Il Boomerang dei Big Data

Tra neoluddismo e realismo,     (vedi la prima parte di questo post)      la discussione con Nicola Palmarini intorno al suo ultimo libro Boomerang      sembrava aver trovato tra noi un punto di accordo. Probabilmente non l’unico, visto come il nostro dialogo ha continuato a svilupparsi,   proprio mentre usciva l’ultimo saggio di Rifkin sotto forma di epinicio alla Super Internet.

Un parere sulla statistica

MM: Su un punto io e Nicola sicuramente concordiamo (in buona compagnia della grande Wislawa Szymborska, di cui commento la memorabile Un contributo alla statistica, nel mio Nulla due volte. Scrive Palmarini: «Dal punto di vista dei grandi numeri sembra che tutto stia procedendo per il meglio. Grazie alla tecnologia l’aspettativa di vita in Africa ha raggiunto i 55 anni. Le vittime della malaria sono diminuite di un quinto negli ultimi cinque anni e molte malattie endemiche non colpiscono più con la virulenza di un tempo. Le statistiche del Peace Research Institute di Oslo rivelano che ci sono stati meno morti per cause belliche nell’ultimo decennio – nonostante i conflitti in Iraq e in Afghanistan – che in qualunque altro analogo periodo del secolo precedente e dunque, in termini relativi, l’umanità deve considerarsi in pace. Insomma tutto bene, possiamo goderci i nostri device in santa pace. A dirla proprio tutta, però, ci era parso che non fossero tutte rose e fiori guardando le immagini di barconi stracolmi di migranti al largo di Siracusa, di terre allagate nel centro del Brasile, di occhi sbarrati dei nuovi tossicodipendenti nel centro di Atene, senza citare le faccende proprie di casa nostra come salari, disoccupazione, crisi, tasse crescenti. Eppure ci siamo così assuefatti al potere della statistica e dei dati da faticare a non credere al fascino dei numeri nonostante sulla nostra pelle la percezione sia diversa». Dunque anche tutto il clamore sui big data è una «grande bufala»?

 

NP: Come dice Nate Silver ne Il segnale e il rumore: «sono certo che i big data alla fine produrranno un progresso. Quanto velocemente lo faranno e se nel frattempo regrediremo, dipenderà da noi»”. E mi permetto di aggiungere: secondo quale modello? La premessa di poter estrarre intelligenza da un numero di dati sempre maggiori, sempre più microriferiti, microgeoreferenziati, microdettagliati micro-eccetera sembra far presagire un paradiso di conoscenza in cui, noi come persone (e naturalmente anche tutto l’ecosistema industriale che afferisce all’information technology), avremo tutto da guadagnare. Sapremo molto e di più di come ci comportiamo noi, i nostri organi, il nostro cervello e poi i sistemi complessi, le auto nelle città, i mezzi pubblici, i livelli di inquinamento, le transazioni finanziarie, le performance di componenti in macchinari sempre più ramificati in reti e naturalmente, non da ultimo, le parole scambiate sui social network, i sentimenti, le emozioni, la «reputazione». Sapremo tutto.

O meglio, cominciamo con i distinguo.

In primo luogo qualcuno saprà molto di qualcun altro: abbiamo idea degli effetti a lungo termine di questo boomerang, al di là della necessità di spazi di storage di dati sempre maggiori, visto che nel breve qualcosa l’abbiamo già intuito?

In secondo luogo, esiste a mio avviso un punto in cui il micro fa fatica ad avere un senso. Lo sforzo per trovare il segnale in tanto rumore è enorme e nonostante i software potentissimi permettano le distillazioni più sofisticate sembra proprio che siano poi gli esseri umani, i data scientist (la cosiddetta professione più sexy del XXI secolo, e io che pensavo fosse l’insegnante di Zumba) a poterne capire il vero senso profondo e una sua vera utilità. A mio avviso, dopo una fase super-micro, torneremo a considerare delle visioni macro con buona pace dei nano-data-amanti.

