Il faccia a faccia tra Scientific Management e Duepuntozerizzazione si era chiuso, nella precedente «puntata» del nostro dialogo a tappe con Nicola Palmarini lungo le rotte disegnate dal suo Boomerang, con una considerazione in parte amara, in parte in grado di intravvedere una via di uscita, sull’uso che la tecnologia, certa tecnologia, può fare delle «nostre» storie.
Ripartiamo dunque da qui, Nicola, dalle storie, soprattutto da quelle di coloro che sembrano essere stati capaci di agguantare il boomerang e controllarne la traiettoria vs chi di questa traiettoria è rimasto vittima.
Idiosincrasie
MM. Nel tuo libro la contemporaneità si srotola come di un film horror la pellicola (direbbe Paolo Conte), in cui ogni tanto, per motivi non ben chiari, emerge qualche eroe solitario tipo Brad Pitt in World War Z. Si tratta solo di idiosincrasie e simpatie o c’è dell’altro? Perché Massimiliano Banzi e la sua «geniale creazione Arduino» è buono e invece Cesare Cacitti (13 anni) che costruisce stampanti 3D è cattivo? Perché Roberto Bonzio è buono e la maggioranza dei blogger (quorum ego?) sono cattivi? Solo per il gusto dell’allitterazione: Banzi, Bonzio, Bonvi (altro arruolato fra i «buoni»…) ? Ed è un caso che, se ti capita di citare un economista, scegli uno che si chiama Stephen King («capo economista del gigante HSBC»)?
NP: Be’ assonanza del tutto casuale o forse no. Allora per venirti dietro dico che nel libro c’è un capitolo che si intitola «Piano B» e nella tua lista ci sarebbe da aggiungere la «b» di Branson! Però visto che facciamo i cognomi è giusto chiarire.
Anzitutto Bonzio non è un blogger. A parte questo non sono certo contro i blogger, non credo di averlo mai scritto. Dico «Bonzio sì» (e come per lui lo dico di centinaia di altri: a chiunque incontri raccomando di default, ad esempio, il blog di Roberto Venturini che, pur non c’entrando nulla con il discorso che stiamo facendo qui, resta una fonte inesauribile e ponderata di spunti e riflessioni sull’interazione uomo-marca) perché Bonzio è uno che si è messo in gioco: ha mollato tutto e ha fatto della sua idea la sua professione, perché mi piace il suo stile di cercare la notizia, positiva, di italiani che ce la fanno e ce l’hanno fatta (e ce la faranno) senza l’enfasi di dire start-up ogni due per tre, parlando invece di impresa e di lavoro e di storia (e non solo di «storie»). C’è un’origine e una consapevolezza, come dire… «contadina» nel suo racconto, che trovo importante per interpretare la differenza tra che cosa forse sia giusto e che cosa invece lo sembri.
Se poi proprio dovessi dire «blogger no», lo dico quando mi imbatto in quelli che insegnano a qualcuno (che vuole farsi insegnare più che imparare) che un blog lo devi aggiornare con una periodicità quotidiana e poi diventano vittime della loro stessa lezione obbligandosi a riempire la rete di banalità che intasano i server e il cervello di qualcun altro. La frequenza è spesso nemica della qualità, per restare tra i blog sono davvero pochi i Mantellini in giro capaci della profonda leggerezza quotidiana.
Dico «Banzi sì» (qui invece non ci sono tanti come lui) perché la sua è una vera invenzione radicale, forse una delle conseguenze più ricche di significato del protocollo tcp/ip. Quando ho visto pezzi di Arduino messi in vendita vicino ai dentifrici in un supermercato di Boston ho capito il senso profondo del suo progetto: quello di mettere in mano ad altri, milioni di altri, un pezzo di conoscenza e di interpretazione della conoscenza.
Tornando al senso del libro, è arrivato il momento di usarla bene quella conoscenza, con un pizzico di responsabilità verso il futuro, senza subito innestarci l’ennesimo fenomeno riempi-pista come i makers (se esistono i makers allora esistono anche gli awakers/quelli che si svegliano la mattina, i breathers/quelli che respirano, gli shoesers/quelli che camminano con le scarpe e così via per ogni attività umana). Come sappiamo bene è sempre in mano all’uomo il boomerang.
