Inventare il domani con quello che c’è oggi

Genio ed ingegno

Di cosa parliamo quando parliamo di “innovazione”? E chi sono gli innovatori? Sono dei geni visionari, delle persone con un talento speciale, individui in grado di leggere la realtà meglio di altri? Questi, fra gli altri, sono stati i temi di cui si è parlato nel corso della Biennale Innovazione. Forse, come lettura propedeutica alla migliore comprensione del tema, potrebbe essere utile riprendere qualche osservazione che facevo in uno degli ultimi editoriali scritti per Hamlet (il laboratorio metadisciplinare da cui è sorto lo Humanistic Management) ispirandomi ad un autore che i manager (e non solo loro) dovrebbero frequentare più di quanto siano abituati: Robert Musil.

Nella sua opera fondamentale, L’uomo senza qualità, ambientata nel periodo immediatamente precedente al primo conflitto mondiale, è ben presente il problema del talento, che l’autore austriaco associa al concetto di “genialità”. Già nelle prime pagine dell’opera troviamo espresse alcune perplesse riflessioni, fra cui questa: “La zoologia insegna che da una somma di individui limitati può benissimo risultare un insieme geniale”. In effetti una tale spiegazione zoologica ben si adatta a parecchie realtà aziendali, almeno all’apparenza di successo, che è difficile sostenere siano ricche di talenti (non parliamo poi di geni). La realtà è che, sostiene Musil, al giorno d’oggi non esistono più geni, ma solo uomini senza qualità: dunque l’aspirazione a divenire “uomini notevoli”, attraverso l’espressione dei propri talenti, è destinata a rimanere tale.

Questa è la rivelazione che illumina il protagonista nel capitolo 13 della parte prima, dal titolo Un geniale cavallo da corsa matura in Ulrich la convinzione di essere un uomo senza qualità. Così egli si rende conto dell’impossibilità di tradurre le sue potenzialità in atto: “A quel tempo s’incominciava già a parlare di geni del foot-ball e del ring, ma nelle cronache trovava posto tutt’al più un geniale centro-avanti o un grande tennista ogni dieci geniali inventori, tenori o scrittori. Lo spirito nuovo non si era ancora saldamente affermato. Ma proprio allora Ulrich lesse su un giornale, come il primo presagio di una rigogliosa estate, la frase <<un geniale cavallo da corsa>>. Era la cronaca di un sensazionale concorso ippico, e forse l’autore non era neanche cosciente della straordinaria trovata che lo spirito collettivo gli aveva suggerito. Ulrich invece capì di colpo l’ineluttabile concatenazione fra tutta quanta la sua carriera e quella genialità dei cavalli da corsa. Infatti il cavallo è sempre stato l’animale sacro della cavalleria, e durante la sua gioventù trascorsanelle caserme Ulrich non aveva quasi udito parlare d’altro che di cavalli e di donne; sfuggito a quell’ambiente per divenire un uomo notevole, ecco che, quando, dopo alterne vicende, avrebbe potuto sentirsi vicino alla meta dei suoi sforzi, lo salutava di lassù il cavallo geniale che era arrivato primo”.

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Va poi aggiunto che Musil, pur disperando che la genialità possa tornare a vedere la luce presso gli esseri umani, negli ultimi anni di vita tentò di offrirne una definizione concreta, che ci sembra sia utilmente praticabile anche nel contesto aziendale. Ci riferiamo a quegli abbozzi, scritti fra il 1939 e 1941, in cui Stumm e Ulrich si pongono le stesse domande a cui stiamo cercando una risposta: “La genialità… da che sidistingue? Come si trasmette? Si potrebbe evolvere meglio, se non fosse costantemente impedita? E d’altronde, è poi tanto desiderabile?”.

Ulrich prova un approfondimento filologico che lo porta ad una distinzione interessante: “La parola <<genio>> in senso militare, l’arma del genio, è venuta a noi naturalmente dal francese, come molte espressioni militari. In francese l’arte dell’ingegneria si chiama la génie; e ne derivano arme du génie, école du genie, ecc., ma con questa parola sono imparentati anche l’inglese engine, il francese engin e l’italiano ingegno, nel senso di congegno; tutta la famiglia risale al genium e ingenium della tarda latinità, parole nelle quali la gutturale cammin facendo si è mutata in palatale e il cui senso primo è l’abilità e la capacità: un’associazione simile all’arcaica espressione <<Arti e Mestieri>> che talvolta ancora ci allieta in scritti e documenti ufficiali. Di lì la strada della corruzione porterebbe anche al calciatore geniale, e perfino al geniale cane da punta o cavallo da corsa, ma sarebbe logico pronunciare questo geniale come “quel” genio. Perché c’è un altro genio e un altro geniale, che ritroviamo in tutte le lingue e deriva non da genium ma da genius, cioè il più che umano, o almeno, in omaggio allo spirito e all’animo umano, ciò che vi è più alto nell’uomo. Questi due significati furono sempre scambiati e confusi..(e così) non si sa più distinguere fra geniale e ingegnoso”.

