VRE giunge alla nona conversazione della rubrica #New Humanities e al contempo guarda alla conclusione di un anno scolastico caratterizzato ancora da una modalità ibrida. Un’alternanza fluida tra presenza e DAD difficile da programmare in un periodo in cui l’emergenza sanitaria era ancora fortemente determinante nelle scelte operate.
Abbiamo voluto capire meglio il mondo della scuola, i modelli educativi, le metodologie didattiche, la resistenza al cambiamento, le criticità e le opportunità.
Come ripensare la scuola e l’educazione scolastica del prossimo futuro. In un mondo egemonizzato dalle tecnologie, come i nuovi linguaggi possono essere utilizzati per una modalità didattica più vicina alle ultime generazioni, di che cosa c’è bisogno, ora più che mai, soprattutto visto il contemporaneo approccio della DAD che probabilmente si protrarrà oltre l’emergenza epidemiologica?
Queste alcune delle domande che Mariangela Matarozzo ha posto a due voci autorevoli, due punti di riferimento nel mondo della scuola e dell’educational; Matteo Saudino – Docente di filosofia, ideatore di BarbaSophia (Canale YouTube dedicato alla storia e alla filosofia), scrittore e Cristina Pozzi – Board Member, COO e Head of Contents Treccani Futura. Young Global Leader del World Economic Forum 2019-2024. Da due prospettive diverse hanno portato un contributo importantissimo dal quale ognuno di noi può trarre elementi di necessaria riflessione.
VRE. Cosa può riscoprire la scuola dalla grande tradizione educativa che ci ha preceduto e cosa invece deve essere cambiato?
Matteo Saudino – Della condizione educativa che ci ha preceduto dobbiamo senza dubbio conservare la robustezza dei programmi, delle discipline; la scuola italiana ha sempre messo al centro una buona preparazione matematica, letteraria, è una scuola che dà molto per quanto riguarda le lezioni frontali, sa sicuramente formare i ragazzi e le ragazze dal punto di vista dei contenuti. Ma al contempo, cos’è che va cambiato? Va cambiata la didattica per quanto concerne la partecipazione dei ragazzi, è troppo passiva la scuola italiana, dunque la sfida sarà mantenere la forma dei contenuti e delle discipline ma al contempo aumentare la partecipazione degli allievi e delle allieve.
Aggiungerei anche questo aspetto: la robustezza delle discipline si mantiene ma bisogna anche irrobustire l’interdisciplinarietà, le materie vanno più che mai allargate, devono essere fatte toccare, non è possibile pensare che la matematica, la chimica siano una cosa la letteratura sia un’altra ancora, che la storia dell’arte sia una disciplina chiusa in sé stessa, ecc. Bisogna veramente irrobustire le occasioni di interdisciplinarietà, ripensare proprio questi aspetti.
Cristina Pozzi – Quando pensiamo alla scuola e ai processi educativi del passato tendiamo a considerarli come qualcosa di superato e arretrato rispetto al presente. Questo atteggiamento è figlio di un approccio interpretativo del tempo e delle civiltà umane che tende a immaginare un percorso lineare di crescita e miglioramento continui che individuiamo nel concetto di progresso. Un meccanismo che tendiamo spesso, nel mondo occidentale, ad applicare ai modelli che ci hanno preceduto in qualsiasi ambito della nostra società e della sua organizzazione.
In effetti, ogniqualvolta ci troviamo di fronte a una trasformazione culturale, tendiamo a tracciare una linea di confine nel tempo e a immaginare di essere entrati in un periodo nuovo, così diverso da quelli precedenti da potersi identificare come un’epoca a sé, un mondo nuovo, nel quale la società non può che essere ripensata e riprogettata.
Ma non esistono modelli migliori o peggiori in assoluto, solo modelli che possono rispondere meglio alle sfide di un determinato contesto. Sarà dunque molto utile guardarsi indietro e con un atteggiamento esplorativo.
Oggi ci troviamo proprio in uno di quei momenti di passaggio epocali quando il digitale ha fatto la sua comparsa nel nostro mondo e ha iniziato a provocare rapidi cambiamenti trasformativi molto profondi.
Come in altri momenti nel passato sono cambiati il nostro modo di comunicare, la portata della diffusione e della condivisione di idee, il nostro modo di relazionarci, di esprimerci e di pensare. La conseguenza naturale è che cambiano anche i modi di costruire la nostra società, di lavorare, di governare, di apprendere.
Il punto fondamentale è quindi innanzitutto quello di situare i modelli educativi nel loro periodo storico, nella loro epoca, in quanto da un lato derivanti dalla cultura nella quale nascono e dall’altro strumento per influenzarne le evoluzioni.
La cosa interessante è che se analizziamo i modelli del passato a partire dall’antichità ci accorgiamo che in termini di contenuti i cambiamenti ai quali abbiamo assistito sono stati lenti e hanno più che altro aggiunto nuove materie mantenendo saldi i fondamenti.
In particolare, possiamo disegnare il seguente grafico:
Nonostante l’educazione sia al centro di una cultura e di un’epoca, l’inerzia della storia tende a ostacolare il cambiamento e questo fa sì che sia difficile aggiornare il processo educativo inserendo nuove materie in modo efficace all’interno di un sistema che è molto affollato, in particolare arrivati ai nostri giorni.
