Nella prima parte di questo post abbiamo cominciato ad esaminare i dieci principi chiave attraverso i quali secondo Steve Denning si declina il nuovo paradigma del “radical management” (una sorta di “summa” di quello che hanno proposto sul tema della social organization i principali esperti internazionali negli ultimi anni), confrontandoli con gli assunti di base dello Humanistic Management 2.0.
In questo quadro, rispetto alla sua definizione generale, le riflessioni di Denning ci aiutano anche a capire cosa significa tradurre in pratica il concetto di intelligenza collaborativa, che propongo nel mio ultimo libro. Continuiamo oggi questa disamina.
Dalle catena di valore uni-direzionale alle reti di valore multi-direzionali
Al centro del pensiero manageriale tradizionale vi è la catena del valore uni-direzionale attraverso la quale un’azienda offre prodotti e servizi ai clienti. Il concetto è stato descritto nel libro di Michael Porter, Competitive Advantage (1985). Secondo questa teoria il successo di un’impresa deriva essenzialmente dal rendere sempre più efficiente la catena del valore uni-direzionale (top down, broadcasting, piramidale: in una parola, unicursale, nel senso illustrato, sulla base di una suggestione tratta da Umberto Eco, in un mio vecchio articolo scritto per Hamlet nel gennaio 2000, poi ripreso e sviluppato nell’Undicesima Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management ed infine nel post Nel Labirinto – Alice annotata 7).
In un’intervista con Brian Leavy in un prossimo numero di Strategy & Leadership, rivela Denning, Venkat Ramaswamy sostiene che in futuro il valore sarà “sempre più co-creato interattivamente dalle imprese insieme ai clienti. Questa prospettiva mette in crisi due presupposti tradizionali profondamente radicati: a) le imprese creano valore e poi lo immettono sul mercato per ricavarne profitto; b) il valore creato risiede principalmente nel prodotto o servizio fornito”.
L’idea della catena del valore uni-direzionale è una reliquia del passato, scrive Denning. Nella Creative Economy la catena del valore sviluppata all’interno dell’impresa è solo un aspetto di una più complessa rete multi-direzionale, dove il valore è creato attraverso l’interazione con clienti e partner. Esempi sono App Store di Apple, che costituisce una piattaforma in grado di mobilitare centinaia di migliaia di sviluppatori che interagiscono direttamente con i clienti, e Nikeplus, che crea contemporaneamente valore per gli sportivi e per Nike. In casa nostra, un approccio analogo è stato sviluppato in maniera anticipatoria da Vodafone, come descritto nei post HR 2.0? Il caso Vodafone e HR 2.0? Il caso Vodafone (Parte seconda), poi aggiornato e sviluppato in una testimonianza del Direttore HR Europa Gianluca Ventura nel Capitolo 9 de L’Intelligenza collaborativa.
Analogamente, in una conversazione tenuta con Luigi Ferrari in questo blog circa un anno fa dicevamo: “Prima condizione per poter non solo sopravvivere, ma trarre vantaggio dalla nuova realtà economica è l’aprirsi all’ascolto e al dialogo, non già usando la rete come mero strumento di comunicazione (nella illusoria convinzione di poter adattare i vecchi messaggi al nuovo sistema di media), bensì ribaltando il paradigma della verticalità e del controllo che ha caratterizzato, nel bene e nel male, l’attività d’impresa dagli albori del marketing fino alle nuove forme di marketing evoluto e di aperture al sociale (più o meno genuine) della prima decade del millennio”.
E così scrivevamo nella Premessa al Manifesto dello Humanistic Management: “per capire il presente e guardare al futuro occorre promuovere apertura mentale, autoanalisi e riflessioni individuali, coniugate alla capacità di trovare continuamente soluzioni originali, attraverso una maniacale attenzione al contesto, a ciò che sta fuori”. Questo atteggiamento mentale è decisivo ai fini dell’emersione e valorizzazione dell’intelligenza collaborativa diffusa fra tutti gli stakeholder aziendali e per trasformare l’azienda tradizionale in una rete polivoca di community, traducendo in pratica quanto si afferma nella Quarta Variazione Impermanente: “la legittimazione della razionalità tecnica, economica, normativa non può più essere realizzata sul terreno della ‘convenienza’ misurabile, oggettiva, ma su terreni di creazione del valore che riguardano i desideri, le emozioni, l’immaginazione individuale e collettiva. I soggetti sociali non possono più delegare ad altri lo sviluppo di disegni di vita che dipendono dalle aspirazioni e azioni di ciascuno, che si situano nei contesti differenziati e molteplici che ciascuno ha in mente e che l’automatismo o l’esperto non riesce a vedere e non intende comunque seguire nel dettaglio”.