La storia di Cesare Cacitti mi ha fatto parecchio riflettere, anzi mi ha preoccupato. In qualità di padre di un ragazzo della sua età, quella sua affermazione di ansia e di paura di «un infarto» a 13 anni, mi ha aperto uno scenario che non avevo considerato. Cesare è sicuramente un ragazzo da ammirare, accidenti!, tredici anni, ma le parole «infarto» e «ansia», quelle no. Non a quell’età, non se le merita ancora. Il mio è un ragionamento un po’ più profondo e se vuoi – sì preoccupato – verso i dieci/dodicenni e i loro fratelli minori. Non solo sono da tempo una categoria di mercato (invito alla lettura del datato, ma sempre attuale BrandChild in merito), ma sono già alle prese con un senso di urgenza, di competitività che tutti siamo lì ad aizzare e celebrare (lo confesso, l’ho fatto io stesso in ogni incontro con gli studenti, ma parlavo ai ragazzi delle università per spronarli a leggere, a reagire, a vedere che cosa succede nel mondo quando erano a un passo dalla laurea), tanto che a tredici anni sei già schedato come un vecchio.
Mi immagino prediche-paradosso-anti-bamboccioni di questo tipo: «Hai visto quel Cesare lì? Lui amministratore delegato a tredici anni e tu ancora qui alle medie!». Che ce ne facciamo delle medie inferiori? Via anche quelle! Da come va il mondo per come lo conosciamo oggi, con quella sua voglia di trovare sempre la notiziola, la sfida tra culture e la glorificazione dell’altro (il modello tedesco, il modello indiano eccetera) temo che faremo sentire questi bambini dei vecchi inadeguati. Le conseguenze? Interessano a qualcuno a fronte della parola successo? È un boomerang: lanciamo oggi il mito dei CEO tredicenni. Che cosa succederà tra una generazione?
Hai voglia a dire i nativi social (quelli digital dicono siano, per l’appunto, già bolliti), come se non ci fossero altro che release di sistemi operativi e schermi da 5 pollici e like da cliccare. Voglio credere che ci sia anche altro, pur rendendomi conto che questo è un fenomeno largamente desiderato e promosso da noi stessi, da questa società per come l’abbiamo disegnata.
Credo sarebbe necessario immaginare nuovi tipi di educazione progressiva, dei meccanismi di relazione tra ragazzi e genitori capaci di farli interagire sui prossimi territori comuni, più o meno tecnologici, così che l’ansia o l’infarto siano sensazioni o paure conosciute per essere gestite e non patologie geneticamente anticipate.
Stephen King…se c’è un pessimista vero in questo libro è proprio lui (l’economista, non lo scrittore).
Bonvi infine non ha bisogno certo della mia difesa se non un grido in memoria: Supergulp! «E l’ultimo chiuda la porta», direbbe Patsy (ma questa è una citazione per vecchi Baby Boomers).
Tutto è bene quel che finisce bene?
MM: Come nella Divina Commedia l’Inferno è più divertente di Purgatorio e Paradiso, così nella seconda parte del tuo libro assumi un tono più pacato, proponendo come via di salvezza «un’etica del limite». Di che cosa si tratta? Non di «consigli per il futuro», come dici esplicitamente. E allora? Una conclusione consolatoria con un vago sentore di happy ending o qualcosa di più?
NP: È vero: ci siamo divertiti all’inferno, ci siamo rassettati l’aspetto nel purgatorio e poi ci siamo annoiati a morte in paradiso. Lo dico perché è davvero così. È davvero noioso, in mezzo a questo fulgore possibilista, in mezzo a visori 3D, videogiochi acquistabili on demand che non richiederanno nemmeno più la consolle, sparati su qualche cloud, livelle virtuali sul telefono, app per misurare qualsiasi tipo di performance, scanner per comprare merci direttamente da mobile, vacanze extra low cost, voli interplanetari per vedere come è fatta la Terra da lassù (oggi un filo cari, ma i prezzi caleranno), droni che consegnano bombe all’andata e libri al ritorno, auto senza guidatore (a quando quelle anche senza passeggero?), device da collegare per annusare se il vino sa di tappo, palline rotanti gestite da un tablet, dicevo è davvero noioso sentire uno che propone un’etica del limite. Me ne rendo perfettamente conto. Chi ha voglia di sentir parlare di un futuro sostenibile? Eppure.
La scena è questa. Sono a San Francisco e ascolto le news del mattino. Tutti i notiziari – tra lo sbalordito e l’arrabbiato – danno la notizia del repentino aumento del livello di inquinamento in California a causa delle emissioni in Cina. «Non è colpa nostra!», «Sono loro dall’altra parte del Pacifico», «Si contengano questi cinesi con ’ste emissioni: che diamine!». Eppure il nostro pianeta è questo qui. Nonostante la promessa di un viaggio prima e una vita poi su Marte, noi viviamo su questa palla rotante.
