#PeopleCaring. Quale mindset per il “next normal”? Una Conversazione con Carlo Galimberti (Università Cattolica), Marcello Galli (Mediaset), Marco Ornito (SIA), Marcello Svaldi (Gioel)

Da inizio febbraio 2020 il mondo è stato catapultato in una realtà da fantascienza. La diffusione repentina e ampia del virus Covid-19 ha colto impreparata la maggioranza delle società occidentali e orientali, riversandosi con effetti dirompenti sul tessuto economico e sociale: mettendo, in particolare, le aziende pubbliche e private di fronte a una serie impressionante di nuove sfide. Se da un lato la contingenza ha accelerato processi di cambiamento già in atto nel mondo del lavoro e ha forzato alcune convinzioni consolidate, dall’altro il cambiamento innescato è parso, in alcuni casi, “momentaneo e precario”, in attesa di un ritorno alla “normalità” pre-pandemia. Ma un ritorno ai precedenti modelli è irrealistico: occorre inquadrare le azioni che le aziende intraprenderanno nei prossimi mesi come parte di un processo a lungo termine che non approderà ad un “new normal”, ma ad un alternarsi di “next normal” cui adeguarsi rapidamente. Questo assunto guida le Conversazioni della serie #PeopleCaring, che si pongono l’obiettivo di identificare gli ambiti prioritari di intervento delle organizzazioni post-Covid e alcune linee guida per gestire l’evoluzione in atto.

 

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Oggi due spinte trasformative – una dettata dal digital e una dettata dal virus – si intrecciano e si rafforzano a vicenda. Non a caso le imprese che hanno attraversato con maggiore successo la crisi sanitaria sono quelle digitalmente più̀ avanzate. Ma non si tratta solo di tecnologia. Prima ancora di tradursi nell’adozione di tecnologie digitali, l’imperativo della trasformazione riguarda la dimensione culturale. In questo senso, ogni organizzazione deve trasformare il mindset degli executive e degli employee orientandolo ad abbracciare senza riserve il nuovo.

Per questa ragione l’implementazione di processi di Change Management sta diventando una scelta di valore strategico. Gli interventi di Change Management devono mirare a modificare la cultura aziendale facendo leva sui valori condivisi, appoggiandosi sui change Champions /persone che aiutano a diffondere il cambiamento e creando un ambiente coerentemente favorevole alla trasformazione – un ambiente in cui ogni messaggio ricevuto dagli employee converga nel chiarire le ragioni del cambiamento e ciò che ognuno deve fare per renderlo possibile. Le organizzazioni hanno bisogno di passare da una logica di emergenza / sopravvivenza a una di successo ed empowerment sul lungo periodo.

Anche perché, come ha osservato Carlo Alberto Redi in questo blog, siamo davanti a “una successione sempre più incalzante di epidemie/pandemie con HIV, 1980 (da scimmie antropomorfe); Ebola, 1996/2013 (da macachi); Marburg, 1998 (da macachi); Nipah, 1998 (da pipistrelli – maiale; soggetto di un famoso film del 2011 Contagion interpretato da Matt Damon e Gwyneth Paltrow); SARS, 2002 (da pipistrelli – zibetti; identificata da Carlo Urbani poi morto per l’infezione); H5N1, 2003 (da varie specie di volatili); H1N1, 2009 (da maiale); Mers, 2014 (da pipistrelli – cammelli); Zika, 2016 (da zanzare, con la tragedia dei bambini nati da madri infette e portatori di gravi malformazioni neurologiche e microcefalia, i bambini invisibili del Brasile) e Covid-19 …”. Più che di scenari post-Covid occorre parlare dunque di un futuro in cui dovremo presumibilmente fronteggiare sempre nuove minacce pandemiche. In cui le organizzazioni dovrebbero cogliere il potenziale di innovazione e creatività che i nuovi modi di lavorare possono implicare, incoraggiando una cultura aziendale aperta, flessibile, agile, incline alla collaborazione, in totale sintonia con il digitale e pronta a scoprire nuove strade.

Oggi approfondiamo il tema con il contributo di: Carlo Galimberti, decano del Centro Studi e ricerche di Psicologia della comunicazione (CSRPC) e membro del Laboratorio di Interazione Comunicativa e Nuove Tecnologie (LICENT) presso l’Università Cattolica di Milano; Marcello Galli, Direttore sviluppo risorse umane presso Gruppo Mediaset; Marco Ornito, Group Human Resources and Organization Director presso SIA S.p.A.; Marcello Svaldi, Amministratore delegato presso Gioel S.p.A. Chiedo dunque ai miei ospiti: come valorizzare l’esperienza della crisi e non perdere l’opportunità di una rinascita consapevole? Come costruire una cultura organizzativa che davvero abbracci il cambiamento?

Carlo Galimberti

Carlo Galimberti

Per rispondere in maniera puntuale ed esaustiva a questo interrogativo, è necessario formulare una riflessione preliminare riguardo a che cosa si intende per cultura organizzativa, rispetto alla situazione che si è venuta a creare a seguito della pandemia.

Ragioniamo sull’etimologia del termine cultura: il termine deriva da colĕre – abitare, coltivare, adornare. Per i latini fare cultura significava diffondere il proprio modo di abitare lo spazio, ma anche adornare un corpo; ed organizzare significa ornare il corpo dell’organizzazione, esercitare una facoltà ‘estetica’ applicandola a quella tipologia particolare di corpo sociale che è appunto l’organizzazione.

C’è un ulteriore significato attribuibile al concetto di cultura: per i latini significava lavorare assiduamente, con cura: cura che rimanda alla grande innovazione ampiamente presente nel testo di Rosario Sica Dall’employee experience all’employee caring: il caring, appunto. Nel complesso sono tutti termini che fanno riferimento a due nuclei di significato fondamentale: occuparsi di qualcosa/qualcuno – trasformare con fatica: rendere umano (culturale, appunto) ciò che appartiene alla sfera della natura.

