10 insights che ogni AD deve conoscere sull’engagement dei collaboratori, più 1

Le aziende si trovano oggi davanti ad uno strano paradosso. Da una parte sanno bene di trovarsi in un momento di profonda trasformazione legata ai processi di cambiamento digitale in atto che porteranno presto non solo all’automatizzazione di molti processi, ma anche all’uso sempre più estensivo di chatbox e Intelligenza Artificiale. In effetti, si stima che nei prossimi anni il 75% delle applicazioni  usate dalle organizzazioni incorporerà una qualche forma di AI. D’altro canto, il fattore umano è sempre più rilevante. I dati già oggi mostrano un forte e crescente interesse verso l’engagement dei propri collaboratori. Avere collaboratori engaged è cruciale per il vantaggio competitivo: aumenta la redditività e il valore di mercato, la soddisfazione dei clienti, la forza dei brand e la company advocacy, stimola l’innovazione, migliora relazioni con gli stakeholder e facilita la prevenzione e la gestione delle crisi. Diverse ricerche (tra le altre per esempio: 2018 Trends in Global Employee Engagement, AON Hewitt) indicano però che il livello medio dell’employee engagement è insoddisfacente. Tanto più è importante, tanto più pare difficile coltivare l’engagement dei collaboratori e dilaga il disengagement.

Per queste ragioni l’Osservatorio Employee Relations and Communication dell’Università IULM ha svolto una ricerca fra il 2016 e il 2018 al fine di comprendere quali sono le fonti di engagement e soprattutto quelle del disengagement. La ricerca è consistita in una survey su 173 manager responsabili dell’employee engagement in grandi aziende, una survey su un campione di 147 collaboratori, 13 studi di caso e 10 interviste con esperti di people engagement. È la prima ricerca empirica a carattere scientifico in Italia sullo stato dell’engagemeng e del disengagement in Italia. Da questo ampio panorama empirico emergono 10 insights preziosi sull’employee engagement che ogni AD deve conoscere, più uno finale rivolto al futuro. Ne parliamo con la curatrice della ricerca, raccolta nel volume “Engagement e disengagement dei collaboratori”, Franco Angeli, 2018, Alessandra Mazzei.

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1. L’employee engagement è un comportamento

M.M.: Cosa significa davvero avere dei collaboratori engaged? In un post di qualche anno fa ricordavo come la trasformazione digitale delle aziende passa anche attraverso l’evoluzione delle tradizionali famiglie professionali in learning community. Il che significa molte cose, fra cui: il ripensamento del modello organizzativo gerarchico e autoreferenziale a favore di un sistema reticolare di community aperte e interconnesse, l’individuazione di tipologie di community (e dei relativi social media) coerenti con mission, vision e obiettivi aziendali, la messa a punto di value proposition e criteri di misurazione della performance ad hoc, e via dicendo. Tutto ciò però rischia di arenarsi su una questione essenziale: le community funzionano solo se si riesce a generare nei membri di ognuna di esse e nella community aziendale complessiva  (intesa come rete di learning community) un livello sufficiente di “engagement”, termine inglese che in prima battuta potremmo tradurre con “coinvolgimento attivo e appassionato”. Solo in prima battuta, però; perchè in effetti dietro a questa apparentemente semplice paroletta si cela un groviglio di elementi estremamente complessi, di cui è bene avere almeno un livello minimo di consapevolezza. A questo proposito cosa emerge dalla vostra ricerca?

A.M.: Dalla nostra survey sui manager emerge che nelle grandi aziende italiane prevale la visione di engagement come connessione psicologica ed emozionale con la mission e i valori aziendali. Ma questo stato psicologico di attaccamento all’azienda è solo una premessa del vero engagement che è quello che si traduce in comportamenti engaged.

Il collaboratore engaged è quello che agisce in modo strategico e orientato a obiettivi rilevanti per l’organizzazione, sia nello svolgimento del proprio ruolo sia al di là di questo. Per esempio profonde energie per innovare, agisce come brand ambassador, difende la propria azienda da critiche. È questo l’engagement che costruisce il vantaggio competitivo perché si concretizza in azioni a supporto dell’azienda. L’engagement più rilevante è quello comportamentale.

