Lo schermo e lo specchio
“In un celebre spot pubblicitario che l’azienda ha fatto realizzare nel 1984 per il lancio del suo nuovo computer Macintosh una vasta platea di persone guardava passivamente un enorme schermo nel quale spiccava il primo piano di un Grande Fratello che parlava in continuazione. Si trattava di una chiara citazione del romanzo apocalittico 1984 di George Orwell.
Ad un certo punto però una ragazza entrava in scena e distruggeva il grande schermo lanciandovi contro un martello. La ragazza rappresentava la giovane azienda Apple che voleva rompere le regole vigenti e imporre un’informatica a dimensione umana, mentre lo schermo era chiaramente il simbolo dell’IBM, la grande impresa multinazionale che all’epoca dominava il mercato dei computer.
Da allora non sono passati moltissimi anni, ma la finzione sembra essersi già avverata: il grande schermo si è frammentato in tanti piccoli schermi davanti ai quali le persone passano realmente molte ore della loro giornata. La cosa curiosa è che tali schermi molto spesso sono di un iPhone o un iPad venduti proprio da Apple. Dunque, come spesso succede, la piccola azienda alternativa ha preso il posto del suo potente avversario.
Ma ciò che è interessante soprattutto osservare è che noi viviamo in un’epoca caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di schermi. Piccoli o grandi che siano, ci accompagnano tutti i giorni nei nostri spostamenti e li incontriamo in ogni luogo nel quale ci rechiamo: uffici, negozi, strade, piazze, stazioni, ecc. Durante la nostra giornata, dunque, non facciamo che stabilire continuamente delle relazioni con qualche schermo. Persino gli eventi pubblici oggi hanno l’obbligo di essere ripresi e amplificati da schermi di grandi dimensioni. Ciò vale per i concerti musicali, per i comizi politici e persino per i festival culturali, i quali non possono fare a meno di ricorrere agli schermi, che spesso diventano i veri protagonisti degli eventi.
Se, come pensava Marshall McLuhan (McLuhan, Powers, 1992), lo schermo è solo apparentemente una specie di specchio sul quale i singoli individui e l’intera umanità possono vedere riflessa la propria immagine, mentre in realtà non è altro che un passaggio verso qualcosa, allora è il caso di chiedersi dove questo passaggio ci stia portando.
Dove cioè stiamo andando a forza di entrare continuamente all’interno degli schermi. Ad esempio, interagendo con i personaggi dei videogiochi o dialogando con degli avatar virtuali.
Cercare di capire dove i nostri passaggi attraverso gli schermi ci stiano portando è l’obiettivo primario che ci poniamo con questo libro.
Verrà perseguito attraverso un percorso d’analisi che muoverà inizialmente dalle caratteristiche possedute dal processo di rappresentazione e da quelle proprie degli schermi e si concluderà tentando di esplorare quella specie di collante che tiene insieme i vari schermi, ma anche il più ampio contesto sociale in cui essi operano: la cultura del consumo”.
Così inizia l’ultima opera di Vanni Codeluppi, L’era dello schermo, edita da Franco Angeli, affascinante percorso in 4 tappe in cui l’autore, proseguendo in una riflessione che conduce ormai da molti anni, esamina un fenomeno che riguarda non solo la vita dei Nativi Digitali come la nostra Alice postmoderna, ma quella di tutti noi: “l’invadenza dello schermo” nella nostra vita individuale e nei rapporti con gli altri.
Un tema centrale anche per chi si occupa di social organization: come rilevo ne L’intelligenza collaborativa, entro il 2016, secondo uno studio Cisco, il traffico della rete sarà per il 78% da e verso dispositivi mobili e per il 70,5% si tratterà di video. Questo significa, stando a un’altra indagine della Ericsson, un flusso di quindici volte superiore rispetto a quello attuale.
In un report dell’agosto 2012, Google afferma che già adesso il 90% di tutte le interazioni multimediali avviene attraverso schermi, soprattutto di smartphone, laptop, tablet e TV. In media, i consumatori spendono ogni giorno 4,4 ore del loro tempo libero (quindi al netto di quello dedicato per ragioni di lavoro) davanti a questi schermi.