È ormai nota e condivisa l’idea che, quando si parla di cultura organizzativa, si intende non tanto qualcosa di formale o un elenco di pratiche e comportamenti non modificabili, ma si fa riferimento all’insieme dei processi organizzativi e delle pratiche professionali. Durante la pandemia i processi organizzativi sono stati oggetto di interrogazioni e ripensamenti, ma non sono certo che questo si possa affermare anche per le pratiche professionali; queste, più che ripensate, sono state preda di un trasferimento da un contesto all’altro, da quanto avveniva sino ad allora ‘in presenza’ per replicarle ‘a distanza’, purtroppo senza dare spazio ad una riflessione organica su quanto tale trasferimento avrebbe potuto comportare.

Oltre ai processi organizzativi, le pratiche professionali e il linguaggio, è doveroso soffermarsi a riflettere su due ulteriori elementi che definiscono la cultura organizzativa: le norme scritte e le convenzioni informali. Le contingenze che la crisi pandemica ha posto in essere hanno fatto emergere due aspetti: in primo luogo la necessità di effettuare un ripensamento e rimodellamento delle norme scritte sulla base delle indicazioni istituzionali che si sono succedute nel corso dei mesi che stanno alle nostre spalle, delle loro declinazioni e a seconda dei diversi settori di attività; in secondo luogo, la scomparsa delle convenzioni informali, insieme di pratiche che di punto in bianco si sono dileguate perché non c’erano più i luoghi in cui applicarle. Anche chi è rimasto a lavorare sul “campo” ha dovuto rimodellare il suo approccio e l’applicazione delle pratiche informali per seguire nuove norme imposte dalla pandemia, si pensi banalmente al turno per il bagno o per la macchinetta del caffè.

In sintesi, parlare di una cultura organizzativa che abbracci davvero il cambiamento, significa essere totalmente immersi nell’organizzazione e tenere in considerazione l’intera trama di rapporti che la costituiscono. Non c’è cambiamento e non c’è empowerment se prima non si passa dalla dimensione organizzativa; in altri termini, non basta la buona volontà, ma è necessario un cambio totale del mindset, nel senso dei modi di pensare e del modo di percepire il rischio connesso alla situazione corrente. Le realtà osservate durante l’anno appena trascorso hanno evidenziato due aspetti: il primo è che chi non era digitalmente e soprattutto mentalmente pronto all’adoption del lavoro digitale, si è misurato con la difficoltà e l’ansia di gestione degli eventi esterni e si è trovato in una situazione in cui la gestione della complessità si è tramutata in gestione del caos. Chi invece si stava già approcciando ad un cambio totale del mindset ha sofferto in misura minore gli effetti della crisi pandemica e della necessaria transizione al lavoro digitale.

Vedere il futuro attraverso le lenti della trasformazione, questa è la sfida che emerge dalla pandemia. Citando Rosario Sica, nulla sarà come prima, ma non possiamo nemmeno immaginarci un futuro totalmente sconnesso dal passato che fu. Dobbiamo cambiare forma, ma tenendo comunque in considerazione la forma che l’ha preceduta. Entrambi i nuclei di significato cui ho fatto riferimento in precedenza si caratterizzano per un riferimento molto forte al fare e all’agire sistematicamente, con continuità; questo è un punto su cui dovremo abituarci a riflettere poiché non so se oggi, alla luce di quanto è accaduto, la continuità e la sistematicità siano strade praticabili con facilità. Ci troviamo di fronte all’incertezza, quest’ultimo anno ce l’ha insegnato, ponendoci di fronte a una situazione in cui la discontinuità e la difficoltà di fare previsioni sono esperienza comune e generalizzata.

Per chiudere, mi sento di dire che osservare il futuro attraverso le lenti della trasformazione dovrebbe diventare una pratica operativa diffusa. L’organizzazione non possiede una cultura, ma è essa stessa una cultura, che si esprime nel modo di interagire manifestato dal tessuto dell’interazione dei suoi membri e si realizza nella quotidianità. L’organizzazione va dunque intesa un insieme organico di processi e: processi organizzativi e pratiche professionali, norme scritte e convenzioni informali, linguaggio, modi di pensare e di percepire il rischio. Osservando l’organizzazione in questi termini, posso concludere dicendo che non ci può essere cultura organizzativa se, nel suo sviluppo, non si tiene in considerazione tutta la trama dei processi di cui essa si costituisce; per costruire una cultura organizzativa che abbracci il cambiamento bisogna incorporare queste nuove dimensioni all’interno dell’organizzazione, adeguandole alle manifestazioni della cultura organizzativa stessa. Solo così si può passare da una logica di emergenza/sopravvivenza a una logica di successo/empowerment.

Marcello Galli

Marcello Galli

Che un anno fa stessimo accingendoci a vivere un cambiamento che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di vivere, lavorare, relazionarci o semplicemente guardare al futuro non era evidentemente noto alla maggior parte di noi. Ma a un anno di distanza la portata di questo evento ancora non sembra aver trovato un vero confine e le persone, come le organizzazioni, non possono che guardare al futuro ancora con l’alea sfocata che accompagna le grandi rivoluzioni.

Consci però che tanto è stato fatto e che, pur nell’incertezza che caratterizza questo momento storico, bisogna tornare a progettare e pensare al tanto agognato new, o meglio “next”, normal. Perché ogni rischio nasconde un’opportunità e ogni crisi anticipa una rinascita. Mediaset a mio parere ha dimostrato grande lucidità nell’affrontare le fasi di questa emergenza. Lucidità necessaria, perché non ci siamo mai realmente fermati, il ruolo di editore ci ha imposto di non diminuire, ma anzi di aumentare, la nostra capacità di informare la popolazione e al contempo di offrire attraverso i programmi di intrattenimento la possibilità di passare momenti più sereni. Lucidità che si è anche tradotta organizzativamente nell’attivare tutte le leve a disposizioni nella duplice prospettiva di gestire tempestivamente l’emergenza e farlo in maniera sostenibile, secondo i valori fondanti del gruppo che pongono le nostre persone al centro.

