Forse non ve ne siete accorti, ma siamo entrati in nuova era
Seguo sempre con molta attenzione gli ottimi articoli che Steve Denning scrive per Forbes: una miniera di informazioni e approfondimenti sulla rivoluzione manageriale che stiamo vivendo in questi anni. Tanto che Denning non esita a definire quella attuale come l'”era aurea del management“, a dispetto della scarsissima reputazione di cui manager e leader oggi mediamente godono.
Questo perchè, spiega, anche se una gran parte di loro resta ancora ostinatamente legata alle pratiche burocratiche, inefficienti, improduttive e prive di qualsiasi fondamento etico dello Scientific Management 1.0, del modello Comando e Controllo, del taylorismo, trascinando nel baratro della crisi economica le aziende di cui sono responsabili, si sta ormai affermando in maniera inarrestabile il nuovo modello della social organization che rappresenta, come scrivo anche nel mio libro L’intelligenza collaborativa, un radicale cambiamento di paradigma rispetto alle teorie e pratiche dominanti negli ultimi cento e passa anni.
Denning declina questo nuovo paradgma (che lui denomina “radical management”) in 10 principi fondamentali, che rappresentano una sintesi del pensiero espresso in questo lustro dai più potenti e visionari analisti, economisti e sociologi, da Dan Tapscott a Gary Hamel (di cui spesso abbiamo discusso le idee in questo blog), ma anche dello Humanistic Management 2.0 che da molto tempo mi adopero a diffondere nel nostro Paese:
1. Dalla massimizzazione del valore per l’azionista alla completa soddisfazione del cliente.
2. Dal vantaggio competitivo sostenibile al continuo adattamento strategico.
3. Dalla pre-occupazione per l’ efficienza alla co-creazione di valore con tutti gli stakeholder.
4. Dalla catena di valore uni-direzionale alle reti di valore multi-direzionali.
5. Da gerarchie piramidali a responsabilità condivise.
6. Dal controllo burocratico all’innovazione organizzata.
7. Dal valore economico ai valori che sostengono la crescita aziendale.
8. Dal comando alle conversazioni.
9. Dalla gestione della macchina organizzativa alla cura degli stakeholder.
10. Da miglioramenti episodici a un cambiamento di paradigma nel management.
E’ interessante allora rivederli alla luce dei concetti espressi nel mio libro anche perchè, rispetto alla sua definizione generale, ci aiutano a capire cosa significa tradurre in pratica il concetto di intelligenza collaborativa.
Dalla massimizzazione del valore per l’azionista alla completa soddisfazione del cliente
La rivoluzione nel management, scrive Denning, scaturisce dal riconoscimento che il perseguimento pervasivo di profitti a breve termine dal 1970 a oggi non ha portato ad innalzare il valore delle azioni a lungo termine o a sostenere il miglioramento duraturo delle società. Ora sappiamo che al contrario questo atteggiamento ha generato diffuse pratiche illegali ed immorali pur di ottenere profitto, distruggendo aziende e minando la capacità di interi settori di competere a livello internazionale.
Oggi è ormai chiaro a tutti che solo la creazione di valore per i clienti porta profitto per gli azionisti a lungo termine. Ma focalizzarsi su questo obiettivo comporta una modalità di gestione completamente diversa e molto più redditizia rispetto a quella tradizionale. Le organizzazioni che hanno abbracciato il nuovo paradigma, come Apple, Amazon, Salesforce e Whole Foods Markets, stanno indicando quali sono quelle che, nel Manifesto dello Humanistic Management (2004) sono definite “le nuove frontiere della cultura d’impresa”. Denning identifica nell’Economia Creativa (Creative Economy) la culla dei nuovi principi manageriali. Analogamente, nella prospettiva dello Humanistic Management, l’ingrediente fondamentale del nuovo modello d’impresa è la creatività intesa come la capacità di realizzare qualcosa di nuovo, di sorprendente, di mai visto prima, destinato ad incidere, in misura maggiore o minore, su quanto avverrà in futuro. Si tratta di un elemento fondamentale dell’intelligenza collaborativa che nasce dalla capacità di essere metadisciplinari, ovvero di sapere fare riferimento, direttamente o indirettamente, a competenze specialistiche diverse da quelle che si possiedono pienamente (ha dunque alla sua base il concetto essenziale di apertura, di cui Dan Tapscott in Wikinomics ha forse per primo evidenziato la centralità. Vedi su questo anche l’approfondimento apparso su un recente numero di Business People). Per questo, la creatività richiede un ambiente sociale e culturale (online e offline) che possa alimentare le sue varie forme di espressione ponendo in connessione fra loro i depositari di saperi diversi, come indicavamo ad esempio nella postfazione alla traduzione italiana del volume The Medici Effect, riprendendo anche, come fa pure Denning, i concetti elaborati da Richard Florida ne L’ascesa della classe creativa.