Tuttavia, pensando a come potremmo evolvere il nostro sistema, i cambiamenti che riguardano le materie non sono la parte preponderante. Certamente è necessario aggiornare i curricula con nuove discipline che ci aiutino a comprendere meglio i linguaggi del nostro tempo come il pensiero computazionale e il digitale, alcuni fondamenti di intelligenza artificiale, la tutela del nostro pianeta e la sostenibilità, la riflessione etica (non la storia della filosofia) riguardo al nostro tempo e agli scenari futuri.
L’educazione però non è solo definita dalle materie che rientrano nel curriculum ma anche e in larghissima parte dal metodo utilizzato.
Ed eccoci arrivati al nostro punto: cosa cambiare della tradizione educativa attuale e cosa mantenere saldo? Cosa riscoprire da epoche passate che potrebbe essere di supporto in un momento storico come quello attuale?
Credo che ci siano alcuni spunti interessanti che possiamo cogliere dal passato e fare nostri con i dovuti accorgimenti.
Ne ho selezionati in particolare tre.
Socrate e la forma dialogica
Instaurare un dialogo piuttosto che impartire lezioni frontali passando un messaggio di verità agli studenti. Questo metodo permette di insegnare a pensare e a seguire la propria curiosità e i propri interessi in un processo di apprendimento che tende all’autonomia dalla maestra o dal maestro.
Un metodo di questo tipo permette di uscire dallo schema della verifica nozionistica e di entrare in quello della verifica di una comprensione da parte di studentesse e studenti rispetto a un problema o una domanda e alle loro possibili soluzioni. Durante il lockdown nel 2020 alcuni docenti hanno adottato metodi di questo tipo spinti dalla necessità di adattarsi a nuovi strumenti che mettono in crisi i sistemi di valutazione basati sul nozionismo, con risultati interessanti sia in termini di crescita personale degli studenti sia in termini di coinvolgimento e partecipazione alle attività scolastiche.
Aristotele e l’importanza della logica
Logica, capacità argomentativa, conoscenza dei limiti e delle trappole della nostra mente sono aspetti fondamentali di qualsiasi processo di apprendimento, di decodifica del mondo nel quale viviamo e di relazione con l’altro.
Oggi, rispetto ai tempi di Aristotele, abbiamo a disposizione conoscenze riguardo al nostro cervello e al suo funzionamento sia a livello individuale sia a livello di interazione con gli altri in comunità più o meno grandi che, seppur ancora limitate e esplorabili, ci danno la possibilità di equipaggiarci con strumenti utilissimi ad affrontare la complessità del nostro tempo. Conoscere alcuni principi e indicazioni che ci arrivano dalle neuroscienze e praticare la logica e il pensiero argomentativo sono strumenti fondamentali che sono uno strumento essenziale, le fondamenta di qualsiasi processo di apprendimento.
Imparare a pensare e a mettere in discussione un’idea
Il modello delle Università medievali e rinascimentali prevedeva due formati:
- la lectio nella quale il maestro faceva lezione ai suoi discenti con una formula frontale durante la quale si dava lettura di opere di alcuni autori autorevoli alla quale seguiva in commento;
- la disputatio, naturale conseguenza del commento, apriva una ricerca di verità e una vera e propria discussione tra maestri e studenti e offriva uno spazio per il ragionamento critico.
Troppo spesso i formati educativi che utilizziamo nelle nostre aule assomigliano solo alla lectio e non lasciano lo spazio per la disputatio finendo per limitare la capacità di porsi domande e di mettere in discussione la realtà in modo critico.
VRE. Ad oggi sono messi in discussione molti dei modelli educativi che hanno formato le generazioni precedenti o quelle di cui facciamo parte. Si riscopre una grande attenzione verso la formazione del singolo come elemento di una comunità e non più come recettore passivo di un sapere immobile. Pensiamo ad esempio all’Emilio di Rousseau, basato su una conoscenza derivante dall’esperienza pratica (learning by doing), può essere ritenuto ancora valido?
Matteo Saudino – Oggi in un mondo complesso, sempre più rapido, veloce, tecnologico, consumista, in cui gli studenti e le studentesse tendono ad essere dei passivi esecutori, il modello educativo di Rousseau ha ancora tanto da dirci, la proposta dell’Emilio è una proposta fertile e feconda perchè mette al centro la dimensione dell“imparare facendo” recuperata anche da Dewey per quanto riguarda la filosofia, la pedagogia americana del xx secolo. È importante l’accettabilità dell’allievo e dell’allieva, ed è importante ampliare proprio la dinamica laboratoriale. I ragazzi devono sviluppare con il giusto equilibrio competenze e contenuti, conoscenze e competenze, questa è la via maestra: solo che le conoscenze e le competenze non possono essere calate dall’altro, si debbono esercitare, mettere in pratica attraverso anche la meraviglia, lo stupore, lo scoprire e il fare, per questo l’insegnamento di Rousseau è ancora a mio avviso attuale.
Cristina Pozzi – Uno degli obiettivi dell’educazione è quello di fornire gli strumenti per vivere in società e per comprendere la cultura nella quale si è immersi. Il singolo, in quanto futuro cittadino, è inserito in un processo che deve metterlo nelle condizioni di vivere appieno il proprio mondo e il proprio tempo in modo attivo e autonomo.
Questo obiettivo non può essere raggiunto da un modello nozionistico e standardizzato che non presta attenzione alle caratteristiche di ognuno e al contesto nel quale viviamo.