L’abbiamo fatto nella gestione dello smartworking, accelerando il percorso di adozione sperimentale che progressivamente stava abbracciando le varie aree aziendali, senza snaturare il modello che era stato progettato e che ci stava dando buoni risultati. Non il semplice smartworking emergenziale abilitato dal Governo, ma l’inserimento di altre 1400 persone da marzo 2020 in pochissimi giorni all’interno del modello che avevamo già concepito.

Fondamentali sono state le tecnologie di collaborazione, fino ad allora solo parzialmente sfruttate, che in pochissimo tempo sono diventate lo strumento di lavoro quotidiano ed essenziale. Chat, videoconferenze e call hanno riempito le agende digitali di manager e personale operativo e ci hanno fatto scoprire un modo efficace ed efficiente di lavorare, che presto abbiamo capito sarebbe diventato normalità.

Un’altra leva che abbiamo utilizzato è stata la comunicazione interna, a cui le nostre persone erano meno abituate: dapprima con i messaggi “essenziali”, per gestire la crisi attraverso le disposizioni e le procedure che via via venivano emanate e distribuite via mail ai dipendenti. Col passare delle settimane si sono tramutate in una comunicazione più intensa, partecipativa attraverso il lancio della nuova intranet aziendale nel mese di maggio.

Fig.1 Campagna di lancio per la nuova Intranet Mediaset

Fig.1 Campagna di lancio per la nuova Intranet Mediaset

 

Un modo per informare, testimoniare l’attenzione dell’azienda e la necessità di far sentire le persone coinvolte, al centro, anche raccontando i progetti che l’azienda ha continuato a portare avanti. Dalla comunicazione ad un maggior ingaggio il passo è stato breve, attraverso una survey per “sentire” la voce di manager e collaboratori, rispetto al loro lavorare da remoto, al loro vivere questo cambiamento improvviso, alle loro esigenze di formazione e infine anche alle loro prime idee sull’ipotetico rientro e sul nuovo modo di lavorare.

Anche nella cura della salute e sicurezza delle nostre persone, con il passare delle settimane abbiamo costantemente alzato l’asticella. Dai primi test sierologici per rilevare con i pungi dito la presenza di anticorpi, siamo passati ai tamponi rapidi, effettuati settimanalmente a cura del Gruppo a tutti coloro che accedono alle sedi aziendali, fino ad arrivare al servizio Drive Through, con tampone rapido e molecolare per scongiurare il sospetto contagio in caso di sintomi confondibili con la normale influenza stagionale, passando per le campagne di vaccinazione anti influenzale e anti polmonite all’interno delle sedi aziendali per oltre 1.500 persone che hanno voluto aderire. Un vero e proprio sistema, con al centro i nostri dipendenti che abbiamo accompagnato in tutte le fasi dell’emergenza, anche grazie al ruolo che può giocare la formazione nel rinforzare e sostenere le persone.

Da questo punto di vista cito i contenuti multimediali sul benessere psicofisico messi a disposizione di tutto il personale e un ciclo di webinar pensati proprio per gestire questa transizione, che prima di coinvolgerci in qualità di lavoratori ci riguarda come persone e che deve essere basata sul nostro empowerment, affinché sia efficace e duratura, sostenibile. L’esperienza di questi mesi ci sta insegnando che è possibile immaginare di lavorare senza un luogo di lavoro prestabilito, che è possibile cambiare radicalmente strumenti di lavoro in pochi giorni, che è possibile fronteggiare quanto di più inaspettato possa accadere. In tutti questi casi al centro c’è la persona, e la sua valorizzazione è stata uniformemente identificata dai nostri stakeholder e dai nostri dipendenti e manager come il primo fattore da considerare per la sostenibilità. Ecco perché se penso al nuovo modo di lavorare che dobbiamo costruire penso che il primo attributo che dovrà avere è proprio “sostenibile”.

Marco Ornito

Marco Ornito

Anche io, proprio come Marcello Galli, rispondo alla domanda prendendo in esame il Business di SIA. Un Business che nasce digitale e che per tale ragione ci ha consentito di garantire una business continuity anche all’interno di un contesto di grave urgenza lavorativa e sanitaria.

Posso infatti dire, che lo scorso anno si è concluso con ottimi risultati sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista dei livelli di servizio. Questo rende SIA un contesto a sé stante rispetto ad altre aziende, su cui la pandemia ha avuto un esito più grave. Dettò ciò, ritengo sia importante, rispetto al tema del cambiamento innescato dalla crisi evitare l’effetto di roll-back. Per natura l’uomo tende a ritornare e a scegliere la situazione che meglio conosce e che gli risulta più confortevole; dobbiamo tralasciare, e qui mi aggancio a quanto detto da Carlo Galimberti, il concetto di resilienza legato a questa tendenza umana. Dobbiamo andare oltre alla semplice resilienza e avere la forza di proiettarci verso un futuro migliore e nuovo.

L’esperienza vissuta per via della crisi pandemica, ci ha mostrato come le difficoltà possano diventare opportunità di crescita e di miglioramento, dobbiamo dunque fare tesoro dell’esperienza che abbiamo accumulato durante quest’anno, sia essa legata agli strumenti impiegati, ai comportamenti adottati o legata ai successi raggiunti. Il primo tra i successi raggiunti è certamente la possibilità di vivere il tempo lavorativo e il tempo personale in modo differente: quello che era il Worklife balance, da sempre percepito come una sorta di equilibrio teorico e accademico, ha trovato una sua nuova realizzazione in una modalità estremamente personale: c’è chi ha dilatato i tempi lavorativi e chi invece si è imposto delle regole più stringenti per rispettare gli orari lavorativi.