La stessa mancanza di distinzione fra genio ed ingegno si ritrova nelle aziende: non a caso esse, in cerca di individui di talento, assumono prioritariamente degli “ingegneri” che, come ci ha spiegato Musil, molto spesso sono appunto degli “ingegni”, ovvero persone dotate di abilità, conoscenze e potenzialità specialistiche. Genio, ci spiegavano i nostri professori di italiano al liceo, è un Leopardi o un Foscolo; ingegno è un Pindemonte, apprezzatissimo dai suoi contemporanei e noto invece ai posteri solo per il celebre appellativo di “traduttor dei traduttor d’Omero” (peraltro coniato da Foscolo). In campo aziendale l’ingegno è colui che sa applicare modelli concettuali noti, pratiche accertate, procedure definite: tutto il contrario del “genio” che è, per dirla con Ulrich, “colui che trova una soluzione là dove molti la cercano invano, e fa qualcosa che non era venuto in mente a nessuno prima di lui”. Definizione che Stumm completa così: “Il genio trova una soluzione facendo qualcosa che non era venuta in mente a nessuno…In fondo, l’essenziale è che il genio affronta il proprio compito alla rovescia”.

E voi provate a fare eseguire “il proprio compito alla rovescia” ad un qualsiasi brillante, plurimasterizzato, laureato in ingegneria: salvo che non sia un giovane ingegnere “pentito” o “mutante” (ne conosciamo diversi e di alcuni ne è stata provata storicamente l’esistenza: uno su tutti, Carlo Emilio Gadda), non ci riuscirete mai. Eppure,sarebbe possibile. Ma le persone di talento che rispondono alla definizione musiliana di “genio” vengono in genere emarginate o escluse dalle aziende.

downloadParliamo di tutto questo e molto altro con  Marcella Bellocchio, Coordinatrice tematica dei contenuti e Responsabile per l’area socio-culturale ed economico di Trendlab, un progetto nato dall’Università Ca’ Foscari Venezia, grazie alla lungimiranza del Prof. Carlo Bagnoli, che ha coinvolto un team di ricercatori professionisti, esperti di tendenze sociali, culturali e tecnologiche, impegnati nell’individuazione e nell’interpretazione dei Trend globali e delle opportunità emergenti. E successivamente a progettare e realizzare la prima Biennale Innovazione a cui ha partecipato con un intervento introduttivo allo scopo di aprire le tavole di dialogo delle giornate successive.

Marcella si occupa da piu di 15 anni di trend forecasting nell’ambito del design, fashion e food; inoltre svolge un’attività di product developer in settori diversi come moda, tessile, design, vendita al dettaglio e food etc. Risiede a Londra, la sua società si chiama Mb trend forecasting services. Infine, da più di un annodirige l’agenzia multidisciplinare SurSur, a Strategic and Creative Culinary Design Agency, con l’obiettivo di portare la cultura e la convivialità del Mediterraneo su tutte le tavole del mondo. Svolge parallelamente un’attività di docenza a contratto in varie scuole di design tra Londra e Barcellona. 

 

 

Copia di Home pageM.M.: “Marcella, cosa significa innovazione per un professionista che si occupa di previsione di trend?”

M.B.: “L’innovazione non è un prodotto ma è un processo che conduce lentamente ad un prodotto migliore. Investiamo molto in R&D e creiamo quello che viene comunemente chiamato innovazione incrementale, ossia miglioriamo le prestazioni di un prodotto esistente di cui siamo certi esista un mercato. Tempo fa ho letto un interessante post su Sardegna Impresa che definiva l’innovazione così: “L’innovazione è aderire alla realtà che cambia. Un nuovo prodotto introdotto sul mercato, un nuovo processo produttivo, un nuovo materiale utilizzato, una nuova tecnologia, una differente organizzazione interna, una nuova modalità di comunicare con il proprio cliente, una nuova modalità di vendere il proprio prodotto”. Questo ci mette in grado di usare nuovi paradigmi d’intervento che non consentono solo risultati attesi, ma risultati inaspettati, e che di conseguenza siano in grado di cambiare le cose.

 

Oggi dobbiamo parlare di maturità dell’innovazione nel business. Non c’è infatti vera imprenditorialità senza capacità innovativa. Così, in un momento di difficoltà, saper innovare significa saper cogliere le tante sollecitazioni – spesso minime – per rispondervi in modo nuovo. Se non addirittura anticipare gli scenari futuri per cominciare a preparare oggi le risposte ai bisogni di domani”.

M.M.: Tuttavia il concetto di innovazione come capacità di aderire alla realtà che cambia ha suscitato come ricorderai diverse reazioni durante le conversazioni svoltesi alla Biennale Innovazione. Alcuni non si sono riconosciuti in questa definizione perchè ritengono che innovare significhi anticipare o in qualche modo influenzare il cambiamento della realtà, non semplicemente “aderirvi”. Forse identificherebbero coloro che si possono definire in base a  questo concetto con gli “ingegni” di Musil. Mentre un “genio” come  Steve Jobs non ha “aderito alla realtà” ne ha inventata una nuova. Eugenio Perazza non ha aderito alla realtà del design di 40 anni fa, ha inventato con Magis un modo nuovo di pensare e realizzare il design e anche un nuovo concetto del “Made in Italy” (vedi post relativo). Cosa rispondi a queste obiezioni?