C’è tuttavia un punto che l’analisi di Denning trascura: almeno alcune di queste aziende (penso ad Apple e a Google per esempio) devono la loro reddittività anche a pratiche di elusione fiscale illegali o al limite del legale: il forte richiamo ad una etica del business non retoricamente declamata ma coerentemente perseguita ritengo invece debba costituire un riferimento fondamentale, se non vogliamo che la nuova era del management faccia rapidamente la fine della vecchia. L’intelligenza collaborativa espressa dalle organizzazioni è tale se si traduce prima di tutto in una responsabile assunzione dei propri doveri nei confronti della comunità locale, nazionale e mondiale all’interno della quale possono vivere e prosperare.
Dal vantaggio competitivo sostenibile al continuo adattamento strategico
Nella emergente Economia Creativa, il vantaggio competitivo è sempre più transitorio. Come spiegato da Rita McGrath nel suo libro, The End Of Competitive Advantage (2013), un nuovo competitor vincente può venire da qualsiasi luogo in qualsiaisi momento. Non si tratta ad esempio solo di produrre surrogati a basso costo per prodotti che catturano i clienti di fascia bassa, per poi muoversi gradualmente nel settore del lusso fino a catturare i clienti di fascia alta. Interi mercati e linee di prodotto possono essere distrutti da un giorno all’altro. Per esempio, scrive Denning, quando Apple è entrata nel mercato degli smartphone nel 2007, la posizione dominante sul mercato di Nokia è stato quasi subito annichilita.
E’ interessante che Denning faccia proprio questo esempio, dimenticando però di raccontare come successivamente Nokia sia stata in grado di recuperare buona parte del terreno perduto, proprio rinnovando il proprio modello aziendale nell’ottica del Management 2.0. Lo racconta l’Amministratore Delegato di Nokia Italia Paola Cavallero, nel capitolo quarto de L’intelligenza collaborativa, descrivendo come negli ultimi tre anni Nokia abbia fatto proprio il modello della social organization.
Ad esempio, afferma, “un processo fortemente sviluppato è stato l’ascolto dei dipendenti. Abbiamo aperto una social cast chat in cui quotidianamente lo stesso CEO discute temi strategici coinvolgendo nella conversazione tutti i dipendenti. È bene sottolineare che a volte si tratta di «buone notizie», altre volte di problemi su cui si ritiene necessario attirare l’attenzione di tutti e sollecitare ogni possibile contributo utile. Due anni fa il CEO definì in quel contesto NOKIA una «burning platform» proprio con l’intenzione di diffondere in azienda un senso di urgenza sul problema, dare una corretta descrizione della gravità del momento e al tempo stesso mantenere alto l’engagement, proprio tramite la responsabilizzazione diffusa. Questo atteggiamento del top management è stato decisivo e ha consentito di ottenere eccellenti risultati in termini sia di sviluppo prodotti sia di recupero di quote di mercato”.
Dalla pre-occupazione per l’efficienza alla co-creazione di valore con tutti gli stakeholder
Poichè un mercato sempre più caratterizzato dalla centralità del cliente si sposta costantemente verso l’offerta di prodotti e servizi complessi, differenziati e personalizzati, l’importanza di aggiungere valore per i clienti ottenendo nel contempo una maggiore efficienza interna è aumentata. Come risultato, sono le aziende che hanno imparato a generare valore co-creando prodotti e servizi insieme a tutti gli stakeholder (Denning cita ancora Apple, Amazon, Salesforce e Whole Foods Markets, ma noi per esempio abbiamo fra i primi portato in evidenza casi come quello dell’italianissima Banca Ifis) a mietere sempre maggiori successi.