In questo senso possiamo ritrovare nell’Emilio un progetto attuale che condivide una visione di responsabilità e attivismo sociale dei singoli.
Questo modello, questa visione, vale ancora di più in un presente nel quale la società nella quale viviamo non ci premia per quello che sappiamo ma per ciò che sappiamo fare con quello che sappiamo, come ci comportiamo nel mondo, e come ci adattiamo. Dopotutto, sapere non è più una prerogativa solo degli umani e potremmo affermare che nel nostro mondo i motori di ricerca sanno tutto. Riuscire a selezionare e individuare i saperi utili alla risoluzione di un problema, applicarli e trasformarli in progetti da portare a termine individualmente o collettivamente diventa invece l’aspetto fondamentale in grado di fare la differenza tra una cittadina o un cittadino responsabili e partecipativi.
Per questo motivo le cose che oggi più sono in grado di differenziarci e di fornirci strumenti utili per la crescita personale sono sempre di più la creatività, il pensiero critico, la capacità di comunicazione, la collaborazione, le conoscenze moderne (quelle che devono integrare e modificare i nostri curricula), la capacità di individuare nuove potenziali tecnologie, l’innovazione. Importantissime sono inoltre le qualità del carattere che aiutino le persone a sentirsi soddisfatte e a collaborare e vivere insieme costruendo un mondo migliore.
Dovremmo superare quindi i modelli che presentano soluzioni standard e andare alla ricerca di soluzioni che mettano le comunità educanti nelle condizioni di stabilire insieme agli studenti cosa debba essere appreso nel loro contesto e per i loro futuri.
Questo significa anche e soprattutto ripensare i modelli di valutazione ai quali sono sottoposti studentesse e studenti e rimettere i docenti nelle condizioni di definire e organizzare situazioni di apprendimento adatte alle proprie classi.
Secondo il Center for Curriculum Redesign per farlo è possibile applicare un modello a quattro dimensioni che preveda di lavorare su:
- Conoscenze, vale a dire cosa sappiamo e cosa comprendiamo includendo materie tradizionali come ad esempio la matematica, materie moderne come l’imprenditorialità e tematiche centrali come l’alfabetizzazione globale.
- Carattere, vale a dire come ci comportiamo e interagiamo nel mondo. In quest’area rientrano la mindfulness, la curiosità, il coraggio, la resilienza, l’etica e la leadership.
- Competenze, vale a dire come utilizziamo quello che sappiamo. Creatività, pensiero critico, comunicazione e collaborazione sono parte fondamentale di questa dimensione.
- Meta-Apprendimento, vale a dire come riflettiamo su noi stessi e come ci adattiamo continuando a imparare e crescere verso i nostri obiettivi. Qui rientrano la metacognizione e il growth mindset.
Tutte e quattro le dimensioni sono parte del processo di apprendimento e possono essere abilitate da modelli basati su esperienze pratiche, lavori in gruppo, progettualità.
Per cambiare paradigma sarà dunque necessario partire dal processo educativo, puntando in particolare allo sviluppo di competenze e abilità umane: esperienze autentiche, intelligenza emotiva, capacità relazionali, di porsi domande e trovare spiegazioni con il proprio ragionamento logico deduttivo e induttivo, capacità decisionali, problem–solving, capacità di comunicazione, etica e spirito critico; ma anche mettendo i giovani nelle condizioni di conoscere i linguaggi delle macchine e delle tecnologie e i metodi utili al loro miglior utilizzo, a partire anche dal modo in cui sono usate per il processo di apprendimento che li riguarda. È necessario ripensare il curriculum in modo da adattarsi a un mondo dove tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica, le realtà miste e immersive sono in grado di cambiare completamente il nostro modo di vivere, lavorare e comunicare. Considerata la pervasività delle tecnologie nel campo dei dati, delle informazioni, nelle conoscenze nozionistiche e in alcuni casi anche della loro comprensione, i curriculum scolastici devono essere ribaltati per dare meno peso a questi aspetti e più alle competenze e al trasferimento di ciò che si è appreso in altri contesti e domini.
VRE. Come poter pensare ad una nuova relazione tra docente e discente nell’ottica di un cambiamento delle modalità non solo di trasmissione del sapere ma anche di accesso al sapere?
Cristina Pozzi – In un modello come quello che abbiamo disegnato sin qui maestre e maestri trovano uno spazio cruciale che è quello di accompagnatori delle studentesse e degli studenti in un processo di crescita curato e situato nel mondo attuale. Da diverso tempo si parla di tutori che devono essere capaci di selezionare le esperienze e gli strumenti più adatti a far emergere le caratteristiche dei singoli e a guidarli nell’acquisizione di nuove competenze e nelle dimensioni del carattere e del Meta-Apprendimento. Ognuno di noi, dopotutto, apprende in modi differenti e con le proprie strategie. Questo obiettivo si raggiunge in due modi: da un lato è importante la progettazione dei metodi che deve essere il più possibile universale. Troppo spesso, infatti, ciò che progettiamo è pensato per gruppi specifici di persone caratterizzati dal fatto di essere considerati una sorta di normalità, rischiando così di lasciare indietro molti e di appiattire e standardizzare l’apprendimento. Dall’altro lato, una progettazione universale dei modelli educativi richiede anche che vi siano docenti in grado di seguire in modo personalizzato ogni studentessa e ogni studente. A questo punto però sorge una questione non di poco conto e cioè la necessità di fare i conti con la realtà e con le risorse economiche a nostra disposizione.