2. L’engagement è alla base della “voce” dei collaboratori

M.M.: Approfondiamo questo aspetto. Il concetto di engagement così inteso è centrato sul legame psicologico ed emozionale con la mission e i valori aziendali che deve generare comportamenti proattivi messi in atto dal collaboratore per realizzare una 
buona performance anche al di là del proprio ruolo. Ciò significa ad esempio che 
assume sempre maggiore rilevanza il ruolo del management e del dialogo 
tra manager e collaboratori.

A.M.: Esatto. I collaboratori engaged tendono a esprimere la propria “voce”, cioè a condividere con il management idee, suggerimenti e opinioni, incluso il dissenso costruttivo, mosso dall’intenzione di migliorare l’organizzazione. Favorire l’engagement equivale dunque a costruire un contesto organizzativo di voce nel quale i collaboratori si sentano liberi di esprimersi, caratterizzato dal dialogo franco, dalla gestione dei conflitti, dal rispetto reciproco, dall’autenticità.

I benefici di un clima di voce sono molteplici. Sia i manager delle grandi aziende italiane sia i collaboratori hanno sottolineato che un clima di voce facilita l’emergere di suggerimenti e nuove idee (media 4,38 su una scala da 1 a 5 per i manager; 4,42 per i collaboratori), la segnalazione di problemi che possono essere corretti per tempo (4,35 per i manager e 4,37 per i collaboratori) e la soddisfazione dei clienti poiché vengono a contatto con collaboratori più attenti ed empatici (4,33). I collaboratori hanno dato anche molta evidenza alle ricadute in termini di decisioni più fondate (4,30): ritengono che se potessero esprimere di più la propria voce l’azienda agirebbe meglio.

La rilevanza della voce per le aziende è dunque evidente e addirittura è centrale per la società allargata, visto che in contesti organizzativi di voce sono più facili la segnalazione e la riprovazione sociale per cattive pratiche, il riconoscimento positivo dei comportamenti altruistici, il contenimento delle discriminazioni e dell’illegalità.

Molto spesso nelle aziende si consolida la convinzione che tacere è preferibile all’esporsi perché i manager sono convinti di conoscere come agire, detestano essere contraddetti e vivono i suggerimenti e le opinioni dei collaboratori come attentati alla loro autorità. E i collaboratori si rifugiano nel silenzio. Questo clima di silenzio ha secondo gli stessi collaboratori interpellati conseguenze molto negative: insoddisfazione (media 4,67) e distacco dal proprio lavoro (4,64), termine utilizzato nell’indagine come sinonimo di disengagement.

3. L’engagement dei collaboratori è il frutto di scelte manageriali

M.M.: Quali sono le condizioni abilitanti lo sviluppo dell’engagement?

A.M.: Diversi fattori favoriscono l’employee engagement: alcuni sono legati alle predisposizioni personali dei singoli collaboratori, altri al macro-contesto in cui opera l’azienda, altri ancora sono nelle mani del management e delle aziende. Si tratta di leve manageriali che vengono adottate e gestite dai manager e configurano il contesto organizzativo specifico di ogni azienda. Il management può in effetti costruire attivamente un contesto lavorativo engaging muovendo tre leve: la gestione delle risorse umane, la giustizia organizzativa e la relazione con i collaboratori.

L’engagement infatti è il frutto di contesti organizzativi caratterizzati da relazioni con i collaboratori inclusive, da un approccio alla gestione delle risorse umane teso a valorizzarle, da equità e trasparenza nei processi di gestione delle persone. La possibilità di creare contesti organizzativi forieri di engagement è quindi nelle mani dei manager e delle aziende. Essi hanno la discrezionalità e la responsabilità di operare scelte manageriali determinanti per l’engagement nel momento in cui definiscono sistemi di comunicazione interna, impostano pratiche manageriali, gestiscono le relazioni con i collaboratori, adottano sistemi per la gestione delle risorse umane, sviluppano policy e processi che garantiscono giustizia organizzativa.

Attraverso la survey sulle grandi aziende italiane, la ricerca IULM ha indagato gli approcci manageriali adottati dalle imprese per favorire (o sfavorire) l’engagement. Solo il 13% delle aziende del campione adotta un approccio alla relazione con i collaboratori di tipo inclusivo, un approccio alla giustizia organizzativa equo e un approccio valorizzante alla gestione delle risorse umane, configurando un contesto organizzativo pienamente engaging. Ben il 43% delle aziende ha relazioni coi collaboratori di tipo gerarchico, giustizia organizzativa non equa e gestione delle risorse umane di tipo amministrativo, creando dei contesti organizzativi che fanno proliferare il disengagement. Il rimanente 44% di aziende ha situazioni miste dove fattori di engagement e di disengagement si mescolano dando luogo a dinamiche imprevedibili sullo stato di effettivo engagement dei collaboratori.

Si tratta di valori che fanno intravedere molto cammino ancora da fare sulla strada verso la costruzione di contesti lavorativi adatti a sostenere il pieno engagement dei collaboratori. Al contrario, l’esistenza di relazioni di tipo gerarchico, la gestione delle risorse umane di tipo amministrativo e la prevalenza di iniquità organizzativa, rischiano di creare nelle aziende italiane un humus pericolosamente fertile per il disengagement.

 

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4. lncoerenza manageriale: principale fattore di disengagement

M.M.: Questo ragionamento ci porta ad un punto essenziale: come cambia la leadership del top management se vuole favorire l’engagement dei collaboratori a tutti i livelli. Si tratta di un tema cruciale anche nel quadro più ampio della trasformazione digitale dell’azienda cui accennavo in apertura. In un contesto di questo genere le gerarchie sono naturali, non prescritte. Nelle Community che costituiscono il fulcro delle nuove organizzazioni basate sulla collaborazione emergente, ci sono alcuni individui che ottengono più rispetto e attenzione di altri e di conseguenza hanno più influenza. Questi individui tuttavia non sono stati nominati da una qualche autorità superiore. Invece, il loro peso riflette l’approvazione liberamente data dei loro collaboratori. Un leader 2.0 è dunque un leader di servizio, un servant leader. Parliamo cioè della convocazione come componente essenziale della leadership 2.0. Il riferimento è al Potere di convocazione concettualizzato da Piero Trupia, che così viene definito nella Nona Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management: “La convocazione è invito attivo; è suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. È lo sviluppo di relazioni dialogiche, che si prendano carico non solo di usare utilmente un rapporto dato, ma di costruirne/ricostruirne le premesse. La cognitivizzazione del lavoro organizzato, definitivamente sancita dall’avvento di Internet e dei big data, rende ancora più plausibile questo modo di intendere l’organizzazione. Nel simposio aziendale del XXI secolo, il modello generale di creazione e diffusione della conoscenza è la relazione a rete, in cui gli attori si legano, tramite strumenti condivisi, in network specifici di comunicazione. Tutto ciò però non deve lasciare in secondo piano la rilevanza del faccia a faccia”.

A.M.: Diciamo questo: accanto ai fattori motivatori, agiscono delle forze che inibiscono l’engagement, ovvero interferiscono con i fattori che lo sostengono e quindi finiscono per inibirlo. I 10 esperti, consulenti e studiosi sul tema, intervistati hanno messo in evidenza alcuni di questi fattori, e nella survey sulle grandi aziende italiane anche i manager responsabili dell’employee engagement si sono espressi sul tema. Qual è il principale fattore che inibisce l’engagement secondo questi ultimi? L’incoerenza tra le dichiarazioni e le azioni dei manager, con una media di 4,68 su una scala da 1 a 5. Segue l’arroganza, con manager che tendono a superbia, indifferenza o cinismo (4,47). Un’azione manageriale incoerente, e magari anche arrogante, è insomma il principale distruttore dell’engagement.

Al contrario una comunicazione manageriale autentica e un’azione trasparente e allineata a quanto professato verbalmente è in grado di sostenere l’engagement e l’alleanza dei collaboratori anche nelle situazioni più critiche. Lo confermano diversi casi aziendali fra quelli approfonditi nella ricerca dell’Osservatorio Employee Relations and Communication, primo fra tutti il caso LFoundry-SMIC, azienda situata in Abruzzo e specializzata nello sviluppo e produzione di sensori ottici, con circa 1.550 dipendenti.

LFoundry ha attraversato un periodo di turbolenza fra il 2013 e il 2016 e in questa fase il top management si è chiesto se e quanto potesse contare sui propri collaboratori per affrontare i cambiamenti e le sfide poste dal business. Per dare risposta a questa domanda, la direzione di LFoundry ha deciso di ricorrere a uno studio scientifico per valutare la qualità delle relazioni con i collaboratori e la loro propensione a sostenere l’azienda. L’analisi ha dimostrato scientificamente che l’azienda poteva contare su reali alleati fra i propri collaboratori anche in quella fase di crisi, proprio in virtù delle relazioni di buona qualità costruite con essi nel tempo e dell’autenticità e della coerenza mostrata dal management nel suo agire concreto.

5. Comunicazione interna: curare il dialogo

M.M.: Questo ci porta ad un altro punto chiave: il ruolo della comunicazione interna. Secondo l’ultima ricerca ASCAI (ottobre 2017) la chiave del successo competitivo delle imprese dipende dalla capacità del top management di promuovere l’implementazione di efficaci sistemi di comunicazione interna, in grado di

  • creare e mantenere le condizioni affinché la cultura aziendale venga fortemente condivisa all’interno,
  • indirizzare i comportamenti di tutti i collaboratori in modo che siano allineati con la strategia aziendale.

Sul secondo punto, Richard Sheridan, co-founder and CEO di Menlo Innovations, chiosa per tutti: il modo in cui l’organizzazione è percepita da chi ci lavora è fondamentale per fare business tanto quanto quello che ne pensano i clienti (Joy Inc. 2013). Se questo è vero, la comunicazione interna può diventare il più grande alleato del business di un’organizzazione. E questo significa, di riflesso, che i dipendenti devono essere considerati come i principali stakeholder di riferimento: sono loro quelli che vanno ascoltati, è a loro che bisogna parlare in un contesto in cui: “Internal communications can be one of the most valuable business tool ever” (Lee e Morris 2012).

A.M.: La gestione della relazione con i collaboratori è una delle tre leve che i manager possono muovere per favorire un contesto organizzativo engaging. Nello specifico, il management può favorire l’engagement se pratiche manageriali, stili e strumenti di comunicazione interna adottati in azienda contribuiscono ad alimentare relazioni votate all’inclusione e alla partecipazione dei collaboratori alla vita aziendale.

Numerosi studi hanno rilevato che la comunicazione interna ha un impatto significativo sull’employee engagement: rafforza il senso di appartenenza dei collaboratori all’organizzazione, crea una cultura della trasparenza tra i manager e i collaboratori, consente ai collaboratori di condividere informazioni, di instaurare relazioni e di creare significati, favorisce l’identificazione dei valori e degli obiettivi dei collaboratori con quelli dell’organizzazione. Hanno inoltre dimostrato che tutti i tipi di comunicazione interna sono rilevanti per l’employee engagement: la comunicazione con i line-manager, la comunicazione all’interno del team, la comunicazione all’interno dei team di progetto, e la comunicazione interna aziendale.

Dalla survey sulle grandi aziende italiane è emerso infatti che le aziende con una funzione formale di comunicazione interna costruiscono contesti organizzativi che favoriscono l’engagement molto più di quanto facciano le aziende che non la possiedono. La presenza di una comunicazione interna istituzionalizzata è infatti associata all’esistenza di relazioni più inclusive con i collaboratori in azienda, ma anche all’adozione di pratiche più valorizzanti di gestione delle risorse umane e a una giustizia organizzativa più equa.

Ma quali sono gli strumenti di comunicazione interna ritenuti più rilevanti per l’engagement? Dai dati raccolti dalla survey sui collaboratori, gli incontri informali con il top management risultano l’iniziativa di comunicazione interna più importante (3,81 su una scala da 1 a 5), mentre per i manager interpellati nella survey sulle grandi aziende sono solo il sesto strumento in ordine di rilevanza (2,84). Al contrario per i manager gli strumenti mediati come le newsletter, i blog, le e-mail (3,19) e le intranet e le TV aziendali (3,02) sono fra i primi, mentre per i collaboratori sono i meno rilevanti (3,30 e 3,29 rispettivamente). La comunicazione a cascata è considerata in assoluto l’iniziativa più rilevante dai responsabili del people engagement interpellati nella survey sulle grandi aziende (3,57), mentre per i collaboratori è al terzo posto (3,58) dopo gli incontri informali con il top management (3,81) e le convention (3,61). In generale, i collaboratori sembrano comunque preferire gli strumenti di comunicazione che generano interazione diretta con il management, mentre i manager responsabili dell’employee engagement puntano di più sugli strumenti di comunicazione mediata.

L’importanza attribuita dai collaboratori all’interazione con il management viene ulteriormente confermata dall’enorme rilevanza attribuita al dialogo. Interpellati su una serie di pratiche manageriali per l’engagement, i collaboratori hanno evidenziato infatti come le più importanti per loro siano il dialogo manager-collaboratori per fornire informazioni o spiegare obiettivi, piani, strategie (4,46) e le conversazioni informali per sollecitare il feedback dei collaboratori (4,12). Questo risultato è analogo a quello emerso dalla survey sulle aziende, sebbene con medie più alte per i collaboratori: i responsabili del people engagement delle grandi aziende hanno infatti attribuito in media un valore di 3,79 al dialogo manager-collaboratori e di 3,41 alle conversazioni informali per sollecitare il feedback dei collaboratori.

6. Gestione delle risorse umane: centrate sui benefici per il collaboratore

M.M.: Comunicare però non basta. Occorre anche agire sulle leve dello sviluppo e del performance management in maniera coerente.

A.M.: Appare scontato dire che la gestione delle risorse umane influisca sull’engagement dei collaboratori. Tuttavia dalla ricerca IULM emerge come le aziende non sempre gestiscano questa leva con la dovuta consapevolezza circa le sue ricadute sull’engagement.

I 10 esperti intervistati nell’ambito della ricerca hanno sottolineato come la funzione risorse umane dovrebbe avere come mandato istituzionale, come sua ragion d’essere, quello di promuovere l’engagement dei collaboratori, anche perché è corresponsabile di diversi processi deputati a integrare le persone negli obiettivi organizzativi: dalla valutazione, alla formazione e allo sviluppo.

I collaboratori stessi, interpellati nella survey a loro dedicata, hanno attribuito una rilevanza media molto elevata a quasi tutte le pratiche di gestione per le risorse umane, soprattutto quelle che tutelano il lavoratore e la sua vita in termini di sicurezza: le tutele per il lavoratore hanno ottenuto una media di 4,70 su una scala da 1 a 5 e il contratto a tempo indeterminato 4,66. Seguono per rilevanza lo smart working (4,44) e il retraining (4,39), cioè gli strumenti che i collaboratori ritengono chiave per l’autonomia professionale e per la propria employability. I responsabili del people engagement interpellati nella survey sulle grandi aziende, invece, attribuiscono in media una rilevanza più bassa alle pratiche di gestione delle risorse umane. E gli strumenti che ritengono più rilevanti per l’engagement sono la job rotation (3,53) e il job posting (3,51), cioè quelli più legati alle opportunità di sviluppo interne all’azienda, con un certo disallineamento rispetto alle posizioni espresse dai collaboratori.

Da questa analisi emerge quindi che ai fini dell’engagement per i collaboratori sono più rilevanti pratiche di gestione delle risorse umane centrate sui benefici per i lavoratori che, in modo molto realistico, aprono loro la strada a una carriera professionale attraverso aziende diverse.

7. Qualità della vita di lavoro quotidiana: non darla per scontata

M.M.: Consideriamo un altro aspetto importate nello sviluppo dei collaboratori, cui le aziende stanno prestando sempre maggiore attenzione: il livello di welfare offerto. Ad esempio con molte aziende clienti di OpenKnowledge sto lavorando su obiettivi quali: aumentare la percezione del welfare come strumento di comunità organizzativa ovvero la awareness non solo legata al soddisfacimento dei bisogni personali, bensì alla ricaduta in termini di rapporti con l’azienda e fra i diversi stakeholder; informare i dipendenti sull’offerta completa e sulle modalità di accesso ai servizi; aumentare la percezione di vicinanza dell’azienda nei confronti dei collaboratori; individuare modalità smart per misurare la soddisfazione dei dipendenti rispetto ai servizi offerti piuttosto che nuove esigenze o risposte innovative a bisogni emergenti.

A.M.: La qualità della vita quotidiana di lavoro influisce sul livello di engagement dei collaboratori. Anche questa è un’affermazione che sembra banale, eppure anche in questo caso la ricerca svolta dall’Osservatorio Employee Relations and Communication ha fatto emergere che spesso questa leva viene invece trascurata.

Oggi l’attenzione delle aziende si rivolge in larga misura a pratiche come iniziative di Corporate Social Responsibility (CSR) che coinvolgono i collaboratori e iniziative evolute per il benessere organizzativo. La ricerca IULM sulle aziende e quella sui collaboratori però mettono in evidenza come si tratti di pratiche poco rilevanti per entrambi i campioni: per esempio, le iniziative volte a promuovere il benessere organizzativo ottengono una media di 4,19 per i collaboratori (al terzultimo posto) e di 2,93 per i manager (al quartultimo posto); i programmi di Diversity Management una media di 3,61 per i collaboratori (al penultimo posto) e di 2,60 per i manager (all’ultimo posto); e le iniziative di CSR che coinvolgono i collaboratori una media di 3,44 per i collaboratori (all’ultimo posto) e di 2,78 per i manager (al penultimo posto).

Questi risultati evidenziano quindi che gli interventi di questo tipo sono considerati poco rilevanti dai collaboratori e dagli stessi manager. Questo potrebbe forse accadere perché nell’esperienza dei rispondenti alle due survey si tratta di interventi di tipo estetico e non fondati su interventi sostanziali.

I collaboratori interpellati nella survey a loro rivolta sottolineano invece come cruciali alcuni aspetti di base della vita e del contesto di lavoro. Nello specifico, i collaboratori hanno indicato come più rilevanti: pulizia e decoro degli ambienti (4,63 su una scala da 1 a 5); sedie e scrivanie ergonomiche (4,57); postazioni di lavoro confortevoli (4,46); sistemi di condizionamento funzionanti (4,36); tecnologie evolute per collaborare (4,10); scrivanie personalizzabili (3,64) e spazi open space (3,50).

Da questi dati emerge una elevata concentrazione dei collaboratori su aspetti di base del contesto lavorativo, che Herzberg avrebbe definito “igienici”. Mentre gli accorgimenti che potrebbero sostenere la collaborazione e il knowledge sharing (tecnologie per collaborare e open space) sono poco rilevanti. Due interpretazioni sono possibili per questi dati: le condizioni dei luoghi di lavoro sono insoddisfacenti e quindi i lavoratori si concentrano su queste; i collaboratori non sono abbastanza sensibilizzati sui vantaggi di tecnologie e spazi per la collaborazione. Il tema è cruciale perché, in un quadro di engagement a livelli critici, gli aspetti basilari della vita quotidiana di lavoro potrebbero essere uno dei fattori inibitori più forti per l’engagement.

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8. Sintonia con i collaboratori: strategia chiave di engagement

M.M.: In questo quadro mi sembra stia sempre più aumentando l’attenzione verso pratiche di ascolto dei dipendenti. Pratiche che vanno da sistemi strutturati per la raccolta delle idee dal basso (ad esempio come OpenKnowledge abbiamo sviluppato piattaforme di questo tipo per un grande numero di aziende che vanno da Magneti Marelli ad A2A passando per Barilla) fino alla diffusione di micropratiche quotidiane quali: non interrompere l’interlocutore mentre parla; prestare attenzione a tutti i segnali verbali e non verbali emessi dall’interlocutore; lasciare spazi di riflessione e concentrazione all’interlocutore senza incalzarlo, eccetera.

A.M.: Gli sforzi dei manager per aumentare l’employee engagement si dovrebbero concentrare sulle leve ritenute più rilevanti dagli stessi collaboratori. Per essere più efficaci le strategie di engagement dovrebbero mirare cioè a rispondere in primo luogo alle attese delle persone che operano in azienda.

La ricerca IULM ha mostrato invece che spesso vi è un disallineamento fra aziende e collaboratori: in molti casi infatti le pratiche di gestione delle risorse umane e gli strumenti di comunicazione interna ritenuti più rilevanti dai manager interpellati nella survey nelle grandi aziende non corrispondono a quelli portati in evidenza dai collaboratori coinvolti nella seconda survey.

Ad esempio, ogni singolo strumento di comunicazione interna è più rilevante per i collaboratori che per i manager responsabili del people engagement, il che significa che in generale i collaboratori ritengono che la comunicazione interna incida sull’engagement più di quanto i manager non percepiscano. Inotre, i manager ritengono più rilevanti gli strumenti di comunicazione mediata come blog, newsletter, e-mail, intranet e TV aziendali, mentre per i collaboratori questi strumenti sono i meno rilevanti mentre prediligono le iniziative che consentono un’interazione diretta con il management. Addirittura emerge che la modalità di comunicazione più rilevante per i collaboratori, cioè gli incontri informali con i top manager, è fra quelle meno rilevanti per i manager.

Anche nell’ambito della gestione delle risorse umane collaboratori e manager mostrano di avere focus diversi: per i primi sono più rilevanti le pratiche per la sicurezza, l’autonomia e l’employability (tutele per il lavoratore, contratto a tempo indeterminato, smart working e retraining), per i secondi le leve per lo sviluppo interno (job posting e job rotation).

Il disallineamento è pericoloso: trascurare gli elementi più rilevanti per i collaboratori genera terreno fertile per il disengagement. Ai manager non viene perdonata la miopia di focalizzarsi sulle leve che essi stessi preferiscono o che sono ritenute più funzionali agli interessi aziendali.

9. Smart working: affrontarlo con coraggio

M.M.: L’engagement ha poi molto a che fare con le condizioni ambientali in cui si svolge il lavoro. In questo senso assume sempre maggiore rilevanza lo smart working. Vediamo qualche dato. Entro il 2020 lo smart working sarà realtà per il 51% delle aziende italiane. E’ quanto emerge da un’indagine condotta da InfoJobs – piattaforma numero uno per la ricerca di lavoro online in Italia, con 4 milioni di profili registrati e oltre 4.000 aziende attive nel 2017 – intervistando le imprese italiane per sapere cosa pensano di questa modalità di lavoro in mobilità fuori dalla sede aziendale, un’agevolazione di cui già godono molti dipendenti all’estero e che sta iniziando a diffondersi in Italia, anche grazie alla legge 81/2017. I risultati sono stati poi messi a confronto con quelli di un’indagine simile realizzata due anni fa, nel 2016. Ad oggi, il 39% delle aziende ha implementato politiche di smart working. Di queste, il 27% lo ha attivato solo per alcune aree funzionali, mentre per il 12% coinvolge tutti i dipendenti. C’è poi un 12% di imprese che ne prevede l’introduzione entro due anni. Quasi la metà delle aziende è però ancora reticente (49%), una percentuale in diminuzione del 11,5% rispetto al 2016. Di queste, il 41% non ha intenzione di implementare lo smart working per motivi interni mentre l’8% non lo fa per mancanza di supporti tecnologici.

A.M.: Lo smart working è rilevante per l’engagement secondo i collaboratori. Quando interpellati sulla rilevanza per l’engagement di una serie di pratiche di gestione delle risorse umane, lo smart working si posiziona infatti al terzo posto (media di 4,44 su una scala da 1 a 5), solo dopo le tutele per il lavoratore e il contratto a tempo indeterminato. Significa che, una volta soddisfatti i primari bisogni di sicurezza, i collaboratori si concentrano su quelli di autonomia e libertà professionale.

Le aziende tuttavia sottovalutano questa esigenza. Dalla survey sulle grandi aziende italiane emerge infatti che secondo i responsabili dell’employee engagement le iniziative per lo smart working non sono molto rilevanti per le loro aziende: conseguono una media di 2,79, al terzultimo posto.

Eppure nel panorama italiano vi sono esperienze di successo che dimostrano come progetti di questo tipo, quando correttamente implementati, rappresentano un’opportunità win-win per collaboratori e azienda. È questo ad esempio il caso di Ferrero. Per favorire l’employee engagement, nel 2017 Ferrero ha lanciato un progetto di smart working, partito in forma pilota su circa 100 white collar di alcune funzioni aziendali di tre società italiane del Gruppo, dando ai collaboratori coinvolti la possibilità di lavorare un giorno alla settimana da remoto. La funzione comunicazione interna ha supportato tutta l’iniziativa per avviarla in modo efficace e poi per la sua continuazione. A circa tre mesi dal lancio è stata fatta una iniziale valutazione dei suoi esiti, interpellando i collaboratori coinvolti e i loro responsabili. Il riscontro delle persone interessate dal progetto è stato positivo: hanno dichiarato infatti che la giornata di smart working è risultata essere quella più produttiva della settimana, che hanno percepito un senso di maggiore responsabilità e che il progetto rappresenta una dimostrazione di fiducia da parte dell’azienda. Alla luce di questi risultati, l’azienda ha deciso di ampliare ulteriormente il programma.

10. Employee engagement e digitalizzazione: binomio positivo

M.M.: In conclusione, torniamo al punto di partenza. Alla luce di quanto abbiamo detto, qual è il collegamento fra engagement e trasformazione digitale?

A.M.: Le aziende interessate dai processi di digitalizzazione hanno collaboratori mediamente più engaged delle aziende che non hanno ancora intrapreso questa strada. I collaboratori delle aziende nelle quali sono stati introdotti strumenti di digitalizzazione mostrano un livello medio di engagement di 3,97, contro il 3,62 dei collaboratori nelle cui aziende non sono stati introdotti tali strumenti. Le persone mostrano cioè di essere più engaged nelle realtà con maggiore capacità di innovazione e cambiamento, in sintonia con l’evoluzione del contesto competitivo.

Le tecnologie implementate dalle aziende in cui operano i collaboratori del campione sono nel 35% dei casi chat automatizzate; nel 34% risponditori automatici; nel 31% servizi self-service; nel 12% sistemi di intelligenza artificiali e agenti virtuali e nel 5% altre applicazioni. In un momento in cui il dibattito sulla digitalizzazione è preminente, sorprende che il 41% dei collaboratori non rilevi l’implementazione di alcuno strumento di questo tipo nella propria azienda. Tuttavia il dato va interpretato tenendo conto che non si tratta di un campione di collaboratori statisticamente rappresentativo.

I collaboratori nelle cui aziende è stata introdotta almeno una tecnologia per la digitalizzazione del lavoro si sono anche espressi sul loro impatto. In ordine di importanza i collaboratori ritengono che la digitalizzazione: semplifica il lavoro (4,14); migliora la concentrazione (3,91); facilita il raggiungimento degli obiettivi (3,86); riduce i rischi di errore (3,77); migliora i rapporti con i clienti (3,57); rende più piacevole l’attività lavorativa (3,46); migliora i rapporti con i colleghi (3,44); rende difficile integrare le attività delle persone con quelle delle macchine (2,41) e fa sentire le persone meno utili (2,28). Gli impatti indicati riguardano in particolare aspetti legati all’efficienza: lavoro più semplice, più alta concentrazione, maggiore efficacia verso gli obiettivi, meno errori. Non risulta invece significativo l’impatto sulle relazioni con i clienti e con i colleghi e sulla qualità dell’esperienza di lavoro (lavoro più piacevole).

11. Un punto in più: domande aperte…

Oltre a quanto sottolineato fin qui, vogliamo concludere queste riflessioni sottolineando che l’esplorazione del tema engagement e disengagement dei collaboratori è agli ancora inizi e merita ancora molta attenzione. Si tratta di un tema di cui si dibatte da qualche decennio, ma l’evoluzione dei contesti organizzativi in corso con la digitalizzazione, la crescente diversità della popolazione lavorativa, il crescente divario tra le generazioni di lavoratori, la sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro come lo smart working, mettono in discussione le acquisizioni più consolidate.

Come emerge dall’indagine più volte citata durante queste riflessioni, pur avendo acquisito elementi conoscitivi preziosi sullo stato dell’arte dell’engagement e del disengagement delle aziende italiane, resta ancora molto da indagare. Nuove ricerche porteranno a nuovi sviluppi. Per questo l’Università IULM continuerà a studiare il tema con l’obiettivo di contribuire a sviluppare una moderna cultura manageriale attraverso l’Osservatorio Employee Relations and Communication.