M.B.:”Aderire alla realtà significa essere in stretto contatto con la realtà. Rifacendomi proprio all’intervista di Perazza/Magis riporto – “Le idee non cascano dal cielo. Nascono al contrario da una profonda immersione nella conoscenza presente.
Dal farla propria intensamente fino a viverci immersi. Dal rivoltare infinitamente i problemi aperti, provare tutte le strade e poi ancora tutte le strade e poi ancora tutte le strade”.

Non so cosa Perazza/Magis intendesse per “conoscenza presente” se non che tutta la conoscenza del passato potrà meglio risolvere i problemi del presente e la conoscenza del presente può anticipare il futuro.

Lo sintetizzerei cosi: memoria e innovazione, conoscenza e proiezione.

Sarebbe come a dire: parliamo di un progetto che attualizza parte del possibile e, contemporaneamente, crea un nuovo possibile, esprime quindi la realtà come riferimento ma anche la possibilità evolutiva della stessa. Nel progetto, in questo caso, di design, intercorrono passato, presente e futuro. L’innovazione oggi deve viaggiare in una dimensione temporale in grado di sintetizzare le tre dimensioni del tempo – passato, presente e futuro, senza vederle fluire in sequenza lineare quanto piuttosto coesistere in un’unica dimensione.

Il presente si dilata nel passato attraverso la memoria e nell’avvenire attraverso l’attesa, la previsione, l’anticipazione. Il progetto di design credo sia uno strumento imprescindibile di comprensione e d’interpretazione del suo tempo. Allo stesso modo, le azioni di previsione e anticipazione sono limitate alla lettura di un futuro che ci consente di operare con maggiori informazioni sulle potenzialità – opportunità di trasformare il presente.

Un concetto circolare è racchiuso nella definizione “innovare è aderire alla realtà”. In ogni fase di un progetto, di design in questo caso, la finestra temporale riguarda il presente, cioè esprime l’attualità delle interpretazioni e delle decisioni, la valutazione critica del passato e la previsione del futuro possibile.

Vorrei aggiungere un’ultima avvertenza sul termine “aderire alla realtà” la qualità dei risultati dipenderà dall’intelligenza critica con cui i responsabili del processo sapranno, da una parte, gestire i molti fattori del processo stesso e dall’altra individuare le parti variabili, gli elementi che determinano la sua flessibilità, la sua adattabilità alle richieste future. Progettare design è decisamente un compito difficile oggi rispetto ad un obiettivo di sostenibilità. Ciò che rende duraturo un oggetto è la qualità del progetto. Aderire alla realtà significa aderire ai vari processi di modificazione che stiamo vivendo.

Vorrei per terminare la risposta aggiungere come l’Azienda Apple definisce innovazione, definizione che si trova direttamente sulla sua pagina web: “Innovazione è inventare il domani con quello che c’è oggi. L’innovazione è guardare avanti. Ma anche in tutte le altre direzioni. L’innovazione è un segno distintivo non solo dei nostri prodotti, ma anche dei nostri processi. E crediamo che sia nostro dovere lasciare un mondo migliore di come l’abbiamo trovato. …. Perché vogliamo che realizzare i nostri grandi prodotti abbia l’impatto più piccolo possibile sull’ecosistema del pianeta. … Prestiamo sempre grande attenzione all’impatto dei nostri prodotti sull’ambiente, perché sappiamo che va ben oltre la fine del loro ciclo di vita utile. Per questo quasi tutti i prodotti Apple sono realizzati con materiali altamente riciclabili, come l’alluminio; ed è anche il motivo per cui facciamo tutto il possibile per evitare di impiegare sostanze tossiche”.

 

Copia di Apple - Ambiente

Possiamo quindi parlare di innovazione all’interno di un’azienda quando lanciamo un nuovo prodotto sul mercato, quando usiamo un nuovo processo produttivo o quando impieghiamo un nuovo materiale, introduciamo una nuova tecnologia o una differente organizzazione interna, quando ci affidiamo a una nuova modalità di comunicare con il nostro cliente o una nuova modalità di vendere il nostro prodotto. Saper innovare significa saper cogliere le tante sollecitazioni – spesso minime – per rispondervi in modo nuovo. Aderire alla realtà che cambia è oggi una strategia vincente per lo sviluppo futuro.  Apple propone un uso efficiente delle risorse, considerando nella progettazione dei suoi prodotti anche una migliore gestione dei rifiuti, la progettazione dei suoi oggetti non lavora più sul concetto di Eco Iconic, ma bensì tiene conto del concetto di Eco Embedded, perché il riciclaggio da una mano a rendere l’attività umana più sostenibile.

Chi progetta aderendo alle circostanze che cambiano conosce il bisogno e la capacità di affrontare le questioni ambientali, sociali legate alla governance.

Aderire alla realtà significa conoscere i grandi movimenti globali che influenzano il pianeta, anticipare gli scenari futuri per cominciare a preparare oggi le risposte ai bisogni di domani.

Termino ricordando i Megatrend presentati nel documento Time to Change di TrendLab:

Urbanizzazione

Cambiamento demografico

Tecnologia senza eccezione

Una nuova fase della globalizzazione

Sviluppo sostenibile

Mobilità del futuro“.

M.M.: “C’è chi sostiene che non c’è nulla di più difficile che fare delle previsioni, specialmente se riguardano il futuro. E’ tuttavia possibile?