Questa modalità di lavoro ci ha consentito di passare più tempo con la famiglia e di dedicarci ad attività per le quali prima non si avrebbe mai avuto tempo. Il lavoro da remoto impostoci dalla pandemia ci ha dato, in qualche modo, la possibilità di vivere la vita professionale e personale in maniera più ampia e variegata. Oltre ad evitare l’effetto di roll back, ritengo sia fondamentale capitalizzare questo cambiamento attraverso l’adozione di una visione olistica. Non possiamo di certo credere di poter adattare il new way of working alle vecchie modalità di lavoro, alle vecchie strategie di leadership o ai vecchi uffici. Tutto ciò che scaturisce dal cambiamento messo in atto dalla crisi, deve essere osservato nel suo complesso.

Dal punto di vista HR, noi siamo abituati a guardare la gestione delle risorse umane a compartimenti stagni: onboarding, tematiche di sviluppo e formazione, benefit. Ora come ora questa visione non è più applicabile, bisogna adottare una visione olistica e una logica diversa, una logica che ponga al centro il concetto di people care. Dobbiamo prendere in esame la gestione delle persone all’interno dell’impresa in maniera integrata, mettendo al centro le loro esigenze, i loro bisogni e garantire il loro benessere e risultato in azienda. Il cambiamento deve essere affrontato integrando le competenze e gli elementi già disponibili il cui utilizzo è stato accelerato dalla pandemia. Dobbiamo essere in grado di rendere evidente che questo è un cambiamento che varia il paradigma di gestione delle persone in azienda: i meccanismi del comando-controllo-reporting ormai sono desueti e lasciano il posto a sistemi di delega, empowerment e di utilizzo degli strumenti che avevamo già, ma che abbiamo imparato ad usare grazie all’accelerazione provocata dalla pandemia. Il cambiamento è sicuramente andare avanti in un’ottica people caring, non si torna indietro.

Marcello Svaldi

Marcello Svaldi

Immaginiamo, come suggeriva Marco in apertura, di venire a conoscenza che esattamente tra 12 mesi inizierà una nuova pandemia, che arriverà un nuovo virus sconosciuto e che dovremo trascorrere un altro periodo indefinito pieno di incertezza e di tutto quello che sappiamo essere incluso nel pacchetto. Cosa faremmo per organizzare la nostra azienda in modo da superare nel modo migliore possibile questo nuovo tsunami? Credo che porsi questa domanda in un’ottica quindi di “preparazione” e non di analisi retrospettiva aiuti ad inquadrare la cosa nel modo giusto. Sarebbe utile e inevitabile domandarsi: come possiamo migliorare la nostra organizzazione interna per poter lavorare senza sosta in qualsiasi condizione? Come possiamo dotarci di strumenti di comunicazione, di contatto con la clientela, di evasione delle normali procedure pur in condizioni limitate di spostamento o di compresenza? Come possiamo rendere l’esperienza dei clienti il più possibile viva ed intensa, in modalità diverse da quelle percorse fino ad oggi? Come posso mantenere alto il livello di coinvolgimento e di creatività dei team interni anche in condizioni di smart working?

Queste sono alcune importanti domande che credo nascerebbero spontanee nel momento in cui avessimo a disposizione un certo quantitativo di tempo per prepararci ad uno scenario incerto e difficile. Se, pertanto, queste fossero le prospettive, credo che ogni imprenditore dovrebbe preparare un piano di azione chiaro, preciso, innovativo, creativo per essere pronto di fronte a qualsiasi sfida, che accada o che non accada mai. Anche perché affrontando l’innovazione con questo stimolo potremmo essere portati a spingere la nostra creatività ad un livello che altrimenti difficilmente potremmo raggiungere. All’interno degli scenari che si verranno a delineare sarà importante dare un livello di priorità a seconda della fattibilità delle idee, del loro rapporto costi/benefici, ma soprattutto del valore aggiunto che le scelte fatte possano dare al proprio modello di business, a prescindere dal verificarsi o meno degli scenari previsti.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

La condizione necessaria affinché le organizzazioni adottino una logica di successo ed empowerment è dunque la visione del futuro attraverso le lenti della trasformazione. Di fronte a uno scenario imprevisto e tutt’ora incerto, le aziende devono abbandonare i vecchi paradigmi e rispondere alle circostanze mediante un approccio olistico. Un piano di che si basi su una conoscenza approfondita della cultura organizzativa è fondamentale per l’adozione uniforme e condivisa di un modello di azione nuovo ed efficace. Ma non basta: occorre anche investire nel cosiddetto “capability building”: “lo sviluppo delle capacità è il processo mediante il quale individui e organizzazioni ottengono, migliorano e conservano le capacità, le conoscenze, gli strumenti, le attrezzature e altre risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro con competenza”.

Non si tratta di una novità: il termine già negli anni ’50 indicava una serie di iniziative in cui la partecipazione attiva dei membri delle comunità locali allo sviluppo sociale ed economico era incoraggiata attraverso piani nazionali e subnazionali. Più recentemente l’Obiettivo di sviluppo sostenibile individuato dall’ONU consiste in un maggiore sostegno internazionale per il rafforzamento delle capacità nei paesi in via di sviluppo necessari per attuare i piani nazionali stabiliti dall’Agenda 2030. Ma, venendo a noi, in concreto, quali sono le competenze richieste alle persone per affrontare un futuro incerto?

Carlo Galimberti

Carlo Galimberti

Risponderei a questo interrogativo partendo da una considerazione generale. I processi organizzativi e le pratiche professionali sono parte essenziale di un processo evolutivo che va dal capability building all’organizational capability building. Quel che accade in termini di evoluzione e cambiamento del mindset non può essere infatti solo un comportamento del singolo, ma, affinché sia funzionale, deve necessariamente coinvolgere un insieme di comportamenti richiesti alle aziende considerate come sistemi.