Da gerarchie piramidali a responsabilità condivise
Il management tradizionale, sottolinea Denning, traccia una netta distinzione tra Manager e Leader, all’interno dei dirigenti, che si aggiunge a quella tra dirigenti e lavoratori.
La seconda distinzione è fondativa dello stesso Scientific Management: a Taylor si deve l”invenzione”, nei primi anni del Novecento, dell’Ufficio Pianificazione in cui i dirigenti preposti stabiliscono compiti e mansioni, attraverso il cosiddetto approccio “Tempi e Metodi”, che poi i lavoratori debbono eseguire attenendosi strettamente alla “one best way”. Di qui nasce l’idea secondo cui “alcuni sono pagati per pensare, tutti gli altri per lavorare”, alla base della immensa popolarità di personaggi come l’americano Dilbert e il nostrano Fantozzi.
La distinzione all’interno degli stessi dirigenti fra Leader e Manager risale invece secondo Denning ad un articolo pubblicato nel 1977 da Abraham Zaleznik su Harvard Business Review: Managers and Leaders: Are They Different? L’autore dell’articolo sostiene la tesi, divenuta un vero e proprio luogo comune della formazione manageriale, secondo cui i manager hanno insiemi di abilità e atteggiamenti totalmente diversi rispetto ai leader. In primo luogo, “i manager concentrano l’attenzione sull’esecuzione della procedura e non sull’obiettivo finale”. In altre parole, sono burocrati che scambiano lo strumento con il fine. In secondo luogo, i manager “tendono a comunicare con i subordinati indirettamente, con segnali ambigui”, evitando di assumere una posizione chiara in caso di conflitti interni. In terzo luogo, di fronte al crescere della complessità, scelgono la strada di Quinto Fabio Massimo: sono abilissimi a temporeggiare rimbalzando la presa di decisione e l’assunzione di responsabilità su e giù per la scala gerarchica.
I leader sono invece coloro che sanno ispirare le persone, stimolare il cambiamento e rafforzare la cultura d’impresa. In teoria, i due ruoli si completano a vicenda. In pratica, argomenta Denning, la distinzione ha spesso portato a organizzazioni in conflitto con se stesse, con i leader che ispirano coloro che svolgono il lavoro, innescando il cambiamento e rinnovando la cultura, mentre i manager sono attivamente all’opera per distruggere tutto ciò che i leader stanno facendo utilizzando la loro conoscenza dei processi burocratici. In realtà io credo che in molti casi ci sia una forte connivenza fra le due figure, del tipo “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, unite dal comune interesse a mantenere il sistema gerarchico, univoco, prescritto dello Scientific Management. Come scrivo in Nulla due volte: “Nel mondo aziendale, lo scientific manager pensa di poter imporre all’impresa un significato prescritto, prevedibile, gestito dalla “one best way”, intesa in senso procedurale, amministrativo, burocratico come l’unica possibilità di “fare” le cose. Identifica il pragmatismo con il riduzionismo, mutuando l’atteggiamento di un Robinson Crusoe. Il personaggio, reso archetipico dalla maestria di Defoe, pensa che il mondo possa essere dominato nella misura in cui è possibile misurarlo, quantificarlo, valutarlo. Ridurlo ai numeri di una statistica. Un metodo vincente ma solo fino a quando il Robinson-imprenditore deve operare su un’isola deserta”.