M.B.: “Esistono strumenti al servizio delle imprese in grado di supportare il processo di identificazione di nuovi business e di selezione delle tecnologie maggiormente promettenti per la realizzazione di prodotti innovativi in grado di rispondere alle future necessità dei mercati.

Sul Vademecun dell’innovazione di CDO si legge “L’innovazione guarda al futuro. Spesso, non soltanto al futuro prossimo: nel caso di innovazioni radicali, come la progettazione di un prodotto interamente nuovo, occorre tenere in considerazione che l’idea nata oggi sarà chiamata a confrontarsi con il mercato tra 24 / 36 mesi, le cui condizioni potrebbero essere assai differenti dalle attuali. L’innovazione richiede la “vista lunga”, la capacità di guardare ai fenomeni del presente con lo sguardo puntato alla loro possibile forma nel medio-lungo periodo.

Ciò che va inquadrato, quanto meno nelle sue linee più importanti, sono gli “scenari” futuri con il quale l’innovazione dell’azienda dovrà confrontarsi. Non si tratta di prevedere magicamente il futuro: gli scenaristi non hanno la sfera di cristallo! Sono in grado tuttavia, una volta individuati nel presente i fenomeni che incideranno nel mediolungo periodo, di immaginare la forma che essi potranno assumere nel corso del tempo e le conseguenze di tali fenomeni in un determinato ambito.

Un esempio: il dato attuale fa registrare nell’Europa occidentale un calo della natalità, accompagnato da un progressivo innalzamento dell’aspettativa di vita delle persone. Questi due dati, proiettati nel 2040, mostrano uno scenario che gli esperti di sociologia definiscono “inverno dell’Europa”, ossia un innalzamento dell’età media della popolazione e di conseguenza della percentuale di abitanti con più di 65 anni di età. Calato nel contesto italiano, uno degli stati maggiormente investiti da questo fenomeno, emerge come il 25% della popolazione (vale a dire 1 abitante su 4) già nel 2020 avrà più di 65 anni”.  

M.M: “Cosa significa questo dato per un’impresa? Un calo della natalità, accompagnato da un progressivo innalzamento dell’aspettativa di vita delle persone?

M.B.: “Un cambiamento così rilevante nella struttura della popolazione avrà effetti significativi sul sistema sanitario, che dovrà essere ripensato, sul sistema pensionistico, sul sistema economico e di sicuro sul mercato. Un’impresa che sta valutando un’innovazione di prodotto può riflettere sulle possibili implicazioni di questo dato nel suo progetto, cercando di sfruttare le potenzialità che questo “nuovo contesto” porta con sé, così da proporre sul mercato prodotti o servizi che intercettino i bisogni di questa larga fetta di popolazione” (Fonte: http://issuu.com/saccone.m/docs/vademecum_innovazione/19).

Facciamo un esempio, durante un seminario tenutosi alla New School di New York, il premio Pulitzer Jarred Diamond, il suo libro più noto è The World Until Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies?, mette in discussione alcune idee tradizionali, per esempio: “Con quale frequenza ci capita di vedere pubblicità in cui compaiono persone anziane che si divertono con una lattina di birra in mano?” Parliamo qui di una nuova concezione della vecchiaia.

Getty images

Come sottolinea Jarred Diamond  “i marchi che si sforzeranno di raggiungere un pubblico di età matura, e nel modo giusto, guadagneranno una credibilità e un rispetto spropositati”. Taco Bell sfrutta immediatamente quest’idea. Lancia al Superbowl del 2013 questa pubblicità:

 

L’allungamento della vita in generale e in particolare per i Paesi emergenti, unito all’aumento della disponibilità di reddito delle famiglie farà crescere la domanda di “benessere” salute, wellness, qualità della vita, gestione del tempo libero. Dovremo pensare alla creazione di una vera e propria personalizzazione di prodotti pensati specificatamente per questa fetta di mercato.

Leggiamo sempre sul Vademecum dell’Innovazione:“Un altro esempio, con effetti trasversali sui diversi settori merceologici, è rappresentato dai fenomeni ambientali e climatici: la necessità di far fronte a possibili crisi idriche e assicurare un futuro energetico cercando fonti alternative al petrolio delineano uno scenario che mette in discussione radicalmente non solo l’anima “ecologica” dei prodotti, ma anche molti dei processi produttivi tradizionali. Le innovazioni di processo e di prodotto non potranno quindi prescindere da queste nuove esigenze. Per essere competitive su un mercato che è lecito presumere diventerà sempre più sensibile a questo tema (non soltanto in termini di coscienza, ma in termini di riconoscimento del valore, quindi di business) le imprese dovranno gettare lo sguardo oltre la contingenza attuale e considerare lo scenario a 10 o 20 anni”.

M.M.: Nel mio intervento alla Biennale Innovazione ho proposto di leggere i cambiamenti demografici in atto non come portatori di una sempre maggiore separazione fra le generazioni, ma al contrario come un loro avvicinamento grazie alle incredibili possibilità della connettività. Sei d’accordo anche tu sul fatto che stiamo assistendo all'”alba della generazione C”?

Ti rispondo utilizzando un post di Veronica Gentilini che parlando di futuro del business dice “… lascia che ti presenti la Generazione C …… nonostante i pareri siano discordanti e alcuni esperti parlino di Generazione C riferendosi ai nati tra il 1982 e il 1996, io credo che sia un concetto legato alla modalità di connessione ed espressione che niente ha a che vedere con l’età.