Recentemente ho avuto modo di curare due progetti di change management, uno perfettamente funzionale e dunque andato a buon fine, l’altro dagli esiti fallimentari: il fallimento da cosa è derivato? È conseguito all’incapacità dell’organizzazione di gestire l’evento nella sua complessità. Questi due poli sono esempi di quanto può accadere oggi nelle organizzazioni, a testimonianza che il mindset change non può essere solo un comportamento richiesto al singolo, ma un insieme di comportamenti richiesti alle aziende nel loro complesso.

Da queste due esperienze di gestione credo siano tre i punti da tenere presenti. In primo luogo, al di là delle competenze specifiche, diventano sempre più importanti le soft skills. Oggi lo sviluppo e l’incoraggiamento delle soft skills è fondamentale e significa specialmente essere in grado lavorare in team, non solo in una prospettiva di multidisciplinarità, ma di trans e meta-disciplinarità. Le soft skills sono le basi fondamentali per garantire la costruzione delle capabilities. Il secondo punto si configura come formazione continua che deve essere coltivata e sviluppata, non solo in occasione dei momenti di crisi, ma con ‘lungimirante costanza’.

Tutto questo deve trovare spazio di esistenza e realizzazione all’interno di un disegno organizzativo preciso, costantemente attento alle dinamiche del sistema aziendale: tale disegno deve evitare di concentrarsi sull’intera organizzazione, ma mettere a fuoco piccole parti di essa per procedere poi per approssimazioni successive a toccare l’intero sistema. Negli ultimi 10-15 anni sì sono affermate le cosiddette Academy: sviluppate all’interno delle grandi aziende sono delle palestre per “legare” al funzionamento organizzativo questi processi formativi-trasformativi.

Questi dunque i punti di attenzione ed intervento per le organizzazioni: soft skills con particolare riferimento al lavoro in team, formazione continua, contestualizzazione e costante dinamismo nella progettazione dell’organizzazione. Dopo un anno di lavoro da remoto, sarà complesso rientrare al lavoro senza una riprogettazione dei processi organizzativi. Certo la fedeltà a un approccio di questo tipo potrà avere un costo elevato, anche in termini di cessione del potere, e in un futuro prossimo i manager potrebbero avere sempre più potere di fronte ai CEO.

Marcello Galli

Marcello Galli

Mi trovo perfettamente d’accordo con quanto detto da Carlo Galimberti: la costruzione e implementazione delle skills si pone alla base di ogni buon sistema organizzativo. Sempre più di questi tempi ci interroghiamo su quali siano le competenze da possedere per affrontare il new normal e come costruirle, trasferirle o svilupparle. Sicuramente quelle digitali, su cui noi di Mediaset abbiamo investito costruendo un percorso, un Digital Journey, che ha poggiato su una survey a cui hanno potuto liberamente partecipare tutti i dipendenti (ha risposto oltre il 50% della popolazione aziendale) e grazie alla quale le nostre persone hanno potuto scoprire, attraverso un breve test, il loro posizionamento rispetto alle competenze e al mindset.

Fig.2 Il Digital Journey del Gruppo Mediaset

Fig.2 Il Digital Journey del Gruppo Mediaset

In questo modo abbiamo trovato i nostri digital Ambassador, distribuiti anche nelle aree aziendali meno tecnologiche e appartenenti ad ogni fascia anagrafica e di inquadramento. Un modo per sapere di poter contare su una organizzazione capace di esprimere talento digitale ovunque e di poterlo diffondere nel quotidiano in maniera costante, grazie alla relazione quotidiana fra i colleghi. Abbiamo però voluto supportare tutti con formazione specifica, in parte sugli strumenti di lavoro e in parte su aspetti che ci toccano o possono toccare più nella vita quotidiana. E abbiamo arricchito questo percorso con lezioni universitarie più mirate sui temi della digital transformation.

In un contesto in cui l’attenzione è sempre più frammentata e il tempo a disposizione è limitato, abbiamo puntato sull’on-demand e sulla non obbligatorietà, sfruttando la intranet per accompagnare le persone nelle tappe del viaggio e ricordarle strada facendo. Se le competenze digitali sono quelle necessarie, igieniche, per il disegno del modo di lavorare sostenibile del futuro, credo, come sostenutoda Carlo Galimberti, la differenza continueranno a farla le soft skill, in particolare fra i leader delle organizzazioni.

Se devo indicare le principali dico: comunicazione (efficace e coinvolgente), organizzazione del lavoro (intesa come capacità di pianificare, delegare e assegnare obiettivi) e gestione di persone (in termini di motivazione e sviluppo). Con la distanza quale principale driver di discontinuità, avere capi che sanno trasferire le informazioni, mantenendo alto il coinvolgimento dei collaboratori, sanno orientare (e non dettare) la loro attività grazie a obiettivi e responsabilità chiari e sanno valorizzarli offrendo loro opportunità, significa coniugare produttività di breve e costruire valore nel lungo periodo, grazie a persone soddisfatte, motivate e ingaggiate.

Ma le competenze da sole non bastano. C’è un altro asset da considerare, quello dei valori che, dichiarati o meno, caratterizzano le organizzazioni, in particolare quelle di grandi dimensioni e più mature. Ne cito due. L’attenzione e la cura dei dipendenti, manifestata dal Gruppo anche attraverso tutte le iniziative a tutela della loro sicurezza e salute, che si traduce in riconoscenza ed ingaggio, a prescindere, difficili da scalfire e testimoniata dal bassissimo turnover in uscita. E l’orientamento al risultato, tipico della metafora dello spettacolo per cui l’andare in onda per la diretta presuppone la capacità di superare ogni difficoltà e di unire le forze al di là della responsabilità individuale.