Un maestro che segua personalmente ogni studente con così tanta cura può davvero esistere oppure diventa insostenibile per la nostra società?
Proprio in questo contesto però entrano in gioco i nuovi metodi di apprendimento sin qui descritti e le nuove tecnologie al servizio dell’educazione perché, modificando l’approccio tradizionale, permettono agli educatori di ripensare il modo in cui utilizzano il proprio tempo. In particolare, le nuove tecnologie del campo dell’intelligenza artificiale secondo alcuni potrebbero fornirci gli strumenti per un apprendimento personalizzato nel quale il docente può assumere il ruolo del mentore e del partner che abilita un percorso educativo.
Si tratta di un modello che potremmo definire orizzontale che, non per caso, è ricercato anche nel mondo aziendale. Anche in questo contesto, infatti, le tecnologie abilitano nuovi modi di collaborare, di scambiare idee e di realizzare progetti che superano la forma piramidale della gerarchia e che puntano a dare modo ai singoli di esprimere il meglio di sé e di dare il proprio contributo alle sfide comuni con autonomia ed entusiasmo. Così, i leader più pronti per le sfide nel XXI secolo sono coloro che fanno emergere il proprio team e che non che impongono un modello unico e standardizzato.
Le tecnologie che da un lato ci spingono ad avere nuove esigenze per affrontare il nostro mondo ci offrono dunque anche nuovi strumenti per risolvere la questione ma richiedono una riflessione più approfondita.
In alcuni paesi si sta sperimentando molto nella direzione dell’intelligenza artificiale come strumento educativo. Questo accade ad esempio in alcune zone della Cina o negli Stati Uniti dove veri e propri giganti tecnologici si sono specializzati nello sviluppo di strumenti per un approccio che ha preso il nome di Educazione di Precisione. Si tratterebbe di una soluzione che, almeno in prospettiva, permette a ogni singolo studente di essere affiancato da un tutore (informatico) autorevole quanto Aristotele, sempre a sua disposizione. A questo punto il nostro problema riguardo l’efficienza sarebbe superato e i risultati sarebbero strabilianti. Dopotutto quello che il buon senso suggerisce è anche provato scientificamente: avere un tutor personale aumenta di gran lunga i risultati raggiunti dagli studenti, anche con un modello più tradizionale fondato sulle conoscenze più che sulle altre dimensioni educative. Si tratta però di un’utopia o, per meglio dire, di una distopia considerato il fatto che se applicato senza un’integrazione umana eliminerebbe la socialità, l’interazione, l’apprendimento dall’esperienza, l’intelligenza emotiva: tutti fattori essenziali nella determinazione della persona in tutte le sue dimensioni e che non possono essere eliminati dal processo educativo.
Inoltre, alle macchine mancano molte cose, ma una in particolare risulta essenziale nel rapporto tra docenti e studenti: come diceva John Haugeland nel 1979, “ai computer non importa nulla”. Non importa se lo studente impara di più, meglio, e con più entusiasmo. Non importa se lo studente è sereno e sta bene. Non importa che persona sarà domani come risultato dell’educazione ricevuta. Il computer non riesce a stimolare e seguire la curiosità del suo studente con la stessa cura di un umano. Ci possiamo tuttavia servire dell’algoritmo per mettere al centro la curiosità e la persona e per permettere agli insegnanti di dedicarsi agli studenti in modo più personalizzato, ispirandoli, aiutandoli a sviluppare competenze, comprensione, empatia e soprattutto motivandoli con il giusto livello di sfida.
Matteo Saudino – La nuova relazione deve recuperare il modello orizzontale, circolare, presente ad esempio nella scuola di Mileto, nell’antica Grecia, nelle antiche colonie greche, o anche presente in parte nell’umanesimo, mi spiego: si tratta sempre di scuole, formazioni elitarie, di movimenti per pochi, ma l’idea qual è?
È quella della partecipazione attiva dello studente, dell’allievo, del discente e l’orizzontalità, la circolarità, rimettere in discussione quello che si apprende, che si conosce, discutere, confrontarsi, la scuola non può essere un luogo per spettatori, ci sono allieve e allievi che passano settimane e mesi, a volte anni, senza ma intervenire, senza parlare, senza mettersi in discussione, se non durante le interrogazioni, le verifiche, tendenzialmente valutative, ci sono poche verifiche formative ma tante valutative, allora sempre in silenzio ad ascoltare, a volte ad annoiarsi e poi prestazioni in vista del voto: no, non deve funzionare così, la relazione allievo-maestro deve mutare e diventare una relazione non alla pari, perché il ruolo del docente è ben chiaro e il ruolo del discente anche, sono separati, ma nell’apprendimento serve la cooperazione, la collaborazione, serve chiaramente la responsabilità, deve aumentare la responsabilità del discente all’interno del processo di apprendimento, altrimenti è passivizzante.
VRE. L’utilizzo dei nuovi linguaggi e delle nuove tecnologie costituiscono un nuovo modo di esperire, apprendere, formare, interagire. Pensate che l’introduzione di tali strumenti possa essere utile per elaborare una didattica più vicina alle ultime generazioni?
Cristina Pozzi – Il linguaggio del digitale è uno strumento essenziale per vivere nel nostro mondo tecnologico e connesso e lo sarà sempre di più. Per questo è importante educare al pensiero computazionale fin da piccoli al fine di conoscere la logica che guida le tecnologie digitali che utilizziamo ogni giorno.