La Generazione C crea e condivide contenuti attraverso il Web, è parte attiva nelle varie community, esprime opinioni e racconta le proprie esperienze attraverso i media digitali:

in questo panorama l’età diventa un fattore anagrafico insignificante a fronte di uno stile di vita e connessione che può essere abbracciato da chiunque, ovviamente facilitato nella “padronanza del mezzo” da parte dei nativi digitali.

Stiamo parlando di una generazione connessa, comunicativa, contenuto-centrica e altamente egocentrica, che ben si racconta in quel contatto che probabilmente hai e che ha un bisogno continuo di scrivere, postare e commentare ciò che fa e che pensa, quasi fosse un lavoro a tempo pieno”.

La generazione C è quella che decide e deciderà sempre più le sorti dell’ecommerce e del commercio tradizionale: la sfida del business dei prossimi anni consisterà proprio nel fornire esperienze soddisfacenti a tale categoria di “cosumattori“

I due principali fattori che alimentano questa tendenza sono:  1) Le spinte creative che ogni consumatore possiede innegabilmente. Ci sentiamo tutti artisti, ma fino ad ora non abbiamo avuto il coraggio né i mezzi per “uscire”.  2) I produttori di strumenti per il contenuto-creazione inesorabilmente ci spingono a scatenare la creatività, con – ovviamente – i loro sempre più economici, e sempre più potenti gadget e aggeggi.

Invece di chiedere ai consumatori di guardare, ascoltare, giocare, di consumare passivamente, la gara aperto verso il futuro è per ottenere la loro collaborazione nel creare, produrre, e partecipare.

Aggiungo concludendo, e se in futuro nascesse la Generazione dS? Ossia di Senso, dove a parte l’età, il sesso e le condizioni economiche, il senso delle cose diventasse uno dei fattori che consentono immediatamente e semplicemente di fornire indizi utili per la classificazioni di carattere generale?” 

M.M.: “Scenari futuri? Da cosa sono determinati?”

M.B.: “Elementi di diversa natura. Fenomeni politici, fattori economici, trend sociologici e di consumo, dati relativi alle risorse prime e all’ambiente. Accanto a questi, lo sviluppo della scienza, della tecnologia, le nuove scoperte del mondo della medicina, della farmaceutica ecc. Si pensi al dirompente impatto che hanno avuto sul mercato le capitali scoperte scientifiche dei secoli scorsi: la pila di Volta, i vaccini, il telefono, internet; oggi, realtà come Facebook e Wikipedia hanno generato nuove e immense opportunità, ma al contempo hanno portato all’invecchiamento e alla fine di altri prodotti che sembravano essere destinati all’eternità.

Senza titolo

Uno sguardo a 360° che considera a tutto tondo la tecnologia, l’Intelligenza artificiale, la salute e il benessere, la medicina, i cambi demografici, il business, l’educazione, l’energia, la robotica, le telecomunicazioni, i trasporti e i viaggi e molto altro ancora, insomma etcetera possiamo dire.

Non ci sono ricette infallibili: proprio perché la ricerca è rivolta al futuro, l’innovazione accetta di correre dei rischi. Ci sono tuttavia degli strumenti per monitorare il mercato e le sue possibili direzioni future. Tra questi: Le ricerche di mercato relative a un determinato settore merceologico, con previsioni a 3-5 anni; – Le indagini brevettuali, per determinare lo stato dell’arte e valutare le principali direzioni della ricerca; – Gli scenari prospettati annualmente da aziende oppure Centri di Ricerca afferenti alle università o a istituzioni privati.

Conoscere gli scenari globali è utile per calibrare al meglio la strategia di sviluppo dell’azienda e valutare la coerenza tra l’idea maturata e le esigenze future del mercato”.

M.M.: “Parlavi di maturità dell’innovazione nel business, di cosa si tratta?”

M.B.: “Tre sono i concetti che possono aiutare a capire meglio cosa significa maturità dell’innovazione nel business – Innovazione, Persone e Passione. E qui mi rifaccio al Manifesto dell’Innovazione umanistica di E. Murelli – V. Marcolongo  che mette l’uomo al centro dell’innovazione in tutte le sue dimensioni (creatore, imprenditore, cliente, portatore di interessi) mutuamente interdipendenti, e cito testuali parole del manifesto – “L’Innovazione è la pratica del creare valore attraverso i cambiamenti che risolvono una disarmonia. Pratica vuol dire apprendere attraverso l’osservazione, l’intuizione e l’esperienza usando analisi razionale ed intelligenza emotiva. Poiché l’innovazione dipende dal percorso, può essere affrontata solo attraverso una pratica. Pertanto, non è possibile una ricetta unica, così come non c’è un’unica soluzione che vada bene per ogni problema. L’innovazione senza creazione di valore non è innovazione: la creatività è solo una parte del viaggio dell’innovazione, spesso nemmeno la più importante, e non è sempre presente.