Così Wikipedia definisce la co-creazione, cui dedico l’intero Capitolo 11 de L’intelligenza collaborativa: “è una forma di mercato o di strategia di business e di marketing che enfatizza la generazione e la realizzazione di un valore aziendale condiviso con il cliente. Il concetto vede il mercato come un luogo dove aziende e clienti/consumatori condividono, combinano e rinnovano insieme risorse e capacita’ per creare valore attraverso nuove forme di interazione, servizio e metodologie di apprendimento. Si differenza dal modello, che possiamo definire tradizionale, dove sono presenti aziende attive e consumatori/clienti passivi.
Il valore condiviso (co-creato) aumenta nella forma di una esperienza personalizzata ed unica per il cliente/consumatore (valore in uso) e in una migliorata, più profittevole e conscia prestazione di mercato per l’azienda (fedeltà, relazione, passaparola). Il valore è co-creato con il cliente/consumatore se e quando il cliente/consumatore è in grado di personalizzare la sua esperienza usando la soluzione (prodotto-servizio) proposta dell’azienda – nel suo ciclo di vita – al livello che è il migliore per portare a termine il suo lavoro o l’obiettivo d’uso definito e, allo stesso tempo, far derivare all’azienda il maggiore valore dall’investimento nella soluzione proposta in termini di nuova conoscenza, maggiore ricavi e profittabilita’ e/o un maggiore valore di brand/marca e fedelta’ alla stessa.
Gli studiosi C. K. Prahalad e Venkat Ramaswamy introducono il concetto nel loro articolo del 2000 nella rivista Harvard Business Review, Co-Opting Customer Competence.
Essi hanno sviluppato le loro idee ulteriormente nel libro pubblicato dalla Harvard Business School Press, The Future of Competition dove offrono esempi includendo Napster and Netflix mostrando che i clienti/consumatori non sono più soddisfatti semplicemente dal dire si o no sulle decisioni di quello che una azienda offre.Il valore sara’ sempre più co-creato dall’azienda e dal consumatore/cliente, essi sostengono, anche se non totalmente creato all’interno dell’azienda. La co-creazione, dal loro punto di vista, non descrive solo una tendenza alla produzione/creazione condivisa delle soluzioni (prodotto/servizio). Essa descrive anche un passaggio dai clienti/consumatori che acquistono prodotti e servizi come transazioni a quelli che vedono questi acquisti come parte integrante della esperienza totale percepita. Gli autori sostengono che i consumatori cercano la liberta’ di scelta di interagire con l’azienda attraverso una gamma di esperienze. I clienti vogliono definire le scelte in un modo che riflettano il loro punto di vista del valore e vogliono interagire e trattare nella “lingua” e nello “stile” che preferiscono”.
Un buon post su cosa è e cosa non è la co-creazione di valore è A Co-creation Primer, nel blog harvardiano. Ma la co-creazione di prodotti, servizi, contenuti mediatici, promozioni, spot pubblicitari è oggi considerata non solo dagli studiosi di Harvard la più promettente spinta alla innovazione, alla competitività e al miglioramento del sistema offerta-domanda. Nella realtà della co-creazione, gli utilizzatori collaborano attivamente con i produttori nella ideazione, nella implementazione, nella fruizione e perfino nella promozione dei prodotti o servizi co-creati (cfr anche un altro post di HBR, Marketing Is Dead).
Spiega Luigi Ferrari in L’IMPRESA NELL’ERA DELLA CONVERGENZA:
“Non è un mistero che oggi sia sempre più difficile innovare, in un mondo in cui le tecnologie e i capitali non sono più un bene scarso e un fattore di competitività. La capacità di innovare risiede più che mai nella componente umana, e la partnership tra produttori e utenti in questo processo è un fattore vincente in tutti i campi. Ognuno dei due attori ha il suo interesse, l’utente ad avere prodotti o servizi più rispondenti, l’impresa ad avere vantaggi competitivi, di prodotto, processo, di costi. Nessuna ricerca di mercato, per quanto ben condotta, può sostituire l’interazione fra utente e fornitore, sempre che quest’ultimo sia davvero animato da uno spirito di partnership e non da un interesse egoistico, che tra parentesi oggi in Rete non resiste alla prova della trasparenza, con ricadute, allora sì, negative in termini reputazionali e reali” .
1. continua
La seconda parte di questo articolo si trova qui: L’era aurea del management è adesso. Per chi ha intelligenza collaborativa (parte seconda)
La terza parte di questo articolo si trova qui: L’era aurea del management è adesso. Per chi ha intelligenza collaborativa (parte terza)