Non è un caso che Mediaset abbia potuto affrontare l’emergenza con tanta efficacia, senza patire la diminuzione del coinvolgimento delle sue persone, grazie ad un senso di appartenenza che si tramanda anche ed ancora alle generazioni più giovani. Se competenze e valori sono i pilastri preziosi su cui contare, altrettanto importanti sono infine i comportamenti che possono contribuire a diffonderli e testimoniarli. Ecco allora che per il futuro stiamo pensando di affiancare alla formazione teorica anche modalità attraverso le quali suggerire e favorire l’adozione di nuove e buone prassi, pensate coerentemente con l’evoluzione del modo di lavorare e che possano trovare terreno fertile nel naturale ambiente sociale che caratterizza la nostra azienda per favorire verticalmente e orizzontalmente questa contaminazione.

Marco Ornito

Marco Ornito

Come hanno ben detto Marcello Galli e Carlo Galimberti, nessun cambiamento può essere efficace e funzionale se non parte dal centro dell’organizzazione: noi stessi abbiamo partecipato a questo processo di individuazione e potenziamento delle skills.

Noi di SIA non abbiamo solo chiesto alle nostre persone di introdurre o di sviluppare nuove competenze, le abbiamo aiutate e guidate. In primo luogo, abbiamo cercato di rafforzare la nostra collaborazione, la nostra sinergia secondo il modello olistico citato in precedenza. Gli aspetti e strumenti fondamentali sono stati due: la formazione e la comunicazione.

Per quanto concerne il piano comunicativo, abbiamo inventato e lanciato la Radio di SIA, uno strumento che durante il primo lockdown ci ha consentito di tenere insieme le nostre persone e di attenuare il senso di smarrimento percepito. Questo canale era dedicato a momenti di svago, con musica e aneddoti, ma non solo: abbiamo creato un palinsesto in cui i manager informavano i colleghi di quello che stava avvenendo in azienda; abbiamo dato vita a una rubrica che dava spazio alle competenze nascoste dei nostri colleghi, scoprendo così formidabili fotografi, cuochi, sportivi e persino educatori su tematiche web, i quali si sono messi a disposizione per formare su tali tematiche i colleghi e i loro figli; abbiamo inserito delle rubriche di business -“L’esperto risponde”.

Insomma, abbiamo definito un palinsesto dalla programmazione settimanale che consentiva alle persone di informarsi e formarsi. Siccome abbiamo a cuore le opinioni, le impressioni e i suggerimenti di tutta la nostra popolazione aziendale, abbiamo sviluppato diverse survey istantanee, la più recente delle quali è estesa a livello di gruppo e di singoli paesi. Per quanto riguarda invece le attività svolte a livello di piano formativo, abbiamo capito l’importanza di questa dimensione e dello sharing delle competenze.

Abbiamo dovuto insegnare alle persone come utilizzare gli strumenti digitali, ma non solo: abbiamo dovuto spiegare ai colleghi come comportarsi nel nuovo contesto digitalizzato – una sorta di galateo delle call – sottolineando l’importanza di mostrarsi in video, definendo momenti all’interno del meeting in cui favorire la convergenza, studiando modalità digitali per ricreare la pausa caffè. Sono cose che abbiamo dovuto dire, raccontare e insegnare ai colleghi, non venivano spontanee e non tutti le facevano nello stesso modo. Il tema della formazione vissuta secondo i canali digitali, non tradizionali e attraverso webinar è stata fondamentale per aprire al cambiamento.

Ad oggi sono convinto che il vero cambiamento non sia quello affrontato in questi mesi di crisi, ma quello che i colleghi dovranno affrontare al loro rientro in azienda: la sfida sarà tornare in azienda secondo i nuovi canoni, canoni che ci faranno vivere in maniera differente. Per affrontare l’incertezza del futuro sono state richieste delle nuove competenze alle persone, anche ai leader aziendali: il meccanismo stesso dell’esercizio della leadership è cambiato. Se la leadership tradizionale era basata sulla prossimità fisica, sulla possibilità di presenziare alle riunioni e influenzare gli interlocutori nei meeting, ora questo non è più possibile. Se pensiamo agli strumenti di comunicazione digitale, infatti, alcune dinamiche non sono riproducibili: se un interlocutore dovesse soverchiare gli altri in un meeting su Teams, quello che era normale in riunioni vis-a-vis, sui canali digitali stonerebbe e si trasformerebbe in un monologo poco efficace.

Ci sono 2 o 3 attributi della leadership che sono cambiati o cresciuti: il leader efficace oggi è quello che ascolta. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di rotta, i leader che hanno superato meglio il periodo sono stati quelli capaci di ascoltare profondamente le loro persone, portando a fattore comune i bisogni per trovare una soluzione. Trovare soluzioni, mettersi al servizio, sono i tratti che rappresentano il servant leader descritto nel libro di Rosario Sica, i tratti fondamentali dei nuovi leader: il vero leader (del cambiamento) si mette a servizio del suo team e non viceversa, il vero leader aiuta e ascolta il proprio team.

Marcello Svaldi

Marcello Svaldi

Anche noi, nel nostro gruppo, abbiamo intrapreso un percorso che ci ha dato un supporto importante per essere reattivi e quindi per cogliere le opportunità che un momento così complesso ha generato. Per realizzare tutto questo credo che sia fondamentale creare quella “cultura aziendale” pronta per il cambiamento.

Per prima cosa abbiamo cercato di capire insieme chi siamo, dove vogliamo andare, come e con che obiettivo primario. Ne è uscito un confronto aperto tra tutto lo staff, che ha portato a una visione condivisa molto suggestiva, all’identificazione di valori nei quali ci si è identificati; dai gruppi di lavoro abbiamo colto alcuni temi chiave come: formazione, appartenenza, realizzazione della nostra mission.