Superare la resistenza al cambiamento è il fattore più importante perché l’innovazione possa realizzarsi. Percepire la disarmonia è il punto di partenza di ogni innovazione. Disarmonia non è solo disequilibrio e inadeguatezza ma anche risorse inutilizzate, stati di sovraeccitazione ed ansia di espandersi in territori inesplorati. Le persone sono al centro dell’innovazione. L’innovazione è un lavoro per persone con una forte passione per l’esplorazione, che si trovano a proprio agio nell’indefinito e capaci di navigare tra emozioni contradditorie. L’Innovazione è rivolta a persone chiamate clienti. Quando l’innovazione è miglioramento continuo, il valore per il cliente si consegue ascoltando la sua voce e i suoi bisogni attuali. Quando l’innovazione cambia le regole del gioco, il valore per il cliente si consegue percependo le opportunità ed immaginando nuovi concetti che vanno oltre i bisogni attuali del cliente. L’adozione dell’innovazione è una questione sociale che richiede alla comunità di cambiare comportamenti e competenze (cosa si fa) fino a cambiare i valori (cosa si è)”.

M-M.: “Le persone dunque al centro dell’Innovazione. Parliamo anche di un nuovo consumatore?”

M.B.: “Ogni impresa, per essere competitiva, è chiamata a fare i conti giorno dopo giorno con la realtà che la circonda, soprattutto è chiamata a guardare al mercato. Questo significa fare attenzione ai bisogni dei propri clienti, alle risposte che il mercato sta loro offrendo, alle possibilità ancora inesplorate. Oggi, appare chiaro che nel mondo ha smesso di esistere un centro unico della creatività. Le tendenze non hanno più una direzione o un senso ben definito, l’immaginario globalizzato interagisce in maniera serrata con la nostra vita e partecipiamo tutti alla ricerca di nuove tendenze. Alcune agenzie di marketing hanno iniziato da tempo a distinguere le nuove linee del rapporto tra prodotto e consumatore. L’agenzia francese Tribeca, che pubblica l’influente blog Marketing-alternatif.com e che non si definisce come semplice agenzia di marketing, bensì come autentico outsourcing per le strategie delle aziende, è salita alle cronache nel maggio 2010 esponendo a Parigi, al Centre Pompidou, il più grosso Blackberry del mondo. Si trattava di una campagna pubblicitaria interattiva. La parola d’ordine era semplice: “Dite quello che vi piace fare grazie al BBM 5.0”. La modalità partecipativa e comunitaria era messa in pratica invitando i passanti a esprimersi via Facebook o via Twitter affinché i loro messaggi fossero ritrasmessi, in tempo reale, sullo schermo del telefono in formato XXL.

Nel panorama attuale dei consumi, così saturo e ipersegmentato, cosciente dell’impatto ambientale che fa di ogni singolo prodotto un verdetto sul futuro del mondo, risulta fondamentale uno sguardo ampio che sappia abbracciare le mutazioni dell’ambiente e insieme delle tecnologie, delle aziende e dei consumatori. Questi ultimi hanno smesso da tempo di costituire una massa neutra, in attesa che la pubblicità risvegli in loro desideri e bisogni. Nel mercato del XXI secolo il pubblico che riceve un messaggio lo ritrasmette modificato, aggiungendo a esso nuovo valore. Il consumatore del presente non cerca tanto il possesso quanto l’esperienza. In sintonia con l’incertezza dei tempi, non vuole più consumare bensì sperimentare.

Facciamo alcuni esempi. Esiste un consumatore dallo stile di vita transitorio, eco-consapevole e poco incline agli impegni di lungo respiro. Il termine che lo designa, transumer, è stato coniato per la prima volta dall’agenzia britannica Fitch Consultancy per indicare il consumatore che acquista in luoghi di passaggio come le aree commerciali degli aeroporti, consumer-on-transit, ed è poi passato a definire una categoria più ampia di consumatori che guardano all’esperienza quotidiana proprio come un viaggio continuo, con le sue occasioni e la sua necessità di “tenersi leggeri”. Siamo di fronte a una classe di consumatori urbani, tra i 25 e i 40 anni, assai distanti dall’attitudine acritica del vecchio cliente. Le idee politiche ed etiche del transumer si riflettono nel suo tempo libero, nel suo frigo, nella sua casa e ovviamente nei viaggi. Negli Stati Uniti esistono gruppi di transumer che per questioni ecologiche affittano ogni genere di bene e non acquistano quasi più nulla: dai gioielli alle piante esotiche, ai mobili e persino agli oggetti d’arte.

L’idea del non-possesso riassume bene la filosofia del consumatore transumer.

Quello del transumer non è un caso isolato. Esiste il trysumer, compratore immune ai richiami della pubblicità, che si affida all’esperienza diretta e sa trovare le informazioni che gli interessano: non compra un prodotto prima che lo abbia già provato qualcuno di sua fiducia o prima di averlo seriamente confrontato con altri prodotti. Ecco poi i twinsumer, che cercano in rete altri consumatori con gli stessi gusti di musica, abbigliamento o viaggi, in grado di consigliare il motivo per cui questi jeans sono migliori di altri… Il mall virtuale yub.com premia con uno sconto l’acquirente online che porta un amico. Se dal mondo del consumo passiamo al mondo delle relazioni personali, ci imbattiamo nei portali che invitano al rate before you date. Daterate.net è solo uno dei siti a sposare la formula: controlla i commenti in rete sulla persona con cui vuoi uscire, e metti a tua volta un commento dopo l’appuntamento. Questo passaggio di modalità dall’esperienza dei consumi a quella degli incontri non è che un esempio di cambio di scenario per una stessa necessità di informazione. Per le persone, oggi più che mai, essere disinformati è poco prudente.