Nella Creative Economy, così come nelle aziende che adottano il modello dello Humanistic Management 2.0, la dicotomia (vera o finta che sia) manager-leader e soprattutto la prevalenza del primo sul secondo semplicemente non ha più significato. Vengono radicalmente sostituite dall’emersione del concetto di intelligenza collaborativa, che, nell’accezione proposta nel mio libro, ingloba anche quello golemaniano di intelligenza emotiva, data la fondamentale importanza dell’empatia – si vedano i Capitoli 12 e 14, rispettivamente dedicati a engagement e convocazione – nei processi di lavoro collaborativo. Processi che, come ricorda nel suo commento al Capitolo 4 Paola Cavallero di Nokia, e in coerenza con il modello organizzativo dello smart working e con quello sociologico del sensemaking (Weick), “si possono svolgere solo in un ambiente abilitante adeguato (mondo vitale, ndr) sia online sia offline: un ambiente quindi fatto di spazi fisici e virtuali, di valori condivisi, di logiche e processi orizzontali e non verticali ecc.”.
In parole più semplici, si tratta di sostituire, con quella che propongo di chiamare intelligenza collaborativa nel senso sopra indicato, la stupidità diffusa che è al tempo stesso la vera colonna portante dello Scientific Management e la causa principale della crisi economica in cui ci dibattiamo da anni. Del resto, che altro esito può avere un modello basato sul fatto che la maggioranza delle persone è pagata per “lavorare e non per pensare”? Lo spiega bene Antonio Pascale in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera («Un giusto tasso di stupidità può far bene all’ufficio?», 16 gennaio 2013): “Nei recenti disastri economici che riguardano corporation, banche e parte del mondo finanziario tra gli imputati c’è la stupidità. Ovvero, la tendenza da parte dei manager a non farsi domande di ampio respiro, concentrati come sono sulle speculazioni contingenti… Speculazioni, bassa capacità di correlare i dati rispetto a un insieme più ampio? Sì, proprio così. Stupidità. (Per questo) tutto il sistema di lavoro novecentesco sta andando in crisi. La produzione era (ed è in parte ancora) basata su ripetizioni, ordini, irreggimentazioni coatte. Tuttavia, oggi, un oggetto per acquistare valore sul mercato deve contenere una certa dose di innovazione. Per innovare è necessario essere creativi. Per essere buoni creativi non si può essere soli, bisogna sapere confrontarsi, integrare i propri dati con quelli di altre persone, adattarsi al nuovo, rischiare… A ognuno la sua parte, le idee fanno sesso. Sarà un cambiamento difficile, vecchie mansioni andranno a spegnersi, però c’è la possibilità che non la stupidità sarà l’arma vincente ma la creatività, quella diffusa e organica e solidale”.
L’intelligenza collaborativa è il motore della social organization, in cui il lavoro è sempre più svolto da team auto-organizzati, da community, da reti e da ecosistemi, in cui la distinzione tra dirigenti e lavoratori comincia a dissolversi (cfr. su questo anche il post L’evoluzione della “networked enterprise” ). I membri di community auto-organizzate condividono la leadership e la responsabilità di gestione. Per esempio, scrive Denning, presso l’azienda di trasformazione del pomodoro californiana, Morning Star.
Tutti i dipendenti non solo lavorano, ma contribuiscono anche a definire obiettivi, controllare e supervisionare il lavoro, a trovare nuovi modi di creare valore, a misurare i progressi verso gli obiettivi. Ognuno ha una chiara visione del valore che si vuole creare per il cliente. Allo stesso modo i partner contribuiscono alla creazione di valore interagendo con i clienti su piattaforme orchestrate dall’impresa.
Sotto questo profilo, è interessante osservare il rinnovato interesse per strumenti come la Balanced Scorecard (proposta da Nolan e Kaplan nel 1992), intesa come strumento non solo di misurazione degli asset tangibili ed intangibili, ma anche di comunicazione e condivisione degli obiettivi aziendali (cfr. il caso Allianz illustrato in un bell’articolo su Harvard Business Review Italia, Luglio-Agosto 2013, ma anche quello di Ottica Avanzi, il cui Direttore HR Fabio Bernardi alla domanda “Quando Nolan e Kaplan lanciarono l’idea di una Balanced Scorecard per la misurazione delle performance che consentisse anche di valutare gli asset intangibili, sostennero che il sistema da loro proposto era prima di tutto un sistema di Comunicazione Interna. La vostra filosofia è simile a questa?” su questo blog ha dichiarato: “Attraverso il nostro Social Portal vengono generati e pubblicati quotidianamente dei Key Performance Indicator (KPI), profilati sulla tipologia di utente che li visiona, che in maniera grafica ed intuitiva trasmettono a tutti i livelli aziendali la “percezione” dei risultati aziendali in relazione agli obiettivi prefissati. La comune percezione delle performance in relazione agli obiettivi permette all’azienda intera di reagire in modo tempestivo alle dinamiche del mercato, elemento chiave per ogni realtà di successo nell’ambito del Retail” (l’intervista a Bernardi è ripresa anche nel Capitolo 8 del volume L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization, mentre lui stesso ha presentato il caso durante la giornata di apertura del Digital Festival dedicato alle social HR, vedi video qui riportato).