Non solo, abbiamo anche indagato come creare dei rituali che aumentino il senso di appartenenza al nostro team, come rendere l’esperienza del cliente indimenticabile, come cominciare a disegnare i prodotti del futuro e come immaginare l’azienda del futuro. Attorno a questi temi impegnativi i collaboratori si sono sentiti fortemente coinvolti ed impegnati ed hanno davvero fatto un lavoro di creazione di grande valore. Le opinioni dei nostri interlocutori convergono: per affrontare nel migliore dei modi un futuro incerto, le organizzazioni devono investire sulla formazione e potenziare le competenze delle proprie persone, le soft skills e le competenze digitali si sono dimostrate il punto di partenza di questo processo di potenziamento e crescita. Il processo di change mindset è complesso e non può limitarsi a coinvolgere il singolo: il ruolo della leadership deve cambiare e solo in questo modo l’intero mindset aziendale subirà un’evoluzione.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

È fondamentale, quindi, che i leader e i manager lavorino consapevolmente per sviluppare e sostenere una mentalità di crescita nei propri dipendenti, in sé stessi e nelle proprie organizzazioni. Questo è un compito che richiede una visione di insieme e una cultura condivisa all’interno di tutta l’azienda. E quindi l’innesco di radicali processi di innovazione.

Tuttavia, la crisi sembra aver temporaneamente offuscato proprio il discorso sull’innovazione a favore di un focus su un altro concetto: “resilienza”.

È possibile allora pensare a un’innovazione resiliente?

Carlo Galimberti

Carlo Galimberti

Anche in questo caso mi trovo a dover fare riferimento ai discorsi precedentemente sviluppati: per incidere, l’innovazione non può essere solo tecnologica, ma deve avere una natura organizzativo-gestionale. Poco fa ho sottolineato come al momento dello scoppio della crisi le realtà osservabili siano state due: da una parte le aziende preparate e in grado di rispondere in maniera ottimale alla gestione della crisi e delle complessità che ne derivano; dall’altra quelle impreparate, costrette a passare dalla gestione della complessità a quella del caos.

Ora ipotizzo un ulteriore passaggio: quello dalla resilienza all’anti fragilità. La resilienza consente di assorbire uno shock grazie alle risorse di cui si disponeva prima dello shock subito; l’anti-fragilità invece non implica il ritorno allo status quo, ma comporta un miglioramento rispetto alla fase precedente. Per dare corso a un tale processo, la capacità di apprendere dall’esperienza, per dirla con Bion, assume un ruolo centrale. Per riprendere il concetto di anti-fragilità farò un esempio. Come è noto, ci sono realtà organizzative che traggono vantaggio dalle situazioni di difficoltà. La crisi del ’29, ad esempio, ha procurato il declino di molte attività, ma ha consentito ad altre di emergere con ancora più veemenza; lo stesso discorso può essere applicato alla crisi del 2008 a quella attuale.

Anti-fragile è chi migliora e si migliora a seguito di una situazione di caos, mentre ciò che è resiliente subisce uno shock ritornando ad essere identico a sé stesso. Il concetto di anti-fragilità ci consente dunque un superamento del concetto di resilienza. In estrema sintesi, potremmo dire che l’anti fragile ama il caos, il caso e l’incertezza, così come non ha paura dell’errore, essendo nato sotto il segno della domanda, dell’interrogazione continua, via stretta, ama inevitabile da percorrere per chi desidera non solo sopravvivere, ma anche crescere, svilupparsi, trasformarsi.

Marcello Galli

Marcello Galli

Mi sono trovato frequentemente a discutere con i colleghi del tema dell’innovazione durante l’emergenza, registrando spesso la preoccupazione o la constatazione che durante questa fase essa sia stata e sia tutt’ora particolarmente limitata. Essendo profondamente convinto che i più grandi cambiamenti siano nati da discontinuità, rottura o addirittura negazione, trovo in realtà che questa crisi possa offrire piccole e grandi opportunità di innovazione.

Di fronte alla impossibilità di fare qualcosa come la si è sempre fatta si tratta di decidere se non farla o se farla in modo nuovo. Se vogliamo comunque raggiungere i risultati attesi, non possiamo che far ricorso alle nostre migliori risorse creative. Ecco perché penso che da questa crisi dovremmo capitalizzare anche la nostra capacità di trovare nuove soluzioni, siano esse di processo, di comportamento, di gestione delle risorse o addirittura di business.

Ciò detto, non possiamo negare che esiste effettivamente un ostacolo all’innovazione con cui si sta misurando ogni team e ogni organizzazione: quello della distanza fisica. Il nuovo ambiente digitale, seppur in un contesto di iperconnessione e percezione di essere Always on, ci ha portato ad essere molto più focalizzati sui task e sul raggiungimento degli obiettivi trascurando le relazioni. Ed è dalla relazione, dal confronto, dallo scambio, dalla discussione che nascono le idee, si modificano, si confutano o si supportano tesi, si lanciano progetti e nuove iniziative.

A maggior ragione in un’azienda come la nostra, in cui il valore di questa socialità e di una rete che spesso va oltre ai legami gerarchici e organizzativi da sempre ha rappresentato un elemento distintivo, questo problema è ancora maggiore. Quali strade per superare questo ostacolo nello scenario di un lavoro che sarà sempre più ibrido dal punto di vista del luogo da cui effettuare la prestazione? Una modalità potrà essere quella di rendere le occasioni di discussione e challenge da informali ed episodiche a formali e strutturate, attraverso momenti dedicati o iniziative quali vere e proprie call for ideas.

Un altro modo, che avrebbe anche il vantaggio di compensare la mancanza di relazione, potrebbe invece essere quello di pensare a come creare occasioni di incontro fisico in azienda o specifici momenti in outdoor in cui favorire questi scambi. Senza dimenticare gli esempi delle aziende che già prima della pandemia avevano iniziato ad offrire ai loro dipartimenti più innovativi o di ricerca e sviluppo la possibilità di lavorare da spazi di coworking esterni all’azienda, in cui la commistione di competenze ed esperienze genera le migliori occasioni di innovazione. Superata la prima fase dell’emergenza è stato da subito chiaro come le nostre forze e la nostra strategia dovessero traguardare il futuro, capitalizzando al massimo l’esperienza vissuta per costruire qualcosa di moderno e coerente, qualcosa di innovativo anche dal punto di vista dell’esperienza da offrire ai nostri dipendenti e da prospettare ai talenti che sapremo attrarre.