Nel libro Second-Hand Cultures un piccolo classico delle analisi delle estetiche e dei consumi, gli autori Louise Crewe e Nicky Gregson mettono a fuoco una trasformazione nel rapporto tra persona e consumatore. Person as consumer: ogni distinzione tra persona e consumatore tende a cadere e le interazioni tra produttore e consumatore, che un tempo erano poche e isolate, diventano invece un fatto necessario, previsto, sistematico. Sono i consumatori ad avere il potere di ridefinire innovazioni e mercati.

Crewe e Gregson parlano di un consumo entusiastico nella dimensione della rete. Qualunque sia il desiderio, qualunque sia l’oggetto di una ricerca, il primo luogo dove cercarlo è la rete. Ma parlano anche di una nuova fusione tra le imprese e i consumatori nel processo creativo, di produzione e di promozione. Una dinamica che gli autori definiscono come cultural mixture ovvero un impasto culturale”.

M.M.: “Oramai parliamo di un futuro tutto on-line?”

M.B.: “Il web risulta una piazza ideale per coinvolgere il consumatore nella fase creativa e di produzione, tanto da poterlo definire quasi come un coautore del prodotto e delle modalità di consumo.

Il 20% dei grandi negozi diventeranno digitali o si trasformeranno in magazzini. A Londra, ad esempio, c’è un Future Digital Showrooms che espone un numero ridotto di auto, il resto è completamente digitalizzato. Nelle pareti del negozio sono esposti grandi pannelli digitali dove si possono vedere le auto che mancano in sede, in una proiezione tridimensionale. Ci troveremo in una giungla artificiale, tutto questo comporterà un nuovo mondo di cui ora riusciamo a cogliere appena i contorni.

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Ma di fronte agli effetti ambigui del frullatore globale e di una esasperata cultura dell’innovazione, la rete impara a piegarsi verso esigenze più personali. Ecco allora che il futuro si presenta come one-line molto più che online: ogni utente tende a creare la sua rete, la sua personale line.

Internet non corrisponde più a una dimensione a parte, quanto a un impasto senza stacco tra mondo connesso e disconnesso. L’utente porta in rete la realtà della sua vita e l’universo virtuale si sta convertendo in una manifestazione 3D, sempre più veritiera, della vita che ci mettiamo dentro e che vogliamo comunicare. Inoltre, il consumatore afferma in modo inequivocabile il desiderio di un servizio veloce, facile da attivare con la punta dei polpastrelli, e in questo senso internet sta venendo incontro alle aspettative.

Nel settembre 2010 la rivista tecnologica Wired, tra le più autorevoli del pianeta, ha pubblicato un articolo il cui titolo annunciava: “The Web is dead. Long live the Internet”. Il World Wide Web tramonta di fronte all’uso di servizi come Skype, le mappe e i sistemi di geolocalizzazione, i social network consultati dai dispositivi mobili, e alle centinaia di migliaia di diverse apps, applicazioni. Siamo ormai un’app. culture, lunga vita a internet: questo il provocatorio messaggio di Chris Anderson, direttore della rivista – “Ti svegli e senza alzarti dal letto controlli la mail sul tuo iPad. Stai usando un’app, un’applicazione. Durante la prima colazione dai un’occhiata alla tua pagina di Facebook, su Twitter, e alle ultime notizie sul New York Times. Sono tutte app. Idem quando in auto ascolti musica dal tuo iPod o dall’iPhone, poi in ufficio usi Skype per telefonare a un amico dall’altra parte del mondo”.

Alla fine, la giornata sarà spesa usando Internet ma non più la rete aperta, libera. Diventeremo i frequentatori, come dice Chris Anderson, di tanti giardini chiusi. “The future is less about browsing and more about getting”.

M.M.: “Quali sono a breve termine il futuro delle scelte, degli impulsi, dei consumi?”

M.B.: “Si tratta di leggere l’oggi per capire in che direzione andrà il futuro. Per capire ciò che la gente sta cercando non ci sono strade uniche, non si tratta di scienza missilistica né di possedere per forza chissà quale miracolosa intuizione. Essere capaci di ciò che gli anglosassoni chiamano serendipity: riconoscere la bellezza e l’interesse di ciò che si trova anche casualmente. Ma per riconoscerlo bisogna avere un background, uno sguardo allenato. Si tratta di essere, quindi, aperti con metodo.

È altrettanto importante ricordare che a ogni tendenza corrisponde necessariamente una contro-tendenza. Gli acquisti online sono il futuro del commercio. Entro fine anno il commercio sul web varrà 2.100 miliardi di dollari in tutto il mondo. Solo in Europa coinvolge 230 milioni di persone ed è destinato a crescere grazie alla mobile economy.

L’e-commerce è senza dubbio in piena espansione, eppure l’acquisto al dettaglio nel mondo reale è lontano dall’essere morto. Tanto online quanto off-line, i consumi sono in continua innovazione e tendenze e contro-tendenze non smetteranno di susseguirsi.