Da società di “multitaskers” siamo passati ad una composta da “multiscreeners”, conclude Brian Solis. Analogamente le comunicazioni all’interno delle aziende stanno virando sempre più sull’utilizzo dei video e molti produttori offrono applicazioni interessantissime per crearli e gestirli in maniera sempre più facile. Cisco in particolare offre «opzioni di teleconferenza accessibili sia per i dispositivi desktop che per quelli mobili» e sostiene che «ultimamente l’utilizzo si è esteso anche ai servizi remoti nei settori sanitario e bancario, all’assistenza clienti live, ai servizi di operatore telefonico virtuale e altro ancora. Le nuove generazioni di clienti e dipendenti adottano il video in modo immediato».
Realtà e rappresentazione
Il punto di partenza del viaggio di Codeluppi “attraverso lo schermo” inizia agli albori della società occidentale, con l’invenzione della scrittura prima e soprattutto del teatro, poi: infatti, osserva citando De Kerckhove, “il teatro, invenzione greca di poco successiva a quella dell’alfabeto, è il modello più evidente dell’effetto della scrittura che ha sostituito il pensiero all’ascolto. Il teatro ci ha insegnato a vedere invece di udire gli insiemi simbolici, ci ha educato al punto di vista…
Lo spettatore del teatro, pertanto, ha imparato a vedere in qualità di osservatore esterno le esperienze dei personaggi rappresentati e ad adottare mentalmente il punto di vista di tali personaggi”.
Probabilmente però, sostiene Codeluppi, è solo a partire dalla fine del Seicento che l’idea di poter costruire attraverso le capacità proprie della mete e della fantasia umane una realtà artificiale dotata di una tale forza da potersi contrappore alla “vera realtà” è diventata realmente importante nelle società occidentali. Condivido a pieno questa idea che del resto ho espresso anche nel Manifesto dello Humanistic Management: “è l’approccio dicotomico ad essere centrale nella costruzione e nel consolidamento del concetto di modernità. Per l’esperienza organizzativa le dicotomie più importanti sono quelle tra pianificazione strategica e azione, tra razionalità ed emozione, tra realtà e possibilità. Ma il moderno è, più in generale, il tempo della separazione, diretta conseguenza delle divisioni innestate dalla scienza nel ‘500 e che riconosce nella meditazione cartesiana il riferimento non solo simbolico. Su questa base, tutto viene sottoposto al vaglio di razionalità autoreferenti che non sono per definizione contenute nell’ordine ereditato dalla storia. Il mondo moderno (dice Coleman) deve essere ricostruito razionalmente: dunque, le gerarchie precedenti vanno messe alla prova, decostruite, costrette a giustificarsi. Tuttavia, la modernità non è il regno della fluidità perché propone proprie rigidità e propri criteri di ordinamento: oltre la separazione delle sfere, la costruzione di ordinamenti sociali razionali (e dunque rigidi) in ciascuna di esse, la delega ad automatismi, la riduzione della complessità che in precedenza alimentava il mondo della vita. Paradossalmente, però, la modernità è segnata dal progressivo emergere di una crisi nella certezza della dicotomia fondamentale: quella fra “realtà” e immaginazione. Sotto questo profilo, potremmo dire che il meccanismo schiacciasassi della modernità, macchina per la produttività che deresponsabilizza gli attori e depotenzia la politica, nasce già con delle crepe, invisibili alla superficie, che minano irreparabilmente le fondamenta di quello Scientific Management che di essa è una delle espressioni estreme” (Seconda Variazione Impermanente).