È ancora una volta una questione di sostenibilità, quella che ci spinge ad imparare dall’esperienza, a mettere in discussione le vecchie certezze per progettare il futuro modo di lavorare, ispirato da nuove competenze e comportamenti ma basato sugli stessi valori di sempre. Il benessere e la cura della persona quale principale fattore di successo nel medio lungo termine.

Marco Ornito

Marco Ornito

Io non credo che l’innovazione si sia arenata in questi mesi: come dice Marcello Galli, questa situazione ci ha consentito di tirar fuori le nostre migliori risorse creative. Lo scambio di opinioni, di idee ed esperienze creano valore e con lo smartworking noi non abbiamo impedito alle persone di confrontarsi, di chiamarsi e scambiarsi informazioni/dati/insights, abbiamo solo fornito loro degli strumenti diversi per poterlo fare. Nei mesi scorsi, insieme alla nostra sezione di Innovation, abbiamo avviato una call for concept a livello aziendale, sollecitando la partecipazione dei colleghi del gruppo: il 40% dei concept inviati proponevano un progetto di innovazione di lungo periodo.

È evidente, dunque, come l’innovazione non si sia né arenata, né limitata a visioni di breve periodo. Ad ulteriore dimostrazione della loro validità, questi concept verranno inseriti in progetti diversi e porteranno con sé grande valore per l’azienda. Sicuramente l’innovazione in un’azienda può essere ipotizzata solo nel momento in cui sussistono alcune condizioni di base: garanzia di sopravvivenza del business e capacità delle persone di rispondere positivamente a prescindere dalle condizioni; bisogna tenere conto anche delle possibilità economiche delle aziende, non tutte possono investire in innovazione.

Tuttavia, a prescindere dalle disponibilità finanziarie, è importante considerare l’importanza che oggi riveste l’innovazione. Innovare infatti significa motivare, mettere a proprio agio le persone, stimolare la loro creatività e di conseguenza generare valore per la propria azienda. Il new way of working è un’opportunità eccezionale per rendere più efficiente il lavoro: metri quadri in meno, costi inferiori; questa efficienza dovrà trovare spazio e un riconoscimento economico. Al rientro sarà fondamentale fare in modo che le persone non facciano roll-back e incentivarle affinché i loro risultati siano migliori di quelli raggiunti da remoto: la concentrazione e l’efficienza che si hanno non lavorando in ufficio molto spesso sono infatti più alte.

Al ritorno in ufficio i colleghi non troveranno più le postazioni così come le avevano lasciate, il 50% del lavoro sarà da remoto, le trasferte si faranno al 90% in meno, quindi il cambiamento sarò evidente, ma rimarrà comunque il rischio di tornare a fare come prima. È un rischio non marginale e sarà proprio l’obiettivo degli HR tenere quel che di buon abbiamo ottenuto e farlo diventare parte del codice genetico dell’azienda. Molti dei comportamenti pre-pandemici sono il risultato di anni e anni di vita vissuta in ufficio, di un approccio tayloristico; ora dobbiamo cambiare il nostro DNA e per farlo dobbiamo mettere in campo tutto quello che abbiamo a disposizione: comunicazione, formazione e incentivi saranno elementi utili. Secondo me dunque il vero cambiamento sarà mantenere quel che abbiamo imparato.

Marcello Svaldi

Marcello Svaldi

Credo che per un imprenditore perseguire un cammino di innovazione radicale rappresenti una sfida molto complessa, ma anche molto entusiasmante. Personalmente mi sono reso conto di due errori che ho compiuto per tanto tempo e che non mi hanno aiutato a creare una cultura organizzativa aperta: considerare me stesso (l’imprenditore) come la “persona delle risposte”; decidere io di che cosa abbiano bisogno i miei collaboratori, anche in chiave di formazione. Oggi questi due aspetti sono stati capovolti: io pongo le domande, fiducioso che il team trovi le risposte; è il team che decide quali percorsi formativi siano necessari per crescere.

Oltre a questo, ho maturato una forte convinzione. Il 2020 ci ha indotti ad un’accelerazione prepotente verso la digitalizzazione, sia interna che verso l’esterno. Quelle che prima erano idee più o meno testate oggi sono modalità consolidate di lavoro. Direi che il Covid ci ha fatto fare in pochi mesi quello che pensavamo di fare in qualche anno. La convinzione è che oggi nessuna azienda possa fare a meno di un addetto alla digitalizzazione e che tutto vada ripensato secondo un modello non tanto multicanale quanto “integrato”. L’esperienza del cliente va immaginata e costruita in modo che possa iniziare, continuare e terminare in modalità fisica o digitale senza soluzione di continuità o senza paletti insormontabili. È una sfida difficile ma pressoché inevitabile. In questo contesto le competenze dei collaboratori vanno più ricercate nelle soft skills che nelle hard. Flessibilità, curiosità, capacità di apprendimento, lavoro in team, empatia danno un valore aggiunto preziosissimo per saper cogliere le opportunità che un mondo in evoluzione rapidissima sta offrendo.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

In sintesi: metadisciplinarità e co-generazione di saperi sono i pilastri del nuovo modello di innovazione post Covid-19. L’innovazione è un processo attivo che predispone il cambiamento a partire dalla creatività, ma in un quadro di crescente complessità e incertezza le aziende devono ampliare i loro orizzonti di possibilità e attrezzarsi per essere più competitive. Covid-19 ha generato intense fasi di shock e stravolgimento: la migliore risposta per le aziende è abbandonare il vecchio status quo e lavorare al fine di superare al meglio questo shock; ovvero, implementare le loro funzioni e produttività integrando e sfruttando le nuove capacità di reazione, apprendimento e produttività.

Immagine in copertina di Valeria Esposti.

Coordinamento editoriale a cura di Chiara Cravedi.