Questo linguaggio è quello che permea la cultura delle nuove generazioni e non può essere avulso dalla scuola che corre il rischio di trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo per i quali si propone di educare i giovani.
Inserire gli strumenti tecnologici tra quelli che possono essere utilizzati nei processi di apprendimento è dunque un passaggio obbligato se vogliamo creare un’educazione a prova di XXI secolo. Ma per vivere nel nostro mondo non basta conoscere il linguaggio: ci serve anche una riflessione che vada oltre lo strumento e che si apra al suo utilizzo sinergico con l’umano. In questo ambito sarà utile comprendere come il nostro rapporto con le tecnologie nelle quali siamo immersi oggi si evolva e quale sia il suo stato attuale. Proviamo a concentrarci ad esempio sulle tecnologie afferenti all’ambito dell’informatica e delle loro possibili applicazioni come strumento di conoscenza e ragionamento. L’impatto con la realtà, particolarmente forte dal 2020 con la pandemia, ci mostra che gli strumenti a supporto delle nostre attività cognitive e di comunicazione devono essere inseriti in un contesto più ampio di metodo e forma mentis, così come in un paradigma che vada oltre l’obiettivo dell’efficienza e che si concentri sulla qualità dell’esperienza educativa. Nel 1962, presso lo Stanford Research Institute, Douglas Engelbart pubblicava un documento visionario che ha guidato la realizzazione di gran parte degli strumenti tecnologici che oggi usiamo tutti i giorni: il personal computer, i suoi accessori, il tablet, lo smartphone, gli oggetti a comando vocale. Il documento porta un titolo eloquente: «Aumentare l’Intelletto Umano: Un Quadro Concettuale».
Come si raggiunge questo ambizioso obiettivo? Secondo Engelbart grazie alla simbiosi con il computer, strumento che aumenta la nostra capacità di approcciare problemi complessi grazie a una maggiore e migliore capacità di comprensione. Engelbart immagina un vero e proprio sistema che ci permetterebbe di pensare ed essere creativi con la stessa libertà che abbiamo con carta e matita. Ecco perché furono proprio lui e gli studiosi a lui contemporanei a pensare al mouse, a suggerire che si potesse arrivare ad usare una penna e di interagire con il computer (o il tablet) con la massima flessibilità. La sua visione oggi non è realizzata soprattutto perché mancano alcune parti essenziali al sistema sinergico da lui immaginato. In questo, infatti, esistono diverse componenti. C’è l’artefatto, nel nostro caso il computer, ma ci sono anche gli esseri umani che devono avere un adeguato training per conoscere l’artefatto, le sue potenzialità e i suoi linguaggi[1]. Oggi sono rimasti indietro proprio gli ultimi tre elementi. Senza un avanzamento in queste componenti il progressivo ingresso delle tecnologie nelle nostre case, nelle scuole e negli uffici, non potrà che generare frustrazione, iscritto in un paradigma che punta all’efficienza e non alla qualità dell’esperienza.
Uno strumento che permette di spiegare in modo molto semplice questo aspetto è il modello SAMR che consente di mostrare come uno strumento tecnologico possa essere utilizzato in modo diversi e con un diverso grado di sinergia in base al metodo.
SAMR sta per Substitution (Sostituzione), Augmentation (aumento), Modification (modifica) e Substitution (sostituzione), definendo una scala che nello schema sotto riportato parte dal basso verso l’alto con una progressiva capacità di comprendere le potenzialità dello strumento che si ha a disposizione e di ripensare il progetto educativo di conseguenza.
Nell’ultimo stadio, se la tecnologia è abbastanza avanzata, abbiamo raggiunto la simbiosi di Engelbart e abbiamo un essere umano formato e in grado di parlare il linguaggio della tecnologia che sta usando.
Matteo Saudino – Le nuove tecnologie sono indispensabili all’interno dei processi di apprendimento rivolti alle nuove generazioni, ma è importante che le nuove tecnologie rimangano mezzi, distinguere i mezzi dai fini dovrebbe essere sempre presente a coloro che governano, che hanno incarichi politici, che hanno incarichi pedagogici ed educativi; invece viviamo in un’epoca in cui i mezzi si piegano ai fini, in cui a volte si perdono di vista i fini. Il fine della scuola è formare le persone, educarle, l’emancipazione umana: questa è la finalità di una scuola in una democrazia avanzata e matura che voglia creare giustizia e progresso. E allora le nuove tecnologie devono essere al servizio dell’apprendimento e non devono diventare la panacea di tutti i problemi, non devono diventare dei feticci da adorare o da sbandierare. Purtroppo assistiamo molto a tecnologia senz’anima, la tecnologia senz’anima è come un corpo senza vita, la vita è in atto grazie all’anima, l’anima è ciò che vivifica un corpo portandolo dalla vita in potenza alla vita in atto, e così serve un’anima alla scuola, un’anima che umanizzi la tecnologia, che dia un senso compiuto alla tecnologia, che non faccia di essa appunto un fine o un vitello d’oro da adorare.