Ci sono molti modi con cui si può integrare l’offline con l’online, secondo una ricerca condotta di Birds Eye 52% delle persone fotografa il proprio pasto, l’11% lo fa almeno una volta alla settimana, il 9% una volta al giorno e secondo Webstagram ci sono, a partire dal maggio 2013, 90m di immagini su Instagram con # alimentare. Vediamo l’esempio di Birds Eye che ha aperto un ristorante pop-up dove gli ospiti pagano il loro pasto scattando una foto e condividendola su Instagram, come parte di una campagna digitale per promuovere la sua nuova gamma di pasti serali premium”.

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M.M.: “Il ritorno delle storie quindi?”

M.B.: “L’immensa libertà di movimento della rete è alla base di nuovi modelli di interazione, di consumo e di definizione delle tendenze.

Al tempo stesso questa libertà disorienta, innescando nuove esigenze di privacy e di personalizzazione. Lo stesso disorientamento è provocato dal turbine dei cambiamenti sociali: cambiamenti impetuosi e legati all’urbanizzazione, alla liberalizzazione dei costumi, all’espansione di nuove classi medie. Tanto più il mondo intorno a noi cambia, tanto più cresce la necessità di raccontarsi.

Trasferendo questa necessità nel marketing: il c’era una volta, la storia dei prodotti e degli stessi consumatori, rappresenta la vera rivoluzione. Non parliamo di buzz-marketing o di passaparola, parliamo delle pure e semplici storie dei prodotti, di consumatori che raccontano la loro storia.

Un caso emblematico di questa filosofia è il programma doleorganic.com, che consente ai consumatori di viaggiare all’origine di ogni prodotto biologico. Digitando nella pagina web di Dole il farm code che si trova sull’etichetta di ciascun frutto, i clienti possono vedere la storia che c’è dietro il prodotto. Ogni sezione dell’azienda sul sito web contiene informazioni di sfondo, mostra le foto delle colture e dei lavoratori, e racconta ai consumatori qualcosa in più circa l’origine delle banane e degli altri frutti biologici di Dole. Così come un uomo racconta la sua storia, un prodotto racconta il suo percorso.

Un altro esempio originale è One sheep sweater. Il brand di maglieria di qualità STORMI, del designer olandese Christien Meindertsma, fornisce ai clienti tutti i dettagli dell’animale che ha fornito la lana per il suo maglione o per i suoi guanti. Dalla promozione di una marca basata sulla brand image a una basata sulla brand story. Ecco che gli strumenti per evidenziare le scelte e le strategie di un brand sono anzitutto gli strumenti della sua narrazione, dove le storie dei prodotti possono nascere ad hoc oppure essere prese in prestito dalla memoria collettiva, dalla letteratura, dalla storia dello spettacolo o dello sport, dalla cronaca o da chissà dove. Poco importa, ciò che conta è che il consumatore vuole raccontare la propria storia e chiede che i prodotti raccontino la loro”.

M.M.: “Innovazione a 360 gradi mi pare di capire (prodotto, processo, canali di vendita, brand, comunicazione, …)?”

M.B.: “Si, una innovazione che parte dal rapporto con il cliente, che semplifica radicalmente l’impresa, che dedica grande attenzione alla qualità e alla customer satisfaction, ed infine un’ innovazione sostenuta dalle ICT. Siamo tutti coinvolti nel pieno di questi fenomeni, si tratta di una sfida a tutti i livelli che chiama in gioco, oltre alla capacità e alla volontà di innovazione proprie o meno del dna aziendale, anche i livelli di conoscenza e la relazione fra persone che, molto di più che in passato, sono singolarmente al centro di questa rivoluzione. Di fronte a una tendenza bisogna anzitutto capirne la motivazione bisogna individuarne i fattori determinanti, ovvero ciò che ha prodotto la necessità del cambio. Capire il perché qualcosa si sta muovendo significa poter ipotizzare la direzione in cui si muoverà in futuro. Fondamentale in questo senso è il concetto di unlock. Dietro ogni nuova tendenza c’è una chiave, qualcosa che ha sbloccato un desiderio e messo in moto le cose. L’unlocker può corrispondere a un mutamento di mentalità, una trasformazione sociale, una svolta tecnologica, un aumento delle prospettive nella vita di un gruppo di persone. Dietro il successo del passaparola in rete c’è il bisogno di controllo da parte del consumatore: di fronte a un mercato vasto e dispersivo, aumenta l’esigenza di disporre di informazioni utili e distinguere i prodotti più adatti a sé, grazie alle raccomandazioni degli amici. L’unlocker, il nuovo assetto che ha permesso lo sblocco di questa aspirazione, è stata l’improvvisa disponibilità di spazi di discussione sui forum e in seguito sui social media.

La necessità di individuare la chiave di ciascun fenomeno richiama l’uso del punto di vista. Adottare un punto di vista significa ad esempio comprendere che 1 + 1 non fa sempre 2. L’addizione viene vista in termini aritmetici o grafici? Nel secondo caso, 1 + 1 non può che fare 11. Per concludere mi rifaccio alla tua prima domanda, usando nuovamente le parole del vademecum dell’innovazione “….. questo ci mette in grado di usare nuovi paradigmi d’intervento che non consentono solo risultati attesi, ma risultati inaspettati, e che di conseguenza siano in grado di cambiare le cose”.