso tutti gli stakeholder, in un continuum tra interno ed esterno.
- Siamo aperti al cambiamento per esplorare nuovi territori, nuove competenze e migliorare continuamente.
- Crediamo nella open innovation come strategia di crescita.
- Disegniamo strategie aperte per muoverci in scenari in continua evoluzione.
Per tornare all’Open Leader, lo troviamo perfettamente espresso in forma drammaturgica da Shakespeare. La lettura dell’Amleto può aiutare a capire quanto sia decisivo per un buon leader «la visione strategica che identifica nuove opportunità di business (i territori polacchi nel caso di Fortebraccio), abbinata alla capacità di sapere prendere decisioni ad alto rischio e ottenere risultati, ovvero di vincere le guerre competitive contro gli altri protagonisti del mercato anche tramite le giuste partnership (vedi la richiesta a Claudio di marciare sui territori danesi). Potremmo chiamare tutto ciò capacità di elaborare e mettere in pratica un pensiero sistemico. Su obiettivi e risultati va poi focalizzata l’energia e l’entusiasmo propri e dei “followers” soprattutto attraverso l’esempio portato in prima persona».[6]
Un’ultima osservazione. Il leader aziendale e i manager ai diversi livelli dell’organizzazione devono incarnare la corporate personality, o personalità dell’azienda, rappresentandone l’anima, lo spirito, la cultura, i valori fondamentali. Ovvero la corporate identity, consistente negli elementi durevoli dell’azienda. In altre parole, la corporate personality comprende l’insieme delle modalità che manifestano l’identità aziendale rinnovandola continuamente nel tempo pur garantendone l’unicità attraverso comportamenti distintivi, l’offerta di beni e servizi ben determinati o campagne di comunicazione mirate che coinvolgono gli stakeholder, singolarmente o nella loro totalità (fluid brand) [7].
L’apprendimento manageriale dalla lettura dei classici shakespeariani e la loro applicazione rispetto alle caratteristiche di ogni corporate personality è possibile in quanto l’insieme di questi testi raccoglie e combina al suo interno una vasta quantità di archetipi che consentono un’interpretazione sempre attuale dell’essere umano. La lettura shakespeariana della leadership può cioè essere collegata con la nota teoria dei “Brand Archetypes”, originalmente ideata da Margaret Mark e Carol Pearson per lo studio e l’orientamento della comunicazione di marca. Gli archetipi di marca sono rappresentazioni simboliche che contribuiscono a delineare l’identità e le qualità distintive di un’azienda. Mark e Pearson ne individuano dodici (tutti ritratti magistralmente da Shakespeare: dall’Eroe al Buffone, dal Mago all’Amante, dal Fuorilegge all’Esploratore) raggruppati in quattro quadranti. Ciascun archetipo incarna un set specifico di caratteristiche e valori che risuonano con segmenti specifici di pubblico e inducono a organizzare le relazioni aziendali in modo diverso. Allineare la leadership strategica con l’archetipo alla base di un’organizzazione può quindi conferire maggiore coerenza alla struttura aziendale e potenziarne la leadership sul mercato.
Vediamo qualche casistica (per approfondimenti vedi l’Opinion Piece di Joseph Sassoon che pubblicheremo lunedì prossimo):
- Archetipo dell’Eroe. Quando l’obiettivo primario dell’organizzazione è fornire ai propri stakeholder gli strumenti per superare sfide, allinearsi con l’archetipo dell’Eroe può costituire la chiave per guidarli verso il successo attraverso forme organizzative che mettono ognuno alla prova. Perciò Adidas si identifica con lo slogan: Impossible is Nothing.
- Archetipo del Creatore. Si adatta a marchi visionari, autentici e creativi, per i quali la perfezione è l’obiettivo principale: soldi e tempo non sono un problema. Un brand che tipicamente si posizionava rispetto a questo archetipo era la Apple di Steve Jobs: costantemente un passo avanti rispetto ai suoi concorrenti, stabiliva gli standard di qualità del settore, creando prodotti innovativi, originali e costosi.
- Archetipo dell’Esploratore. Quando la missione dell’impresa implica l’incoraggiamento alla crescita personale e alla scoperta, adottare l’archetipo dell’Esploratore può trasmettere a dipendenti e clienti un senso di avventura e spingere verso modalità organizzative volte al superamento dei confini e favorevoli all’iniziativa individuale (SpaceX si propone di «rendere la vita multiplanetaria e consentire la colonizzazione umana di Marte»).
- Archetipo del Mago: L’azienda “magica” vende un’esperienza trasformativa, non solo un prodotto. Ha un carisma legato alla sua capacità di realizzare i sogni. Come Disney, che tramite il motto «Il posto più felice della terra», offre un’esperienza che cambia la vita ai bambini e alle loro famiglie, imita le fantasie che crea sullo schermo, trasmette la magia nei più piccoli dettagli.[8]
[1]Cfr.: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2008/08/13/la-nuova-era-de/
[2] Pier Luigi Pisa, Il piano di Zuckerberg una AI aperta a tutti e tanti utenti per Meta, LaRepubblica, 13 maggio 2024.
[3] Il Manifesto dello Humanistic Management, cit., Ottava Variazione p. 19.
[4] Cfr. https://www.openleadership.it/in-depth/
[5] Cfr.: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/category/openmood/
[6] Marco Minghetti, L’Impresa shakespeariana, cit., p. 45.
[7] Alessandra Mazzei, Silvia Ravezzani, Comunicazione d’impresa. Pearson, 2024. Pag. 33.
[8] Margaret Mark, Carol S. Pearson, The Hero and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes. McGraw Hill, 2001.
7 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
Puntate precedenti: