Dal Digital Workplace alla Phygital Enterprise

La grande spinta alla trasformazione digitale che attraversa il mondo delle organizzazioni, ovvero l’ingresso in quella che abbiamo definito la Platfirm Age, ha reso l’idea di Digital Workplace relativamente diffusa. Oggi numerose aziende sono impegnate nel migliorare la comunicazione e i processi interni attraverso la costruzione di Intranet sempre più capaci di valorizzare l’attività partecipativa e collaborativa dei dipendenti. Tuttavia, nella continua accelerazione dei fenomeni d’innovazione che i mercati conoscono ai giorni nostri, fermarsi a questo stadio rischia di risultare insufficiente. Il passaggio successivo nello sviluppo interno delle organizzazioni – quello che occorre predisporsi ad attuare quanto prima per non restare indietro – è già arrivato. Benvenuti nell’epoca della Phygital Enterprise! Ovvero nel mondo in cui a fare la differenza è la capacità di ottimizzare a tutti i livelli gli intrecci fra esperienze digitali ed esperienze fisiche. Cosa cambia rispetto ai modi consueti di lavorare? Quasi tutto. Ho chiesto a Rosario Sica Amministratore Delegato di OpenKNwoledge di spiegarci in cosa consistono queste trasformazioni.

Da Google alle platfirm

R.S.: Per capire bene questi fenomeni dobbiamo fare un passo indietro. Quando due studenti di Stanford pressoché sconosciuti lanciarono Google nel 1998 nessuno immaginava che stesse nascendo il gigante destinato a dominare il mercato dei search engine e a diventare una delle più importanti imprese del mondo. Ma tutti coloro che all’epoca erano abituati a cercare informazioni su motori di ricerca quali Yahoo o Lycos si resero subito conto della differenza. Non soltanto Google offriva una piattaforma disegnata in modo molto più pulito e user friendly; soprattutto, consentiva di raggiungere le informazioni che gli utenti cercavano in modo sorprendentemente più veloce e mirato.

La ragione di tale diversità di risultati era una sola: Sergei Brin e Larry Page avevano ideato un algoritmo di straordinaria efficacia nel valutare l’utilità dei dati online, selezionarli in modo intelligente e disporli in ordine di importanza nelle pagine di Google. Grazie a tale algoritmo, oggi Google gode di una posizione di assoluta leadership controllando il 75% del suo mercato e lasciando ai vari Bing, Yahoo, Baidu e agli altri di disputarsi il resto. Nel maggio 2016 ciò si traduceva nel secondo posto nella lista di Forbes delle aziende di maggiore capitalizzazione al mondo (subito dopo Apple), con un valore di 82,5 miliardi di dollari.

M.M.: Questo esempio la dice lunga sul ruolo degli algoritmi nelle odierne platform digitali. Ma è soltanto uno dei molti che si potrebbero fare. I successi di piattaforme come quelle di Apple, eBay, Microsoft, Amazon, Facebook, Twitter, LinkedIn, PayPal, AirBnb, Uber hanno tutti al loro centro un algoritmo oltremodo smart, cui si devono le performance vincenti nei confronti della concorrenza. Non solo: gli algoritmi delle piattaforme di maggiore successo risultano estremamente validi anche per una qualità che a prima vista può sembrare stupefacente – la loro capacità di apprendere.

Le platform digitali

R.S.: Nell’inserto di HBR Italia del luglio-agosto 2016, che OpenKnowledge ha dedicato interamente alle platform, abbiamo analizzato questo tema approfonditamente, ospitando interventi qualificati e presentando una molteplicità di casi. Abbiamo anche sostenuto l’opportunità di designare le nuove imprese-piattaforma col neologismo Platfirm, per rimarcare la novità di questo soggetto economico-tecnologico-organizzativo; e abbiamo intitolato l’inserto The Platfirm Age, per sottolineare l’avvento di una nuova era in cui le logiche dominanti nel mondo del business e delle organizzazioni stanno cambiando in modo radicale e con una velocità impressionante.

Molti aspetti riguardanti le nuove piattaforme digitali sono presi in esame in modo circostanziato nelle pagine di quell’inserto, e ad esse rimandiamo. Qui è utile entrare nel merito solo di alcune caratteristiche, immediatamente rilevanti per le loro strette connessioni con gli algoritmi alla base delle piattaforme stesse.

Un testo recente di Alex Moazed e Nicholas L. Johnson, Modern Monopolies. What It Takes to Dominate the 21st-Century Economy (St. Martin’s Press, New York, 2016), aiuta a sintetizzare gli aspetti più utili. Cosa contraddistingue le moderne platform? E cosa risulta cruciale perché esse abbiano successo? Gli elementi chiave sono i seguenti:

  • Business model: a differenza delle imprese tradizionali, che operano in modo lineare acquisendo fattori produttivi per trasformarli in prodotti o servizi da vendere ai consumatori, le platform consentono a produttori e consumatori di connettersi tra loro e scambiare beni, servizi e informazioni. Il loro business model è pertanto del tutto diverso e innovativo, e deve far leva anzitutto su quelle connessioni.
  • Dinamica di mercato: le platform tendono a crescere in modo esponenziale, ma il loro successo non è scontato. Quando falliscono è perché sono state rimpiazzate da piattaforme nuove e migliori.
  • Core transaction: ogni platform opera su una transazione essenziale che supporta e facilita – ad esempio Uber non fornisce la corsa ma agevola lo scambio di valore tra conducenti e passeggeri. Questo è la sua core transaction.
  • Quattro funzioni: ogni platform deve a) costruire l’audience, b) creare il match tra produttori e consumatori, c) offrire prodotti e servizi, d) stabilire regole e standard.
  • Due tipi (exchange vs. maker): alcune platform sono specializzate nel ridurre i costi di transazione (es: eBay, Alibaba): altre nel fornire un’infrastruttura che permetta ad alcuni utenti-produttori di creare cose – contenuti, software – per molti altri utenti-consumatori (es: IOS, YouTube).
  • Più o meno commodity: le platform che offrono servizi più commoditized devono automatizzare il matching quanto possibile; quelle che offrono servizi meno commoditized devono invece assicurare facilità di ricerca e scoperta.

Moazed e Johnson spingono la loro analisi molto oltre, ma questa lista di elementi basta per una considerazione fondamentale. Perché una platform si affermi sul mercato occorre certamente che essa si basi su un corretto business model. Oltre a questo, tuttavia, è necessario porre estrema attenzione a come viene progettata. In particolare occorre che il suo design imposti validamente la core transaction; favorisca al meglio la costruzione dell’audience e il match-making; rifletta coerentemente la sua tipologia di exchange vs. maker; e risulti ottimale in relazione alla natura più o meno standardizzata (commoditized) dei servizi offerti.

M.M: Riuscire in tale operazione complessa non è per niente scontato. E anche una volta che la platform abbia iniziato a crescere, nulla garantisce che non si affacci sullo stesso mercato un’altra piattaforma con caratteristiche migliori. È qui che diventa decisivo il meccanismo profondo che di ogni platform rappresenta l’anima nascosta – l’algoritmo.

Il ruolo dell’algoritmo

R.S.: Per chiunque non sia tra gli addetti ai lavori, il termine algoritmo suona un po’ misterioso. Ma in effetti la sua spiegazione è piuttosto semplice. Un algoritmo è una sequenza di istruzioni che dice a un computer cosa fare. Essa può essere espressa in linguaggio informatico più o meno astruso, ma – se abbastanza semplice – anche in parole del tutto comprensibili. Quando l’algoritmo viene tradotto in un linguaggio che il computer può capire, come ad esempio Java, allora si può chiamarlo un programma.

Gli algoritmi sono presenti nelle platform digitali come pure in molte altre applicazioni. Invero, oggi la loro presenza nella nostra vita è praticamente ubiqua. Il punto è espresso efficacemente da Pedro Domingos, docente all’Università di Washington e autore del testo The Master Algorithm. How the Quest for the Ultimate Learning Machine Will Remake Our World, Basic Books, New York, 2015. “[Gli algoritmi] non sono solo nel vostro telefono cellulare o nel vostro laptop ma anche nella vostra auto, la vostra casa, i vostri elettrodomestici e i vostri giocattoli. La vostra banca è un gigantesco groviglio di algoritmi, con umani che girano le manopole qua e là. Gli algoritmi pianificano i voli e poi fanno volare gli aerei. Gli algoritmi fanno andare le fabbriche, commercializzano e indirizzano i beni, incassano i proventi e tengono la documentazione. Se ogni algoritmo cessasse improvvisamente di funzionare, sarebbe la fine del mondo come lo conosciamo” (traduzione nostra).

Contenendo molte platform e numerose app, uno smartphone trabocca di algoritmi – il che dovrebbe renderci questa nozione un po’ più familiare. In una platform, l’algoritmo non ha solo una funzione di base allo scopo di far funzionare il sistema. Esso si prende cura anche di aspetti sottili di ottimizzazione. Ad esempio su Uber, l’algoritmo di matching tende a favorire i conducenti che ricevono molte valutazioni positive, rinforzando l’efficacia della piattaforma.

Gli algoritmi sono parecchio diversi da settore a settore in quanto la core transaction cambia. Ad esempio un search engine favorisce l’incontro tra chi offre e chi cerca informazioni, mentre Airbnb facilita il match tra chi ha offre e chi cerca un alloggio a prezzi vantaggiosi (esperienza assai differente). Gli algoritmi all’interno dello stesso settore sono più simili ma certo non arrivano ad essere uguali, anche se la transazione essenziale da intermediare è la stessa. Sia Google che Yahoo offrono il modo di raggiungere le informazioni che vi premono, ma probabilmente Yahoo lo usate molto meno perché l’algoritmo di Google è migliore. Non solo, ma Google lo perfeziona costantemente, rendendo la piattaforma sempre più soddisfacente per chi la utilizza. Il modo in cui questo accade è di grande interesse e merita di essere compreso a fondo.

Machine learning

M.M.: Molto più delle imprese tradizionali, le platform digitali hanno una tendenza a dominare i loro mercati, e ciò per due ragioni principali. La prima, messa a fuoco con chiarezza da Moazed e Johnson, ha a che fare con la logica economica: per le platform i costi marginali sia di distribuzione che di offerta sono prossimi a zero. Se Marriott vuole accrescere i suoi clienti deve estendere la sua catena e costruire nuovi hotel (costo non indifferente), mentre ad Airbnb basta che qualche proprietario di casa si aggiunga alle sue liste (costo praticamente nullo). Ciò implica che un’impresa tradizionale normalmente raggiunga un limite oltre il quale, per ragioni organizzative, i costi marginali si innalzano fermandone l’espansione, mentre una platform può non incontrare tale limite.

Ma esiste una seconda ragione, di natura tecnologica – e questa ha a che fare con gli algoritmi. Le platform digitali vincenti sono quelle che fanno leva sul miglioramento costante dei loro algoritmi, traendo pieno vantaggio dal fenomeno in forte sviluppo che viene denominato machine learning.

R.S.: Esattamente. A spiegare bene in cosa consiste questo fenomeno è ancora Domingos. La sua analisi si sviluppa lungo i seguenti passaggi:

  • Gli algoritmi di norma vengono scritti da programmatori, il cui compito è tanto prezioso quanto delicato. Alcuni algoritmi si rivelano straordinariamente utili, ma molte cose possono andare storte e il risultato non è mai scontato.
  • Nel corso del tempo, i programmatori costruiscono nuovi algoritmi, basandosi su algoritmi di altri programmatori e combinando algoritmi con altri algoritmi, per produrre ulteriori algoritmi. La conseguenza è che oggi miliardi di algoritmi sono attivi contemporaneamente, formando un universo parallelo immenso e in continua crescita.
  • Ogni nuova generazione di algoritmi deve essere costruita sulle precedenti, e questo tende a causare quel che Domingos chiama il complexity monster. Quando gli algoritmi diventano troppo ricchi, complessi e intricati, la mente umana fatica a governarli e gli errori sono in agguato.
  • Entrano in scena quindi i learners. Ovvero algoritmi che creano altri algoritmi, imparando progressivamente dall’esperienza a costruire programmi che esperti umani non sarebbero mai in grado di creare.

Col machine learning, in altri termini, i computer scrivono i loro programmi e imparano algoritmi di straordinaria complessità, che noi non sapremmo scrivere. Il modo in cui questo accade ha quasi del magico e consiste nel rovesciare i termini della questione. Quando un algoritmo è creato da un programmatore umano esso viene prima di tutto. Poi lo si applica a dei dati. E da questo derivano i risultati. Col machine learning il processo viene invertito. I computer sono anzitutto nutriti di dati. Poi si definiscono i risultati attesi. E da questo i computer – se provvisti davvero di molti dati e di esempi da cui apprendere – elaborano autonomamente gli algoritmi. Dopo di che, gli algoritmi creati dalle macchine possono prendersi cura di altre grandi quantità di dati, imparando progressivamente a gestirli sempre meglio.

M.M.:Per quale motivo tali algoritmi non avrebbero potuto essere creati da un essere umano?

R.S.: Perché a differenza di quelli scritti dai migliori esperti con due gambe, che possono arrivare a centinaia o migliaia di righe, quelli elaborati dai learner sono in grado tranquillamente di raggiungere milioni di righe, ovvero un livello di complessità semplicemente non gestibile né dal nostro cervello né dalle nostre competenze (e strutture organizzative).

 

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Si capisce così la ragione tecnologica che sostiene il successo delle platform digitali dominanti. Se Amazon ha una eccezionale capacità di proporci letture e altri acquisti in linea coi nostri interessi e il nostro comportamento online, sollecitando in modo mirato acquisti ulteriori, non è un caso: la sua piattaforma infatti fa grande affidamento sul machine learning. Può farlo con estrema efficacia in quanto raccoglie ogni giorno quantità di dati enormi. Tutti questi dati alimentano e orientano i suoi learner, che possono migliorare costantemente le loro performance molto più di quelli di piattaforme similmente orientate all’e-commerce, ma meno grandi. In breve, i suoi algoritmi capaci di apprendere, coniugati con formidabili flussi di dati, determinano un circolo virtuoso e proteggono una posizione di leadership che nel futuro prevedibile i suoi concorrenti troveranno molto difficile scalzare. Lo stesso vale per tutte le platform che attualmente primeggiano nei loro rispettivi settori, facendo un uso evoluto di algoritmi intelligenti.

Ecosistemi

M.M.: Gli algoritmi hanno una logica propria e vanno studiati in modo mirato. Sarebbe erroneo tuttavia considerarli al di fuori degli ecosistemi che li hanno generati e nei quali essi vivono.

R.S.: Un modo per rendersi conto di questo è considerare la riflessione di Benjamin Bratton, che in un libro recente di notevole spessore concettuale e analitico affronta il tema del rapporto tra sviluppo dei software e sovranità nelle società avanzate (The Stack. On Software and Sovereignty, Mit Press, Cambridge Massachusets, 2015).

In una visione decisamente sistemica, Bratton tocca molti argomenti. Tra essi, i modi in cui gli sviluppi computazionali a livello planetario interagiscono con le nostre realtà geopolitiche, orientandole e modificandole; gli intrecci fra tutte le principali forme tecnologiche contemporanee – smart grids, piattaforme cloud, mobile app, smart cities, Internet of Things – che si alimentano vertiginosamente a vicenda; la conseguente formazione di un insieme tanto coerente quanto accidentale – una megastruttura che è sia un apparato computazionale sia una nuova architettura di governo. Della sua analisi fanno parte certamente anche le piattaforme digitali e gli algoritmi che le supportano, all’interno di sistemi complessi per ognuna diversi. In questa prospettiva, emerge che le grandi platform del nostro tempo costruiscono la loro capacità d’influenza economica, tecnologica e sociale nell’ambito di rapporti fortemente competitivi (platform wars). Ognuna quindi è molto impegnata nel valorizzare i suoi punti di forza specifici in quanto sistema. Traendo spunto dalle osservazioni di Bratton, le prerogative degli ecosistemi digitali più importanti possono essere tratteggiate come segue:

  • Facebook: il più famoso dei social network si fonda direttamente sulla vita dei suoi utenti e sul loro interesse nella vita di altri. Passando per le relazioni con la rete amicale, la costruzione della propria identità sul web è il principale progetto di questa piattaforma. Sul piano algoritmico, questo assegna un ruolo centrale al noto social graph di Facebook e alla capacità della piattaforma di scannerizzare, archiviare, catalogare, selezionare, visualizzare, supportare quantità di contenuto verbale e visivo mai prima concentrate in un solo ambiente in tutta la storia umana. Ai fini della creazione di valore, il social graph offre modo ai brand di rivolgere i loro messaggi agli utenti in chiave di microtargeting, sulla base di criteri avanzati di rilevanza e affinità.
  • Apple: quello di Apple si contraddistingue come un ecosistema chiuso, articolato tanto sul software quanto sull’hardware, in una prospettiva di total design nella quale i suoi utenti possono investire i loro desideri di auto-idealizzazione creativa. L’ecosistema include IOS, iTunes, App Store con uno sviluppo incessante di algoritmi capaci di apprendere. L’innovazione portata da iTunes ha piegato un’intera industria (quella musicale) verso di essa, mentre la piattaforma dell’App Store deriva grandi profitti dalla capacità del suo algoritmo di mettere in connessione intelligente sviluppatori di app e consumatori. Gli utenti di Apple si ritrovano tanto in questa esperienza di tecnologia di frontiera quanto nel mutuo apprezzamento per un hardware di qualità tattile premium, percepito quasi come oggetto di lusso.
  • Google: in quanto società fondata propriamente su un algoritmo, Google ha saputo ben allargare il suo ecosistema che ora (sotto il nome di Alphabet) comprende Google Energy, Google Car, Google Robotics, Google AI, e varie altre divisioni e rami di attività progettuale. Primariamente attraverso il search engine, Google continua a raccogliere profitti lordi stratosferici (superiori al 60% nel 2015) grazie, in larga misura, ai suoi algoritmi self-learning. Con essi l’infrastruttura di search e pubblicità di Google fa leva sull’attività di ricerca dei suoi utenti attuali per predire quali risultati potranno incontrare meglio le aspettative e gli interessi degli utenti futuri. In questo modo, si può dire non solo che Google lavora per noi ma che noi lavoriamo per Google, aiutandola costantemente a migliorare la sua già formidabile piattaforma.

Il fatto che ognuna di queste organizzazioni domini in un mercato diverso (e si occupi di una diversa core transaction), non impedisce che vi siano delle aree di sovrapposizione – da cui possono derivare molte frizioni. L’ultimo esempio è Duo, l’app di video calling di Google lanciata in agosto 2016 che si pone in diretta concorrenza con FaceTime di Apple, aprendo presumibilmente un altro fronte nelle platform wars. Tuttavia, nelle loro differenze principali, che riflettono la diversità dei mercati e delle piattaforme, questi esempi chiariscono soprattutto una cosa: che l’individuazione dell’algoritmo più adatto a una determinata platform non va basata unicamente su considerazioni tecnologiche.

Indubbiamente la tecnologia resta fondamentale. Ma, se l’algoritmo si trova al cuore di un ecosistema, esso deve riuscire a rifletterne nel modo migliore anche tutte le principali componenti economiche, organizzative, sociali, psicologiche. Alla fine, ogni algoritmo deve funzionare in rapporto alle persone, e la scelta delle persone colloca l’aspetto performativo di una piattaforma entro valutazioni di preferenza più ampie, che arrivano facilmente a toccare anche la sfera culturale e valoriale. Siete pronti a salire su un’auto guidata da un algoritmo? E’ realtà: le prime auto messe a disposizione da Uber negli Usa, a Pittsburg, in una prima fase saranno supervisionate da un controllore umano che viaggerà seduto al posto guida … ma la strada sembra segnata.

Digital Workplace: il modello di riferimento

M.M.: E’ dunque in questo contesto che assume sempre maggiore significato il concetto di Digital Workplace.

R.S.: In un inserto di HBR Italia curato da OpenKnowledge del giugno 2012 avevamo chiarito a fondo come le Intranet stiano modificando radicalmente la comunicazione interna e gli ambienti di lavoro delle organizzazioni. Riprendendo uno schema utilizzato in quell’articolo, possiamo sintetizzare i passaggi più significativi. A livello globale, gli stadi indicati nella figura 1 si sono così succeduti nel corso del tempo:

  • Le Intranet 1.0 erano i normali website per dipendenti, finalizzati ad assicurare uno strumento unitario e veloce di informazione, favorendo la costruzione dell’identità e il rinforzo dei valori aziendali. Tipicamente includevano anche repository condivise per facilitare ai dipendenti la ricerca di contenuti.
  • Le Intranet 2.0 hanno rappresentato uno sviluppo determinante aggiungendo un ambiente collaborativo, dal quale i dipendenti (e l’azienda stessa) possono trarre enormi vantaggi per lo svolgimento dei molti compiti che richiedono interazione. Queste Intranet includono anche applicazioni self-service per attività particolari.
  • La somma delle caratteristiche e delle funzioni delle Intranet 1.0 e 2.0 è ciò che caratterizza la Social Intranet: un ambiente in cui le dimensioni relazionali (supportate da tool svariati quali tagging, wiki, blog, forum, ecc.) acquistano valore strategico. Contenuti e processi sono crescentemente socializzati in seno all’organizzazione.
  • Il Digital Workplace costituisce lo stadio ulteriore che, con uno sviluppo ancora più avanzato degli ambienti partecipativi, assicura l’integrazione delle Intranet coi portali esterni dell’organizzazione. L’impresa non soltanto ottimizza la collaborazione interna ma, attraverso la creazione di ambienti sia privati che aperti, estende le applicazioni social per favorire il dialogo e l’interazione coi suoi partner e clienti.

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Se questa è l’evoluzione degli strumenti disponibili nel tempo, in realtà un’organizzazione concreta oggi può trovarsi ad attraversare l’uno o l’altro di questi stadi. Chi non è ancora arrivato a costruire il proprio Digital Workplace sta rischiando fortemente di perdere molto in chiave di soddisfazione del lavoro, produttività e forza competitiva.

L’aspetto che però ora vorremmo sottolineare è un altro. Tutti questi passaggi, per definizione, hanno luogo in ambito digitale. E il mondo fisico che ruolo ha? Invero, lo schema del nostro articolo del 2012 non lo comprendeva. Qui abbiamo aggiunto un cerchio verde (il più grande) per farvi riferimento. Il Digital Workplace si colloca, come è naturale, entro un universo fisico fatto di persone, cose e codice. Ma non si tratta solo di questo. Il fatto è che, da qualche tempo, le innovazioni più stimolanti si stanno addensando proprio nell’area di confine tra gli ambienti di collaborazione digitale più evoluti e le esperienze fisiche delle persone. Questo tema merita grande attenzione perché le forme e le conseguenze di tali intersezioni sono decisamente sorprendenti. In effetti, il confine dinamico tra digitale e fisico rappresenta nientemeno che il nostro futuro.

L’avvento del phygital

M.M.: Negli ultimi tempi il termine phygital (fusione di physical e digital) ha preso a circolare parecchio nelle conferenze, nella stampa specializzata e nel linguaggio degli addetti ai lavori. Le tecnologie evolvono rapidamente e le aziende più avanzate stanno gareggiando intensamente per creare esperienze capaci di soddisfare sempre meglio le aspettative dei loro clienti e consumatori, tanto nel mondo digitale quanto in quello fisico – e nell’interazione fra i due.

R.S.: L’evidenza si è imposta dapprima sul versante esterno delle organizzazioni: molti brand hanno capito che i consumatori di oggi vivono il digitale come estensione del fisico, e viceversa. Il rapporto Digital Trends di Microsoft del 2015 ha rilevato che i consumatori sono largamente propensi all’engagement attraverso device digitali quando questi li aiutano a muoversi più agevolmente nel mondo reale. Le marche pertanto sono alla ricerca di modi nuovi di fondere le esperienze fisiche e digitali – attraverso website, mobile, app, big data, applicazioni digitali nei punti vendita, nuove tipologie di sensori, IoT (Internet of Things), e la ridefinizione delle esperienze analogiche tradizionali – al fine di meravigliare i consumatori, soddisfarli in modo più profondo e legarli maggiormente a sé. Se i consumatori stanno diventando phygital, le marche non possono esimersi dall’esserlo a loro volta.

Gli esempi di applicazioni phygital nel marketing delle aziende si stanno moltiplicando, e alcune delle best practice sono già molto note. È phygital l’app di Nike+ Fuelband, il bracciale digitale per misurare l’attività fisica quotidiana, e connettere i propri sforzi sportivi e workout in competizioni virtuali coi propri amici, in una dimensione prettamente social. È phygital anche la Magic Wand dei Disney resort, altro bracciale digitale in questo caso collegato a migliaia di sensori e finalizzato a facilitare i Guest nel muoversi fisicamente nei parchi, informando al tempo stesso i dipendenti dell’identità e delle preferenze dei visitatori a loro vicini di modo che possano anticiparne (magicamente) le richieste. Ma chiaramente ispirate a una logica phygital sono pure le proposte di aziende come Uber, la cui app digitale consente l’incontro fisico tra conducenti e passeggeri di taxi; o quelle dei nuovi provider d’auto a noleggio quali, in Italia, Enjoy, Car2Go e DriveNow, le cui app rendono possibile trovare e gestire automobili con le quali spostarsi. Tanto più phygital sono poi le iniziative che fanno ricorso all’augmented reality: prospettiva a lungo ritenuta molto avanzata e probabilmente di nicchia, fino a quando Pokemon Go ha dimostrato che, se bene interpretate, tali iniziative sono in grado di scatenare l’entusiasmo popolare e ottenere un successo planetario.

Ovviamente phygital sono inoltre molte novità che si muovono nel campo del retail. I QR-code sono un tool digitale di larga applicazione, che permette ai consumatori di conoscere una quantità di dettagli sui prodotti che trovano nei punti vendita fisici. Già nel 2011 Tesco, come noto, aveva lanciato a Seul i supermercati virtuali per dar modo ai consumatori di fare la spesa connettendosi col cellulare ai wall interattivi piazzati in metropolitana. La tecnologia iBeacon porta questa logica un passo più avanti, identificando l’approssimarsi al punto vendita di acquirenti potenziali e consentendo di inviare loro, su smartphone, offerte e sconti speciali.

Così, molti segnali confermano che le nuove generazioni di consumatori sono del tutto pronte a cogliere l’interesse di applicazioni digitali smart, atte a ridefinire e arricchire il rapporto con la realtà fisica del mondo. I brand si stanno attivando sempre più per soddisfare queste attese. E il retail sta facendo altrettanto.

M.M.: Ma quanto tutto ciò si riflette sull’interno delle organizzazioni? E quali sono le implicazioni possibili per lo sviluppo del Digital Workplace e delle logiche collaborative?

R.S.: Per capirlo, riprendiamo il focus su questo argomento, con una semplice osservazione (che può valere anche come warning): i consumatori che si stanno abituando ai vantaggi del phygital sono le stesse persone che, in veste di lavoratori, stanno dentro alle organizzazioni e le fanno funzionare. Che cominciano ad aspettarsi e a richiedere applicazioni phygital anche sul luogo di lavoro, è solo questione di tempo.

Evoluzione dell’impresa collaborativa

Rispetto ai vari stadi di evoluzione dell’impresa collaborativa sopra menzionati, la nostra convinzione è che la Phygital Enterprise sia lo sviluppo naturale del Digital Workplace.

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In particolare siamo convinti  primariamente di tre cose:

  • che la Phygital Enterprise si definisce nel continuum dell’evoluzione delle logiche e pratiche collaborative, di cui rappresenta la tappa più avanzata
  • che la tappa precedente, il Digital Workplace, tiene al suo interno soprattutto l’articolazione delle quattro aree già presenti nella Social Intranet (Comunicazione, Conoscenza, Collaborazione e Attività), aprendo, come già notato, ai portali esterni dell’impresa
  • che la Phygital Enterprise si caratterizza invece per il fatto di fondarsi soprattutto su tre colonne portanti: Internet of Things, Big Data e Machine Learning.

Quest’ultima caratteristica è cruciale e richiede un commento. Come si è già visto citando velocemente alcuni casi di iniziative phygital sviluppate dai brand nei loro rapporti coi consumatori, per rendere davvero soddisfacenti le esperienze fisiche è necessario attivare esperienze digitali sulla frontiera dei più avanzati traguardi tecnologici. Lo stesso vale per ogni possibile iniziativa riguardante l’interno delle organizzazioni. Del resto, essendo la Phygital Enterprise evoluzione del Digital Workplace, interno ed esterno delle imprese vanno ormai considerati nelle loro continue interrelazioni reciproche.

Per chiarire meglio questo tema è utile riprendere brevemente alcune considerazioni fatte sopra in tema di algoritmi. Oggi le aziende tecnologicamente più avanzate e di maggior successo sul mercato sono quelle che: a) producono enormi quantità di dati (Big Data) che sanno interpretare e utilizzare per soddisfare sempre meglio i loro clienti; b) affinano continuamente la loro capacità di lettura dei dati col Machine Learning, ovvero con l’impiego di algoritmi intelligenti capaci di imparare dalla loro stessa esperienza per elaborare soluzioni digitali sempre più valide e appaganti; c) estendono le loro capacità di far evolvere le tecnologie digitali protendendosi sul mondo reale e ideando esperienze digitali/fisiche estremamente innovative (spesso basate sull’IoT). Esperienze che sono tanto complesse nella loro ideazione tecnica quanto semplici nel loro utilizzo da parte dell’utente finale, in virtù del loro essere assolutamente customer-centric.

M.M.: Puoi fare un esempio di come tutto questo possa applicarsi al caso della Phygital Enterprise?

Un phygital journey

R.S.: Andrea è un sales manager. In precedenza lavorava in un’azienda che aveva introdotto una Social Intranet, ma ora è molto più felice di stare in un’organizzazione che ha raggiunto lo stadio della Phygital Enterprise. Il cambiamento si sente eccome. Andrea è spesso in giro per incontrare clienti, viaggiando in macchina, treno e aereo. È una persona molto socievole e, avendo lavorato in diversi settori, ha molti amici tra i suoi colleghi.

Sono le 8.30. Andrea è pronto a recarsi in ufficio e per prima cosa, accostandosi alla sua auto, accede alla Intranet attraverso lo smartphone. Appena entrato in macchina chiede in viva voce a Jordan, il suo assistente digitale, di ricordargli gli appuntamenti del mattino. Jordan, consulta il calendario e gli risponde che il primo appuntamento è alle 11.00 al trentesimo piano nella Sala Blu. E verificando la disponibilità e l’allocazione ottimale degli spazi, aggiunge: “Per le tue telefonate del mattino ti ho riservato il modulo T35. Può andare bene?” Andrea soddisfatto risponde: “Perfetto! Grazie Jordan”.

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“E per colazione?”, chiede Jordan. “Espresso macchiato, per favore”, dice Andrea. La colazione è prenotata. Andrea intanto è arrivato al parcheggio dell’azienda. I sensori del gate, riconoscendo la sua macchina, gli suggeriscono di andare al Piano -3 e di occupare lo Spot 45 (-3T45). Mentre posteggia, sul muro interattivo lo accoglie un messaggio del sistema di Fleet Management: “Ciao Andrea! Oggi il sistema ha predisposto per te il lavaggio e l’ispezione dell’auto”.

Andrea tranquillo prende l’ascensore. Avvicina lo smartphone a un altro display interattivo che lo riconosce, lo saluta e lo porta automaticamente al piano giusto. Mentre è in ascensore, Jordan lo avverte che, per caso, anche il suo amico Marco sta andando alla cafeteria: “Vuoi fare colazione con lui?”, chiede Jordan. “Certo!”, risponde Andrea. Dopo la colazione, saluta Marco e inizia a fare le sue telefonate mentre si avvicina al modulo T35.

Nel modulo, la sua chiamata viene proiettata sul muro davanti e il profilo del suo cliente appare nell’interfaccia CRM. Sul social network della Intranet, Andrea individua agevolmente e coinvolge i colleghi che fanno parte del team sul cliente. Il suo Skype for Business segnala automaticamente che Andrea sarà occupato e non disponibile fino alle 11.00, ma resta libero di rispondere a email e notificazioni.

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Dopo le telefonate, Andrea inizia a verificare i suoi task. Il Facility Management gli segnala sul computer che c’è un cambiamento di sala. Il team che la occupa ha chiesto di poterne disporre per un’altra ora; il sistema ha approvato la richiesta e prenotato per lui un’altra sala al Piano 32.

Sullo smartphone Andrea viene informato che ha da svolgere un compito urgente. Quindi chiede a Jordan di trovare in fretta un collega esperto nel mercato assicurativo RC che possa aiutarlo. Jordan gli risponde: “Dovresti parlare con Simone Gallio. Sul tuo laptop ora c’è il suo profilo completo”. Nel sistema Andrea può verificare dove si trova Simone e se è libero di parlare. Vede che è occupato al telefono. Quando Simone ha finito la call, Andrea viene notificato che il suo collega sta andando alla sua stazione di lavoro ed è diventato disponibile. Lo chiama e riesce a portare a termine il suo task.

È tempo per il meeting. Andrea entra in ascensore e senza premere il bottone viene portato al Piano 32. Mentre sale, Jordan gli comunica di aver fissato la temperatura della stanza a 20 gradi, d’intesa con Facility Management. Andrea approva.

Il meeting in video conference con Singapore ha inizio. Lo smartphone di Andrea passa da solo in modalità silenziosa, e chi chiama riceve un update vocale automatico che informa: “Andrea ora è impegnato. Richiamalo alle 12.30. Grazie”. Le push notification di email e Whatsapp sono disabilitate. Andrea può concentrarsi sulla riunione, la cui agenda è apparsa sullo schermo, e lanciare dal suo iPhone la presentazione salvata in Cloud.

Terminato il meeting, Jordan gli suggerisce un nuovo corso formativo. “Il corso di Corporate Risk Management è ora disponibile. Vuoi seguirlo?”, chiede. “Certo, mostramelo sul desktop”. Andrea è contento perché può mettere a frutto la prossima mezzora. “Fatto – dice Jordan – clicca sul tuo desktop per lanciarlo”.

Il pomeriggio trascorre in scioltezza, con numerose altre attività sempre facilitate dal sistema. Uscito dall’ufficio Andrea riceve da HR, sullo smartphone, l’informazione che i moduli per l’iscrizione ai summer camp dei suoi figli sono disponibili online. Riempie i moduli al volo e iscrive i figli. In parcheggio trova la sua auto pulita e ispezionata, pronta per gli impegni del giorno seguente.

Le esperienze digitali e fisiche qui raccontate sono fictional, ma tutte già possibili con le tecnologie oggi alla portata di pressoché ogni azienda che decida di abbracciare le logiche della Phygital Enterprise. Non tutte le imprese ovviamente hanno grattacieli di 35 piani in cui collocare i propri dipendenti. Ma tutte possono trovare altamente vantaggioso scoprire i benefici che questo passaggio comporta.

Verso un nuovo modo di lavorare

M.M.: Nel narrare la storia di Andrea hai accennato accennato più volte al Facility Management.

R.S.: Non a caso. La prospettiva della Phygital Enterprise implica un’attenta e molto evoluta pianificazione degli spazi. Tale pianificazione deve porsi anzitutto il problema che oggi le esigenze lavorative dei dipendenti raramente possono essere risolte al meglio con la classica accoppiata sedia più scrivania, situata sempre nel medesimo ufficio. Per dare un’idea delle necessità emergenti, può servire una figura, che rappresenta quattro fondamentali modalità di lavoro.

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Lo schema chiarisce che gli spazi di un’organizzazione avanzata, che si attrezza come Phygital Enterprise, devono prevedere ambiti pensati e articolati per quattro tipologie di attività ben distinte:

  • Lavoro Concentrato-Individuale: ad esempio, scrivere in tranquillità un report ben pensato, costruito e argomentato.
  • Lavoro Creativo-Individuale: ad esempio, trovare l’ispirazione per ideare una campagna di successo nei social media, attingendo a vari stimoli e fonti.
  • Lavoro Concentrato-Collettivo: ad esempio, impegnarsi in un meeting su un tema preciso e focalizzato.
  • Lavoro Creativo-Collettivo: ad esempio, collaborare in workshop attraverso collage, metaplan, giochi di ruolo, o altri strumenti per stimolare il pensiero laterale a livello di gruppo.

Ognuna di queste modalità di lavoro richiede spazi diversi. E a seconda del tipo di lavoro da svolgere in ogni momento di ogni giorno, l’attività di un dipendente è facilitata se può muoversi da una tipologia di spazio a un’altra, trovando ogni volta gli ambienti ideali per quel che deve fare. La Phygital Enterprise non solo parte da questo presupposto, ma (come nell’esempio di Andrea) è in grado di individuare in tempo reale la situazione lavorativa ottimale per ogni dipendente e di segnalargli come raggiungerla.

I miglioramenti della condizione lavorativa che ne conseguono riguardano indubbiamente la produttività, ma molto altro ancora. Di fatto, dal punto di vista dei dipendenti, tutto questo si traduce in wellbeing. Grazie alla Phygital Enterprise ognuno risparmia tempo, energia, migliora le proprie performance e può approfittarne per fare altre cose utili alla propria organizzazione o a sé stesso. Estendendosi alle esperienze reali, in breve, il digitale semplifica la vita. Non si tratta di farsi guidare dalle macchine, ma di farsi aiutare a vivere meglio, e in questo le potenzialità delle applicazioni phygital sono illimitate e pervasive.

Nel governo degli spazi ciò comporta che le organizzazioni adottino una visione nuova. La prospettiva non è quella del telelavoro, scelta che dal punto di vista organizzativo corrisponde spesso un’abdicazione. Il vero progresso è un altro. Secondo Jacob Morgan, autore di The Future of Work (Wiley, 2015), “organizations must think of their physical spaces like software”. Quindi devono progettare spazi di lavoro flessibili, testarli, ottenere feedback, e migliorarli continuamente. Spazi connessi, capaci di assicurare esperienze phygital avanzate e massimo benessere dei lavoratori, sono le nuove condizioni della redditività.

Costruire la Phygital Enterprise

M.M.: Come fare dunque per muoversi verso la Phygital Enterprise e tradurla in realtà? Quali riferimenti e principi devono guidare questa transizione avanzata?

R.S.: La nostra risposta è su tre livelli.

A un primo livello, restano valide le indicazioni operative date nel nostro articolo sopra citato in tema di Digital Workplace. Anche per la Phygital Enterprise i passi concreti devono prevedere le fasi di a) analisi e progettazione, b) co-design e implementazione, c) lancio e coltivazione, e d) vaglio dei risultati in base a una serie ben definita di KPIs.

A un secondo livello, la natura specifica della Phygital Enterprise comporta l’esigenza di costruire un modo di lavorare che sia realmente nuovo. Per fare questo, i principi essenziali ai quali riferirsi sono quelli indicati in figura 4. Essi possono essere dettagliati come segue:

  • Come già accennato, lo spazio di lavoro della Phygital Enterprise è flessibile, e include in modo aperto soluzioni che combinano home office, mobile office, uffici temporanei per i dipendenti e i loro team fisici e virtuali.
  • Il nuovo modo di lavorare è supportato da ambienti totalmente cablati e dotati di attrezzature tecnologiche sofisticate, che garantiscono massime condizioni di sicurezza – sia per i dipendenti sia per le informazioni che vi circolano.
  • La Phygital Enterprise offre un ambiente lavorativo salutare, in cui vi è estrema attenzione al cibo, alle bevande, all’aria, alla luce, all’acustica, alle condizioni climatiche, nonché alle facilities per fare movimento, sport, per rilassarsi e per trovare il migliore equilibrio possibile tra lavoro e vita privata.
  • Al tempo stesso, la Phygital Enterprise moltiplica i valori della condivisione, trovando soluzioni di sharing intelligenti sul piano dei trasporti, dell’uso degli uffici, delle attrezzature, della documentazione e dei pareri esperti.
  • Così come è flessibile lo spazio, la Phygital Enterprise rende flessibile anche la gestione del tempo, prevedendo non solo il part time ma anche orari personalizzabili, job sharing, la settimana lavorativa compressa, il calcolo delle ore annualizzato.
  • Da ultimo, la Phygital Enterprise ha un DNA decisamente ecologico, che valorizza il risparmio energetico, il verde, il riciclaggio, la rigenerazione dei materiali e la sostenibilità.

sica4

A un terzo livello infine, e coerentemente con quanto detto finora, per costruire la Physical Enterprise, il concetto di collaborazione va portato alle sue conseguenze più avanzate. Questo non riguarda solamente i rapporti fra le persone ma anche quello fra persone e macchine, e quello delle macchine fra loro. Come nell’esempio di Andrea, l’interazione evoluta fra interfacce conversazionali (chatbot), algoritmi di AI (Artificial Intelligence), Big Data, Machine Learning, reti di sensori e Internet of Things è ciò che permette oggi alle aziende di creare esperienze di lavoro di grande vantaggio per la redditività e oltremodo soddisfacenti per chi le vive.

In breve, il futuro è già qui. L’impresa collaborativa ha raggiunto un altro traguardo. Apparati non-umani sempre più intelligenti sono pronti a collaborare tra loro e disponibili a collaborare con voi per consentirvi di massimizzare efficienza aziendale e felicità personale. Fatene buon uso.