C’è bisogno di un uso più etico della tecnologia e non di un uso appunto fideistico della tecnologia. Ovviamente la tecnologia, la rete in primis, ma poi dopo tutte le modalità di fare, matematiche, geometria, imparare le lingue, di comunicare, di costruire progetti video, tutte le nuove tecnologie, il database, la capacità poi di comunicare, di recepire e recuperare informazioni, documenti, di archiviarli, sono fondamentali ma vanno appunto problematizzate, le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi vanno studiati, capiti, pragmatizzati in modo tale da utilizzarli in modo consapevole.
VRE. Anni di riforme del sistema scolastico hanno visto passare gli studenti dallo status di persone da formare a vasi da riempire, all’interno di una logica produttiva che vede i docenti impegnati in una iperproduttività (centralità del voto, iperprogrammazione) che privilegia le competenze piuttosto che le capacità. Oggi più che mai sentiamo di chiederci: Qual è il fine della scuola?
Cristina Pozzi – La domanda centrale è proprio questa: qual è il fine della scuola? La risposta non è univoca ma possiamo fare una riflessione. La scuola ha infatti diversi ruoli nella nostra società che possiamo individuare in particolare nella cura dei più piccoli, nella socializzazione e nell’accreditamento e nella valutazione nel momento in cui si entra nel mondo del lavoro e nella società.
Questi ruoli non devono farci dimenticare che un processo educativo, che avvenga a scuola o fuori dalla scuola, dovrebbe puntare all’obiettivo di fornire gli strumenti per comprendere e vivere il mondo nel quale siamo situati.
Per dirla con Edgar Morin, l’obiettivo della scuola è quello di insegnare a vivere.
«[…] Insegnare a vivere non è solo insegnare a leggere, scrivere e far di conto, né solamente insegnare le conoscenze basilari utili della storia, della geografica, delle scienze sociali, delle scienze naturali.
Non è concentrarsi sui saperi quantitativi, né privilegiare la formazione professionale specializzata: è introdurre una cultura di base che includa la conoscenza della conoscenza.»
In questa citazione dal saggio Insegnare a Vivere troviamo diversi strumenti tutti necessari: quelli per vivere in società (leggere, scrivere e far di conto), quelli che forniscono gli elementi di una cultura generale (le conoscenze basilari utili della storia, della geografica, delle scienze sociali, delle scienze naturali), gli strumenti che permettono di trovare un lavoro in un mondo tecnologico come il nostro (i saperi quantitativi e la formazione professionale specializzata). Ma quello che è più importante di tutti è la capacità di imparare, la conoscenza del funzionamento del nostro cervello, strumento principale a nostra disposizione per interpretare il mondo.
Troviamo quindi qui gli strumenti per rispondere ai bisogni fondamentali degli esseri umani, per gettare le basi del benessere psicofisico e per dare a tutti pari opportunità.
È importante arrivati sin qui fare una precisazione. Pur non dovendo essere il centro e la focalizzazione del processo educativo va notato che il tema della preparazione al lavoro, in particolare per i giovani adulti più vicini al termine del processo educativo formale tradizionale, non può essere tralasciato dal momento che viviamo in un contesto nel quale le nuove tecnologie stanno rivoluzionando e in alcuni casi sostituendo i lavori del passato.
Quello che possiamo evidenziare in questo contesto è che ci sono alcune tipologie di competenze in particolare che sono più difficili da progettare in una macchina e che più facilmente possono sfuggire al processo di automazione attuale che sta colpendo e trasformando gran parte dei lavori che oggi conosciamo.
Le competenze su cui puntare saranno allora quelle non ripetitive e interpersonali come, ad esempio, quelle che si utilizzano nella consulenza; quelle non ripetitive e analitiche, usate per esempio nella progettazione ingegneristica; e quelle che potremmo chiamare non remotizzabili dal momento che in un mondo globale e connesso come quello di oggi sul mercato del lavoro si amplia e i candidati che ci fanno concorrenza potrebbero essere ovunque grazie a una connessione internet stabile.
Matteo Saudino – Le ultime riforme della scuola hanno avuto un minimo comun denominatore che era quello del risparmiare, tagliare e potare. Ma potare non per rinvigorire la scuola, ma del potare in realtà per farla appassire o per renderla comunque molto distante da un’idea di formazione della persona. Le scuole in Italia hanno molti spettri, è una scuola parcheggio, non luoghi dove si perde di fatto di vista ogni finalità educativa ma si passa soltanto il tempo; poi è una scuola della burocrazia, dove si compilano solo questionari, form, registri elettronici, si è sommersi da burocrazia e non c’è di fatto vitalità, autonomia, indipendenza, non c’è progettualità. Poi ci sono le scuole simili ad aziende e centri commerciali, non capendo che la scuola non è né un’azienda né un centro commerciale: le stesse aziende oggi hanno bisogno di ragazzi preparati, creativi, indipendenti, con una testa ben fatta e non di ragazzi esecutori o consumatori acritici, o comunque quel modello non è un modello che serve alla democrazia, la scuola non deve riempire delle teste ma deve formare delle persone, libere, con spirito critico; ne ha un vantaggio tutta la democrazia e tutti i luoghi della democrazia, culturali, economici.
Ovviamente per vantaggio intendiamo una scelta più libera e più giusta da una scelta appunto di esecutore, di burattino, una scelta appunto chiusa e tendenzialmente autoritaria. Dunque bisogna invertire rotta, bisogna andare verso la scuola della testa ben fatta, critica, delle intelligenze plurime e non continuare verso la scuola del riempir la testa per poi avere degli studenti e studentesse amorfi e apatici.