L’accelerazione che tutta la meraviglia sopra elencata sta producendo genera effetti, a loro volta, sempre più accelerati.
Ora, magari lungo i passati cent’anni ce ne siamo potuti disinteressare. Diciamo anche che non avevamo tutti gli strumenti di conoscenza (e di diffusione della conoscenza che abbiamo oggi – paradosso: sappiamo di più e ci disinteressiamo lo stesso) per capire che cosa stesse succedendo. Ma oggi, alla luce di tutti i nostri dati? Che anche quando non erano «big» erano già sufficientemente chiari?
Vogliamo parlare della terra dei fuochi? Che cos’è questa indignazione? Non sono forse quelli i rifiuti che abbiamo prodotto noi stessi, per sostenere lo stile di vita che abbiamo promosso noi stessi? Ce li troviamo sotto i piedi e sotto il sedere. Abbiamo fatto finta di non vedere. Abbiamo voluto non vedere. «Tanto quando lo scopriranno saremo già morti». È un modo bellissimo per tirarsene fuori.
Pensa se avesse ragione Kurzweil e con le sue vitamine diventasse immortale! Che sfortuna, a un certo punto gli toccherebbe vivere dentro una discarica di rifiuti generati da lui stesso come ultimo abitante del pianeta.
Lo vogliamo battezzare da questa tua colonna il «Paradosso di Kurtzweil»?
Vogliamo parlare di giovani e occupazione? Chi ha voglia di sentirsi dire che, visti i risultati, forse il crescitismo permanente non è la soluzione? E dunque, che noia verrebbe da dire, davanti a tutte queste considerazioni.
Tuttavia il mio non lo definirei un happy ending. Preferisco chiamarlo un happy beginning. Ovvero, il decidere di iniziare a considerare il futuro e le opportunità offerte dalla tecnologia con uno sguardo, a mio avviso molto più moderno rispetto a quello che utilizziamo oggi, legato a modelli obsoleti innestati in un po’ di silicio e per questo apparentemente innovativi.
Ci siamo accontentati del peggio migliore. Proviamo a vederla così: se un valore deve crescere, decidere quale valore noi vogliamo che cresca, senza che questo sia necessariamente quello più scontato e accettato dal pensiero comune solo perché nonostante tutta questa (spesso apparente) innovazione (mi tocca ridirlo) «abbiamo sempre fatto business così».
Verificare quanto gli interessi di creatori e destinatari di tecnologia siano coincidenti.
Domandarci: oggi sto meglio di prima? E darci una risposta profonda e non di pronto-moda-comoda perché come mostra lo spot (sempre bellissimo per carità) di Apple posso cercare il giocattolo sotto il letto con la torcia nel telefono!
A chi vede questo limite etico come un freno alla ricerca dico: ma non è forse, invece, proprio la ricerca che stiamo facendo oggi, limitata? Dal cercare di rendere ogni idea subito monetizzabile? Dalle way out a tre anni? Dove sono i 18 miliardi di dollari spesi per mandare un uomo sulla Luna? Qualcuno li ha mai più messi sul tavolo dal 1970 a oggi?
Credo che la vera libertà stia nell’accettazione della vita per quello che è e non per quello che non è. Come dice Robert Harrison «I fatti della vita che decadono ci rendono consapevoli che c’è qualcosa invece di un niente che deve ancora essere (e essere e essere e essere all’infinito) cercato, che la natura è senza una ragione
umana per essere quella che è e che abitiamo nella datità della perdita.
Questa conoscenza di sé, e solo questa, è la libertà». Che per me è un messaggio meravigliosamente ottimistico e che dà una prospettiva piuttosto precisa su quali basi strutturare le nostre traiettorie future.
Ma non parla di stampanti 3D e di predictive analytics e non è nemmeno riassumibile in una app. Che noia, non è vero?
Il digitale è umano?
MM: Un po’ a sorpresa finisci per concludere il tuo percorso con una risposta affermativa alla domanda «Il digitale è umano?», che fa un po’ il paio con la mia convinzione che persino Facebook può essere «un mondo vitale».