Terzo, prevedere. Sapremo, miglioreremo, impareremo, certo. Eppure la differenza tra il tasso di errore del colonnello Bernacca e quella di duecento siti di previsioni meteo non mi sembra ancora – oggi, per carità – poi così enorme. Leggansi le recenti polemiche di meteoterrorismo sui weekend estivi. La metereologia è una scienza esatta, l’errore si genera quando si crede che siccome ho una app che mi annuncia il meteo ogni 5 minuti o con due settimane di anticipo questa possa essere così affidabile da essere vera solo perché «esiste» sul mio display. Il tasso di errore è dato, scientificamente, da un’equazione di quella scienza di cui sopra.

Ma a chi interessa davvero? Non è forse meglio credere di poter davvero conoscere una pseudo-verità? A mio avviso Dio tra le nuvole si diverte un sacco a sfidarci.

Secondo Chris Anderson, ex editor-in-chief di Wired, la quantità di dati avrebbe ovviato da sola alla necessità di teoria e anche di metodo scientifico. Del resto, dopo questa sua previsione del 2008, le cose non sono proprio andate come aveva previsto. Per dire, il reattore nucleare di Fukushima era stato progettato per resistere a terremoti di magnitudo 8.6 anche perché i sismologi erano giunti alla conclusione che non si sarebbe potuto verificare niente di peggio. Poi in Giappone nel marzo del 2011 ci siamo accorti che una magnitudo di 9.1 sarebbe potuta passare di lì per caso. Senza citare l’11 settembre, la Costa Concordia, qualche tsunami qui e là, la devastazione del golfo del Messico da parte di BP, l’esplosione in volo di uno Shuttle e l’ineffabile Iceberg di Ceronetti che ha avuto «ordine di dare a quello spocchioso di Titanic una memorabile cornata!».

Stiamo imparando dagli errori e la tecnologia ci aiuta a minimizzare gli impatti e a velocizzare sempre di più le prossime previsioni. E i dati qui sono fondamentali. Ma credere che tutto sia risolvibile o prevedibile è tanto bello quanto inumano. Mi verrebbe da dire che la natura e – su tutto – la folle natura dell’uomo, siano universi molto complicati da interpretare, e che a volte siano davvero impenetrabili. E se mi permetti, rispetto al mito americano del credere che siamo davvero totalmente proprietari del nostro destino e che basti mettersi lì per capire e saper prevedere qualsiasi cosa perché riconducibile a un qualche algoritmo, non ci trovo nulla di strano o di male.

Duepuntozerismo

MM: Scrivi: «Claudia, videomaker laureata alla scuola di cinema e perennemente in cerca di ingaggi, mi racconta del padre, poco meno di sessant’anni, licenziato, costretto a pagare per lavorare. E via così. Eppure in questi mesi di esposizione mediatica del nuovo che avanza non ho sentito né un Politico 2.0 né un Giornalista 2.0 citare il loro duepuntozerismo (tema sul quale ho acceso una, spero costruttiva, discussione con Marco Minghetti – io contro, lui pro – sull’uso della vituperata definizione all’interno delle organizzazioni) a favore di chi ha più di quaranta, cinquant’anni. Tutti appiattiti a sparare release e a corteggiare i “giovani” con quello che potenzialmente rappresentano. I politici per ovvie ragioni elettorali, i giornalisti per gonfiare la loro piccola bolla digitale: tanti follower, tanta reputazione. Vi ricordate quando con orgoglio citavano tanti nemici, tanto onore?».

E ancora: «Ma che esperienza è questa? È l’immaginazione dell’esperienza. È la forza del marketing, del racconto, di quello che pensiamo di vivere. La sostanza è ben diversa. Altro che nonne, uccellini cinguettanti, mucche sorridenti al pascolo, api che ronzano felici. Altro che slow food. Qui siamo al porno, all’esibizione, alla sveltina. Riflettori malmessi su divani di lattice rossi dove attori arrossati si infilano gamberetti e banane dentro a fichi d’india schizzando cioccolato bianco a beneficio del guardone di turno. E noi siamo gli attori e i guardoni. Non solo. Noi siamo il nuovo livello di omologazione. Noi siamo i consumatori 2.0 di questa messa in scena che, con la falsa promessa di renderci tutti titolari dell’“eccellenza”, ci pone a un nuovo livello di sfruttamento. Ci rende tutti abilitati, tutti superiori, tutti raffinati, tutti selezionatori, tutti uguali di un prossimo, nuovo uguale. Che stride non poco con il concetto di conoscenza del cliente, di adaptive marketing, di customer intimacy e affini».