In questo quadro, Codeluppi sottolinea l’importanza fondamentale della nascita del romanzo moderno e dl ruolo svolto dal teatro elisabettiano (imprescindibile punto di riferimento anche dello Humanistic Management, a partire dall’esperienza della rivista Hamlet): “Da questo punto di vista, il ruolo giocato dal teatro è stato ancora una volta fondamentale. Infatti in Inghilterra, prima del Cinquecento, il mondo della rappresentazione teatrale e quello della realtà tendevano a confondersi. Ciò spiega perché i ruoli degli attori venissero attribuiti a delle persone che nella realtà facevano lo stesso mestiere o qualcosa di simile. Ma progressivamente il mondo teatrale si è reso autonomo. Anzi, ha cominciato ad essere percepito come tanto più vero quanto più si rendeva indipendente dalla realtà che rappresentava, cioè quanto più si trasformava in finzione”. Analogamente nella Seconda Variazione Impermanente scrivo: “Guardiamo ai testi fondativi della modernità. Il dubbio circa la struttura e la stessa consistenza ontologica del reale è al centro delle rappresentazioni teatrali che Shakespeare crea in Inghilterra sul finire del sedicesimo secolo e nei primissimi anni del diciassettesimo; caratterizza in Spagna la nascita del romanzo con il Don Chisciotte, apparso pochi mesi prima del Re Lear, nel 1605; induce Galileo a leggere il linguaggio matematico in cui è scritto il “grandissimo libro” della natura, confutando, nel Discorso sui massimi sistemi, che è del 1632, la concezione aristotelica del mondo sia pure, cautamente, come “pura ipotesi”, mentre il poeta Calderon della Barca proclama, senza mezzi termini, che “la vita è sogno” nel 1635; provoca la fondazione del nuovo metodo filosofico del francese Cartesio, che pubblica il proprio Discorso nel 1637. Si capisce dunque come mai questo periodo vede la straordinaria fortuna di concezioni politiche basate sul confronto con il “non luogo” introdotto da Tommaso Moro sul modello della Repubblica platonica un secolo prima, con intuizione anticipatrice, ma che solo adesso è visitato da molti illustri viaggiatori: basti citare la Città del Sole di Campanella, del 1623 o la Nuova Atlandide di Bacone, pubblicata postuma nel 1627″.
A partire da qui si è sviluppata la storia della modernità che, nel corso del Novecento, ha portato alla comparsa di “nuovi strumenti elettrici di comunicazione (radio, televisione, ecc.), i quali hanno cercato anch’essi di svolgere la stessa operazione di astrazione dei media cartacei.
Ma è stato negli ultimi decenni, grazie soprattutto all’enorme sviluppo che ha caratterizzato le tecnologie mediatiche e informatiche, che le rappresentazioni della realtà hanno assunto un ruolo sempre più significativo all’interno della cultura sociale. Raffaele Simone (2012) ha sostenuto però che lo schermo del computer non si limita ad offrirci una semplice rappresentazione della realtà, bensì ci presenta una realtà intensificata che, in quanto tale, appare agli individui come maggiormente affascinante e convincente della realtà vera e dunque tende sempre più a sostituirla”.
Codeluppi apre qui una digressione sul tema del doppio, delle copie e dei simulacri, che da Platone passa attraverso Baudrillard e P.K. Dick, per arrivare alle esperienze contemporanee del consumo: “oggi dunque le esperienze individuali sono sempre più vissute attraverso la rappresentazione che ne danno i media e non è un caso pertanto che si parli frequentemente di «realtà aumentata», cioè di trattamento mediatico che riproduce il reale arricchendolo e migliorandolo. Il gigante svedese dell’abbiglmento H&M, ad esempio, ricorre abitualmente per le sue pubblicità e i suoi cataloghi a modelli e modelle perfetti dal punto di vista estetico perché generati totalmente al computer mediante programmi di fotoritocco. E questa prassi oggi è molto diffusa”.
Si comincia così ad intravedere la posizione fortemente critica di Codeluppi nei confronti del fenomeno che sta analizzando e che si manifesterà sempre più chiaramente via via nel corso del libro, ma che è già denunciata dalla scelta di definirlo come “l’invadenza dello schermo”.
Un esito che, lo dico fin d’ora, non condivido, almeno se espresso in termini così nettamente manichei, mentre ritengo ancora valida l’affermazione contenuta nella Terza Variazione Impermanente: “Non sorprende perciò che, nel transito dal moderno alla contemporaneità, si è passati da un sostanziale discredito dell’immaginario, inteso come “non aderente al vero” e quindi “falso” e per ciò stesso “immorale”, a una sua valorizzazione.
Se reale è “ciò che è in atto”, immaginario appare come “ciò che è in potenza” (l’attributo virtuale condivide la stessa radice del sostantivo latino virtus, che significa “forza, potenza”, appunto). Entrambi i termini esprimono quindi una realtà, ma il secondo appare più ricco, in quanto legato a una pluralità di ipotesi e possibilità. Ciò che è in atto non può che essere come è, mentre l’essere virtuale è – al tempo stesso – molteplice”.
Alice annotata 46. Continua.
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