NP: Perché a sorpresa? C’è un lato fortemente e ovviamente umano nel digitale. Lo suggeriscono molto chiaramente Hillman e Ventura nel desiderio – degli umani, di noi stessi – di questa tecnologia. Il fatto stesso che «umani» dei tipi più diversi desiderino ardentemente l’abbraccio di questa tecnologia è la prova di un desiderio estremamente profondo.
Magari non sono del tutto d’accordo, ma credo si debbano fare i conti col fatto che questo possa essere il nostro habitat. Ci ritroviamo in un mondo creato non da Dio (se non indirettamente), ma dalla psiche dell’umanità. E dunque ci tocca accettare di vivere quello che la psiche dell’umanità ha disegnato come il nostro nuovo modello di residenza. E questo è un primo punto, volenti e nolenti (mi verrebbe da dire) ma se possibile mai acritici e passivamente omologati.
L’umanità del digitale non sta, ad esempio, nelle sue pur fantastiche interfacce tattili che tanto assomigliano alla naturalità dei nostri gesti o nella crescente capacità di interpretazione della voce, no. La sua umanità sta nel rendersi conto che dietro a queste interazioni esiste la complessità di un sistema fragile e imperfetto e incompiuto.
Ancora una volta, dunque, «umano» significa essere consapevoli del limite.
Un esempio? Prendi tutta la massa di software che si prendono la briga di mappare tutti i nostri comportamenti a beneficio di chi vuol poi proporci offerte, pubblicità o vendere le nostre preferenze a qualcuno che a sua volta ci venderà qualcosa oppure vorrà essere sicuro che siamo dei bravi cittadini.
Il lato umano della faccenda, che è tutta digitale, sta nella nostra capacità – umana, fallace, adattiva, istintiva – di sapere come quel software si interessa a noi e quindi agire di conseguenza.
È vero, oggi siamo degli obiettivi. È vero, in questa preistoria così carica di tecno-burocrazia sognante stiamo mettendo in mostra tutto il nostro io per soddisfare qualche nostro piccolo o grande desiderio. Oggi. Ma domani? Non avremo forse imparato la lezione? Non saremo forse noi i primi a difenderci con le stesse armi? Con i dati. O con il loro occultamento? O con lo sfruttamento degli stessi a nostro favore? E ancora un’altra dimensione dell’umanità digitale è legata – ancora una volta – alla consapevolezza e quindi alla nostra (magari oggi più lenta, ma è solo questione di una mezza generazione) capacità di discriminare la modalità dal contenuto.
Nel libro ho avuto modo di dire come i Millennials e coloro che li seguiranno siano interessati al «contesto» (modalità di acquisto, impatti, correttezza eccetera) oltre che all’«oggetto» in sé, e ho detto come una revisione delle regole del gioco del business siano alla base di qualsiasi ragionamento attorno alla tecnologia, essendo la tecnologia diventata la palestra sulla quale la finanza ha deciso di allenarsi per giocare un pezzo del suo futuro.
È in questo scenario di un rinnovato accorgersi del sé che si colloca, ad esempio, l’economia del baratto, della condivisione di quello che ho già e che ho già capito non mi serve più. Dello sfruttare le reti e la propensione sociale alla condivisione, alla fuga «dal buio e dall’isolamento», al recupero dei valori, anche quelli più basici, anche quelli più naturali – le persone, le relazioni profonde, la famiglia, il vicino vero, con il quale sono in relazione empatica, chi ha bisogno di me per quello che ho e per quello che sono e per quello che posso dare e posso chiedere di ricevere –, potenziati dall’eccezionale booster vitaminico della crisi.
La sharing economy in senso lato e poi le sue declinazioni sono già terreno di conquista di accentratori e super-californians e rischiano di essere come dicono Emanuela Mora e Silvia Mazzucotelli solo una versione «più innovativa del modello di neocapitalismo liberale responsabile della crisi che l’ha generate», eppure sono un modello d’esempio di come prendere un protocollo di comunicazione, costruirci sopra un linguaggio, estenderlo all’universo, innestarci sopra un business mostruoso, espanderlo fino ai confini dell’estrema utilità e dell’estrema inutilità, rendersene conto, capire di esserne tanto sfruttatori quanto sfruttati, decidere di forzarlo per un beneficio oggettivo primario, molto umano, goderne e farne godere concettualmente senza guadagnarci o perderci un euro, ma soddisfacendo lo stesso il mio bisogno.
Un boomerang che abbiamo lanciato trent’anni fa e che adesso, almeno qui, almeno in questo contesto, pare siamo stati in grado di ri-prendere in mano.
3 – Fine