Qui richiami direttamente la nostra pubblica discussione: eppure alla fine siamo entrambi alla ricerca di soluzioni che consentano di sfuggire all’omologazione di massa che io attribuisco alla resistenza del modello culturale dello Scientific Management, tu alla «duepuntozerizzazione» del mondo. Insomma, sei d’accordo con il mio disaccordo?

 

N.P.: Mi rifaccio a quanto detto sopra sui big data. Sapremo tutto di un consumatore, ma se poi l’offerta si limiterà a quei nove o dieci brand (basta fare un giro per il centro di qualsiasi città del pianeta per vedere l’omologazione dell’offerta, dalle mutande alle camicie, dai device ai trucchi), servirà davvero? Che cos’altro ci resterà da comprare?

E allora forse ritorneranno (sono già tornate) offerte di massa, senza tanta distinzione. La televisione resta ancora lì come mamma l’ha fatta e non è un caso che il tweet più ripreso del 2013 faccia riferimento a una star della televisione (Lea Michele) che parla della morte dell’altra star della televisione (Cory Monteith). Alla fine parliamo di quello. Quello è ancora il centro come peraltro ci aveva già fatto notare Jacques Tati cinquant’anni fa.

Mi rendo conto che la possibilità di avere una relazione diretta con un consumatore attraverso il suo device, conoscendo tutto di lui/lei sia un’occasione ghiottissima per i marketer e per chi deve vendere pubblicità, ma il fatto che – ad esempio – si sia tornati così tanto a parlare di storytelling dice chiaro e forte una cosa: sappiamo tutto di te, ma accidenti! non basta ancora. Per convincerti dobbiamo crearti un’esperienza, raccontarti una storia appunto. Ma questa storia dovrà essere così unica da non essere confusa con nessun’altra. È possibile? O forse è più facile usare il vecchio meccanismo: tu sei fico, ma lo sei di più se stai con quelli fichi…

E rieccoci a fare una «vasca» per le vie del centro a comprare quello che tutti gli altri fichi già hanno. O a comprare su un sito di e-commerce – sempre lo stesso oggetto che tutti hanno – ma a un euro in meno rispetto al negozio fisico. Oggi la piccola o grande novità è forse qui: non solo nell’oggetto posseduto, ma nella figosità usata per acquistarlo o, ancora meglio, per ottenerlo. E naturalmente poi nel condividerlo con l’universo.
A mio avviso però dovremmo già prendere in considerazione un passo successivo. Siamo sicuri che il proporre storie chiaramente derivate dalla conoscenza delle sue abitudini sarà gradita da quell’utente?

Oggi ci si sente lusingati, ma domani quando ormai tutti avranno capito che dietro alle lusinghe c’è una conoscenza della mia vita oltre quello che io stesso posso sapere (come in Né qui, né altrove di Carofiglio, quando il protagonista viene fotografato dai ricordi dell’amico che ne fanno un’analisi spietata della personalità, rivelando quello che lui stesso non riusciva a confessarsi di sapere), saremo ancora così disposti a dire «ma guarda che bravi, sanno che mi piace la Pepsi Twist»? Credo che tra non molto arriveremo al fake-telling, ovvero costrutti narrativi per mascherare tutto quello che so già di te.

E su questa previsione, drammaticamente problematica ma non di meno già capace di individuare almeno una via lungo la quale compiere un passo forse «salvifico» (quel punto di svolta che nel libro, per stare appieno nella metafora del titolo, Palmarini chiama layover), lasciamo a tutti il tempo di una riflessione, prima di arrivare al “terzo atto” di questa conversazione.

2. continua