Questo nuovo modo di impostare il lavoro deve infine riflettersi sulle politiche retributive. Il sistema tradizionale, basato sul raggiungimento di obiettivi individuali inevitabilmente in contrasto con quelli che valorizzano la partecipazione al conseguimento del successo collettivo (un apparente paradosso che nasconde l’antico approccio tipico del Modello Comando e Controllo: Divide et impera), ha portato, osserva Denning, a compensi dei dirigenti che stanno avendo conseguenze disastrose, tra cui una allocazione totalmente sbagliata del capitale e del talento, le ripetute crisi di governo, crescenti disuguaglianze di reddito e un calo generale dell’economia degli Stati Uniti. Moltiplicate per dieci, aggiungete le cifre galoppanti di una disoccupazione che colpisce i migliori e i più giovani (entrambi tagliati fuori dal perverso sistema clientelare, mafioso e gerontocratico che premia solo i parenti, gli amici degli amici e gli “utili idioti” – che saranno senz’altro utili a qualcuno magari per ragioni inconfessabili, ma ai fini organizzativi restano dei perfetti idioti) e avrete la fotografia dell’Italia.
Dal controllo burocratico all’innovazione organizzata
Per far fronte a un mercato sempre più dinamico in cui il potere si è spostato dal venditore al compratore, le organizzazioni stanno passando dal controllo centralizzato ad un sistema decentrato che abilita i processi di lavoro collaborativo.
Nell’economia tradizionale, il lavoro è coordinato attraverso le regole, i piani e le relazioni burocratiche. Gli obiettivi sono fissati e controllati dai gestori. La gerarchia è un sistema di elaborazione delle informazioni. Quando l’impresa ha un problema si colloca un team di persone a lavorare su di esso. Il risultato di questo lavoro diventa una proposta che si consolida risalendo a monte della catena manageriale per una serie di commenti e approvazioni. In un mercato in lenta evoluzione, le persone più in alto hanno più informazioni, conoscenze ed esperienze; questo giustifica il loro potere decisionale. In un mondo in cambiamento graduale, l’esperienza è un vantaggio enorme. Le persone più in basso nella gerarchia possono avere informazioni insufficienti e di solito guardano all’esterno da una prospettiva limitata.
Ma il mondo è cambiato. Come scrivo nelle prime pagine di L’intelligenza collaborativa, riprendendo alcune osservazioni di Gary Hamel: “il modello gestionale che predomina nella maggior parte delle organizzazioni risale ai primi anni del secolo ventesimo. A quel tempo, gli innovatori del management erano focalizzati sulla sfida di ottenere larghe efficienze di scala. La soluzione che adottarono fu l’organizzazione burocratica, con una forte enfasi su standardizzazione, specializzazione, gerarchia, conformismo e controllo. Questi principi costituiscono i fondamenti filosofici del management 1.0 [ovvero dello Scientific Management formalizzato da Taylor nel 1911] e sono profondamente radicati nei processi cognitivi e operativi del management attuale. Praticamente in qualsiasi tipo di organizzazione troviamo che il potere scende dall’alto in basso, che le strategie sono definite da un vertice ristretto, che gli obiettivi sono assegnati e non scelti, che è imposto un controllo ferreo e che sono i senior executives ad allocare le risorse. Prima del web, era difficile immaginare alternative a questa ortodossia manageriale. Ma Internet ha determinato l’esplosione di nuove forme di vita organizzativa – in cui il coordinamento si ottiene senza centra- lizzazione, il potere è il prodotto della capacità di contribuzione invece che del ruolo occupato, dove la conoscenza condivisa da molti trionfa sull’autoritarismo di pochi, nuovi punti di vista sono valorizzati invece che soffocati, le comunità si formano spontaneamente intorno a specifici interessi, le opportunità di innovazione travalicano la ferrea distinzione fra vocazioni professionali e hobby personali, i titoli formali contano meno della capacità di fornire valore aggiunto, le performance sono valutate dai tuoi pari grado e l’influenza viene dalla abilità a diffondere informazioni invece che dal tenerle nascoste”.