VRE. In un contesto nazionale, divenuto ormai globale, che muta ad una velocità preoccupante e si avvale di strumenti e canali mai avuti prima, cosa bisognerebbe chiedere ai docenti? Qual è il loro ruolo?
Cristina Pozzi – Il ruolo dei docenti è e resta centrale. Facciamo un esempio.
Immaginiamo di voler ascoltare un po’ di musica e scoprire qualcosa di nuovo.
Potremmo connetterci a un motore di ricerca e cercare online senza un ordine preciso e imbatterci in molte cose diverse tra loro. Da un certo punto di vista in questo caso stiamo navigando in un ambiente aperto che ci permette di spaziare in un universo pressoché infinito guidati solo dalla nostra curiosità.
Si pongono però subito due ordini di problemi.
Da un lato non è detto che sappiamo effettivamente cosa cercare. Questo restringe il campo e ci lascia in una situazione nella quale rischiamo di perderci qualcosa di utile al nostro scopo.
Allo stesso modo, dall’altro lato, a un certo punto interverrà il disegno di un algoritmo che non ci propone opzioni di approfondimento basandosi sulla musica e sulle nostre esigenze di ascolto ma che è programmato secondo logiche che ci trattengano il più possibile in ambienti dove posso ricevere messaggi pubblicitari. In questo caso di nuovo ci troveremo in un ambiente chiuso, una vera e propria bolla che finirà con il privarci degli stimoli che cercavamo fin dall’inizio.
Se invece decidessimo di rivolgerci a qualcuno, un’esperta o un esperto del tema, potremmo essere stimolati in modo personalizzato grazie al supporto di chi ha a cuore la nostra crescita personale.
Potrebbe trattarsi di un DJ o di una stazione radio che selezionino per noi le tracce più interessanti disegnando un percorso, oppure di un musicista che costruisce delle tracce per soddisfare i nostri gusti. In tutti i casi avrò al mio fianco qualcuno che disegnerà un percorso apposta per me con l’intenzione di valorizzare al massimo la mia esperienza.
Il fatto che esistano strumenti e canali nuovi aggiunge complessità e richiede ancora di più la presenza di qualcuno che possa curare e disegnare esperienze di apprendimento coinvolgenti, efficaci e personalizzate.
I docenti sono coloro a cui affidiamo i nostri giovani per equipaggiarli con gli strumenti utili ad affrontare il mondo e che hanno quindi il ruolo di designer e di guida. Cosa dovremmo chiedere ai maestri in questo contesto, o meglio, mi permetto di riformulare la domanda, in cosa dovrebbero essere abilitati dal sistema e supportati dalla comunità?
Ecco alcuni punti:
- Aggiornamento e formazione continua: in quanto mediatori tra il mondo e i giovani i docenti dovrebbero essere messi nelle condizioni di dialogare con il mondo, di viverlo, di studiarlo a loro volta. Essere quindi in relazione con una comunità educante che collabora con i territori e disegna i migliori percorsi per i propri studenti.
- Acquisizione di competenze con riguardo ai linguaggi del nostro tempo: il pensiero sistemico, quello computazionale, la capacità di leggere dati e trasformarli in informazioni importanti per le nostre decisioni. Queste competenze servono infatti per sfruttare appieno i nuovi strumenti che proprio il digitale ci offre al fine di personalizzare le esperienze di apprendimento oltre che per guidare studentesse e studenti.
- Insegnare ad imparare: metodo e conoscenza di sé dovrebbero essere al centro degli strumenti che offriamo ai giovani. Le esperienze di apprendimento dovrebbero essere disegnate al fine di includere anche questi aspetti rendendo gradualmente autonomi studentesse e studenti.
- Favorire la socialità e lo sviluppo di competenze relazionali.
Matteo Saudino – I docenti devono tornare ad essere degli intellettuali, devono riscoprire la loro professione come professione appunto di studiosi, intellettuali, devono avere entusiasmo, passione, voglia di aggiornarsi, più il mondo va veloce più bisogna aggiornarsi, ma c’è una cosa che è indispensabile, la passione: dire che serve passione non vuol dire che la professione dell’insegnante deve diventare una sorta di vita da missionario o da volontario; dire che serve passione significa dire che però quella dell’insegnante non è una vita come le altre, non è un mestiere come gli altri, vuol dire che senza passione non c’è apprendimento degli allievi, come fai ad accendere un fuoco, a stimolare la voglia di imparare se sei senza passione?
Però bisogna anche mettere i docenti nella condizione, e allora riqualificare la professione, aumentare i salari, fare delle formazioni molto più circolari, molto più stimolanti, anche retribuite, non dei corsi che piovono dall’alto, tendenzialmente sulla sicurezza e mai sulla didattica, sui contenuti, bisogna fare corsi sulla matematica, sulla scienza, sulla chimica, sulla letteratura, su Dante, di filosofia, di storia, bisogna fare corsi che riguardano le discipline, a scuola sì, ma per imparare, per studiare, per crescere, non solo per perdere tempo, occupare dei banchi, non si va comunque per lavorare chiusi in sé stessi, l’insegnante dev’essere sempre in espansione.
VRE. Cambiare la scuola significa puntare ad una nuova umanità, più consapevole, più capace di stare al mondo e di relazionarsi con gli altri. Significa ripensare a come vogliamo che le prossime generazioni guardino a sé stesse e al mondo e non solo a come creare opportunità di lavoro e sicurezze per il futuro. Quali riflessioni volete condividere su tale punto?