Questa sintesi del pensiero di Hamel sembra una parafrasi quasi letterale delle tesi contenute nel Manifesto dello Humanistic Management che ho scritto insieme a un manipolo di visionari nel 2004, ma di cui solo adesso si comincia a comprendere la portata, soprattutto perché la sempre maggiore disponibilità di social software in molti casi gratuito e la massiccia introduzione sul mercato di piattaforme collaborative da parte di tutti i grandi player dell’ICT rendono quella visione oggi realizzabile.
In questo mondo in rapida evoluzione, osserva allora Denning, l’esperienza che predispone i leader a gestire il “business as usual” è spesso un handicap.
Inoltre, in processi sempre più knowledge intensive, le persone in prima linea sono spesso in una posizione migliore, rispetto a chi sta nella torre eburnea del vertice aziendale (come il Kublai Kan delle Città Invisibili calviniane e il Fordgates de Le Aziende In-Visibili, cfr. in particolare l’episodio 65 del nostro romanzo collettivo a colori, The Man in the High Castle) per prendere decisioni su come risolvere i problemi, determinare compromessi tra qualità e quantità, fissare gli obiettivi e valutare i progressi. Gran parte dei motivi addotti dagli scientific manager per centralizzare il processo decisionale al vertice della gerarchia si è dissolta.
Come risultato, processi di lavoro knowledge intensive richiedono sempre di più auto-organizzazione e auto-gestione di team, di reti e di ecosistemi che operano sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione.
Il lavoro è coordinato attraverso il metodo noto con il termine “Dynamic linking”. I suoi elementi principali sono: i processi di lavoro sono fondati su cicli brevi e basati sulla centralità della soddisfazione del cliente; sono i knowledge workers a decidere ciò che può essere realizzato in un ciclo; impedimenti al raggiungimento degli obiettivi vengono sistematicamente rimossi; il miglioramento dei risultati è misurato dal feedback diretto dei clienti alla fine di ogni ciclo.
Non a caso anche il “guru” del marketing e profeta dalla fine del “business as usual”, Brian Solis, in un suo recente articolo ha descritto l’evoluzione dei rapporti fra aziende e consumatori attraverso una mappa, che riporta i vari passaggi del processo decisionale di un consumatore nella scelta di un prodotto (prima, dopo e durante), enfatizzando la sempre crescente importanza degli strumenti digitali nel processo di engagement (mobile, social, web, IRL – In Real Life), con particolare riferimento a quelli che fanno uso di schermi (smartphone, PC, tablet, TV, etc, vedi su questo Alice attraverso lo schermo – parte prima e parte seconda), ciascuno dei quali contribuisce a una customer experience che aiuta o impedisce lai clienti di avvicinarsi verso l’offerta di una una azienda. L’articolo, non sorprendentemente per noi, è preceduto dall’immagine di alcune persone che
entrano nel nuovo labirinto polivoco (anche se quello scelto da Solis è in realtà un labirinto rizomatico) di quello che l’autore definisce The Dynamic Customer Journey.
Tornando a Denning, il Dynamic linking, conclude, consente dunque una continua innovazione per soddisfare le mutevoli esigenze dei clienti ottenendone anche una esecuzione efficiente, obiettivo che la burocrazia gerarchica non è mai riuscita raggiungere, benchè in teoria sia stata creata proprio per questa ragione. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che, come ho avuto spesso modo di sperimentare, non c’è nulla di meno scientifico dello Scientific Management.
2. Continua
La prima parte di questa articolo si trova qui: L’era aurea del management è adesso. Per chi ha intelligenza collaborativa
La terza parte di questo articolo si trova qui: L’era aurea del management è adesso. Per chi ha intelligenza collaborativa (parte terza)