Cristina Pozzi – «We cannot solve our problems with the same thinking we used when we created them».
Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare che abbiamo usato quando li abbiamo creati, parola di Albert Einstein.
La scuola per definizione dovrebbe guardare al futuro e permettere ai giovani di sviluppare nuovi modi di pensare, nuove culture, nuovi approcci e non, invece, diventare uno strumento per perpetuare la società così com’è, in una visione statica.
In questo senso, in particolare in un periodo storico come quello attuale che richiede la capacità di pensare fuori dagli schemi e di risolvere grandi sfide originate nel passato e nel presente, il regalo più grande che possiamo fare all’umanità è quello di mettere i giovani nelle condizioni di cambiare, di innovare con coraggio, di avere visione e di agire di conseguenza creando e sperimentando nuove soluzioni.
I tre principi che dovrebbero fare da pilastro a un’educazione in grado di rispondere a questa esigenza sono che sia un’educazione: situata, liberamente partecipativa, consapevole.
Vediamoli uno ad uno.
Un’educazione situata è:
- situata nel tempo e nello spazio. Locale e globale, generale e specializzata, connessa e radicata nella comunità di riferimento e in grado di dare gli strumenti per crescere e vivere nel mondo che ci circonda ora e che ci circonderà domani, e dunque anche lungimirante e orientata alla storia come radice, al presente come azione e al futuro come preparazione.
- Una comunità di persone impegnata nel proprio territorio, aperta e collaborativa. Questa parola chiave comprende anche i temi della diversità, dell’inclusione e dell’accessibilità. Solo una comunità che è in grado di rappresentare tutte le parti sociali è davvero situata.
- Un’educazione applicata: tutto ciò che apprende viene presentato in un contesto, nella sua complessità e valutando tutti gli elementi che si interconnettono al suo interno. È multidisciplinare e permette di “unire i puntini”. È anche pratica e utile.
Un’educazione liberamente partecipativa è:
- L’educazione, nel suo complesso, dona una scelta, la capacità di vedere diversi futuri e di agire esercitando la propria libertà. Il processo stesso dell’educazione è libero, liberamente partecipativo, costruito in modo da seguire coloro che apprendono nei loro tempi e con le loro caratteristiche. È un’educazione che è in grado di motivare, incuriosire, divertire, stupire, sfidare, ispirare. Permette di sbagliare e di imparare dalle proprie sperimentazioni.
- Diversa ma che non fa differenze: un’educazione che dona pari opportunità a tutti i generi, a tutte le etnie e culture, a tutti i corpi.
- Continua, sia perché non si esaurisce in un ciclo scolastico, sia perché è in grado di dare dimensioni alla persona che non scadono e restano attuali anche in epoche incerte come quella attuale.
Un’educazione consapevole:
- allena la resilienza, il coraggio, l’empatia, l’etica e la leadership.
- Insegna a osservare, riflettere, comprendere, decidere, immaginare, analizzare, ragionare, criticare, costruire, collaborare, mettersi in gioco, agire, apprezzare il bello: insegna a vivere e a farlo nella nostra condizione umana.
- Insegna a conoscere sé stessi, le proprie emozioni, i propri limiti e le trappole della mente, le proprie leve motivazionali, le aspirazioni, la propria fisicità.
- Insegna i linguaggi del mondo contemporaneo: lingue, tecnologie, scienze, arti, culture.
- Alimenta l’autoefficacia, l’autoprotezione e l’autorealizzazione, la speranza.
- Attenta alle esigenze di ognuno in modo da permettere ad ogni individuo di esprimere le proprie potenzialità e di lavorare sulle proprie debolezze. Un’educazione che lavora su 4 dimensioni: conoscenze, carattere, abilità e autoriflessione.
Matteo Saudino – Cambiare la scuola vuol dire guardare all’umanesimo e portarlo alla massa; l’umanesimo era una prospettiva per pochi, elitaria, la nostra sfida è fare una scuola umanista per tutti, per le masse, e vuol dire una scuola che forma una testa critica ben fatta, una scuola di eroici furori, ecologica, in cui si sta bene, in cui si vive la scuola anche il pomeriggio, in cui la scuola è veramente un luogo di formazione, di passione e non una sorta di prigione in cui io devo trascorrere 5 o 6 ore al mattino in cui poi non posso entrare a fare nient’altro perché è un ambiente quasi di proprietà dei presidi o dei dirigenti, non funziona così.
Poi una scuola laboratoriale, una scuola che non sia prestativa, competitiva, ma che sia collaborativa, che sia sempre più in direzione della crescita cooperativa, una scuola che non svetta al centro il voto ma la valutazione, valutare è un diritto dell’allievo, un dovere dell’insegnante, ma non dare solo voti, i voti spengono la passione, l’entusiasmo, bisogna spiegare ai ragazzi, ragazze, bambini e bambine perché si impara quello, a cosa serve fare quello, accendere passione, a scuola si deve entrare conoscendosi poco e si deve uscire conoscendosi tanto, questo è l’obiettivo di una scuola umanista, questa scuola umanista può essere la vera risposta al male oscuro che attraversa la società da ormai decenni, il male oscuro che attraversa ormai la scuola è il nichilismo: una scuola umanista è una scuola anti nichilista.
[1] È il framework H-LAM/T: «a Trained Human being, together with his Artifacts, Language and Methodology ».