Il viaggio di Alice in Wonderland, abbiamo detto nella Nota precedente, è anche una fuga dalla “caserma” della modernità solida, dallo Scientific Management, che coincide con un percorso di scoperta e di affermazione della propria identità liquida e multiforme e che trova la sua massima espressione nel desiderio di scrivere le proprie avventure in un libro fatto di “immagini e conversazioni”. Ovvero nel gesto tipico che il Nativo Digitale compie ogni giorno e più volte al giorno specialmente all’interno dei social network. Tuttavia, proprio come Alice ben presto scopre che Wonderland non è il regno della pura libertà, ma vige in molti suoi luoghi il modello militare dello Scientific Management, così accade alle Alici postmoderne che surfano nella Rete.
Spiega molto bene questo punto Maurizio Ferraris in Anima e iPad. La svolta del post-industriale “è stata spesso interpretata come una forma di pura emancipazione, al limite di superamento del lavoro, quando invece si manifesta come la massima estensione dello sfruttamento che la storia umana abbia mai conosciuto… La tesi è semplice: ogni sistema di emancipazione è al tempo stesso un sistema di controllo. Le macchine emancipano le persone dalla fatica fisica più dura ma le consegnano al lavoro industriale. Internet si presentava, al suo apparire, come la liberazione dal lavoro e come un contropotere. In realtà, come era del tutto immaginabile, ha introdotto un nuovo lavoro e un nuovo potere. Questo non toglie nulla ai meriti di Internet, proprio come il taylorismo non toglie nulla ai meriti delle macchine, ma è un elemento che non può essere sottovalutato… Sotto il profilo del potere abbiamo infatti la registrazione totale. Tutte le transazioni, tutti gli scambi, e soprattutto ogni nostra ricerca su Internet, vengono tracciati da grandi entità sovranazionali, che esercitano un controllo tanto più capillare in quanto sono i controllati a fornire volontariamente informazioni su di sè”.[i]
La questione sollevata da Ferraris è certamente cruciale: entità come Google da una parte e Facebook dall’altra (diciamo in generale motori di ricerca e social network) ogni giorno che passa sembrano aumentare la pressione della morsa con cui controllano ogni aspetto della nostra vita pubblica e privata.
Ancora una volta, un tema anticipato dalle visioni di Carroll, come sa bene chi ricorda il promo della seconda stagione della serie Poland’s Next Top Model, che comprime in poco più di un minuto una grande quantità di simbolismo riferibile all’immaginario del controllo mentale basandosi sulle avventure di Alice. La sequenza comprende una quantità innumerevole di simboli e attivatori del controllo mentale quali: riflessi distorti allo specchio, tazze di thè “drogate”, farfalle, eccetera. Non diversamente dallo spot della Versace per H&M (descritto e visibile in questo articolo ed in cui le modelle diventano “cloni” creati in serie da una catena di montaggio), il video si apre con la figura di un Handler – ruolo interpretato dalla top model Joanna Krupa. Vestita di un abito bianco e nero a scacchi, che prolungandosi diventa un pavimento che rimanda alla scacchiera in cui si muove la protagonista di Attraverso lo specchio, guarda verso le modelle, che vagano per un labirinto, manipolandole a comando. Come i Top Manager delle aziende fordiste, vive nell’illusione, anzi nel delirio onirico di avere il controllo su tutti gli aspetti del labirinto, compreso il tempo.
Il rischio di cadere nell’illusione del Controllo Totale si pone così anche quando affrontiamo la trasformazione di quei labirinti che sono le aziende (cfr. Nel labirinto) in social o collaborative organization.
Scrive Bartezzaghi nell’introduzione a Lavorare o Collaborare?: “Se è vero che i social media consentono di spostare l’attenzione dal processo di lavoro e dalle attività al risultato, vi è comunque il rischio di un diverso utilizzo degli strumenti che si traduce invece nell’intensificazione del controllo, a partire da quello sul tempo/orario di lavoro, fino all’invasione della privacy individuale. Esempi non ne mancano: si pensi all’orario di risposta nelle email oppure alle annose polemiche legate alla videoregistrazione dei lavoratori, alla audioregistrazione delle telefonate degli operatori dei call center, alla geolocalizzazione possibile anche quando non si lavora. Queste considerazioni confermano ulteriormente che le tecnologie, in quanto tali, non portano verso un modello piuttosto che un altro, ma rendono possibili diverse pratiche e quindi la differenza è data dal disegno organizzativo che sta alla base del loro utilizzo”.
Anche per questo è così importante supportare l’introduzione di tecnologie collaborative con processi di change management che aiutino a ridisegnare prima di tutto il modello cognitivo e culturale che pervade l’organizzazione, trasformandola da Istituzione Totale, in cui il talento individuale viene svilito, irreggimentato, svuotato, a Mondo Vitale, dove il talento individuale viene portato alla luce (fatto “emergere”), sviluppato e messo al servizio dell’intelligenza collettiva.
Ma cosa intendiamo esattamente con il termine Mondo Vitale? Come viene indicato nel Manifesto dello Humanistic Management, in particolare da Piero Trupia, “Mondo Vitale” è, secondo Erwing Goffman, un sistema relazionale guidato nella sua performance collettiva da convincimenti condivisi aproblematici e da empatia sistemica, dove “sistemica” equivale a “non occasionale” ma “strutturale”. Come in un quartetto d’archi, in una compagnia teatrale, in una équipe sportiva che vince, in un laboratorio di ricerca o in uno studio di professionisti associati. E, aggiungo, in molte piccole e medie imprese italiane nelle quali il genius della empatia sistemica vige, perché è connaturato al carattere nazionale. E’ il sogno espresso nell’Episodio 107 de Le Aziende In-Visibili: “Piccoli mondi umanamente vitali crescono e cercano di resistere all’entropia montante del non senso: una jazz band, un’orchestra sinfonica, una squadra di football, una barca a vela, un laboratorio di ricerca, un’associazione no-profit, un circo, una compagnia teatrale, una comunità di pratica. Zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono ad una forma, ad un senso sia pure non definitivo, non fisso, non inghiottito in una fissità minerale o nella vuotezza spirituale, perché priva di cattiva coscienza, degli animali.”
La domanda allora è: le community online possono essere Mondi Vitali in cui instaurare relazioni autenticamente empatiche? Anticipo che la mia risposta è senz’altro positiva (non a caso avevo lanciato il social network di ideatre60 con una value proposition che recitava: “Intelligenza Collettiva per un Mondo Vitale”). Il punto sta nel capire in cosa consiste questa empatia, questa necessità di condivisione che crea i legami, siano essi “forti” o “deboli” (cfr. The Collaborative Organization. Parte Seconda: La forza dei legami deboli) e, dunque, in ultima analisi, ciò che definiamo Engagement. Torneremo su questo nella prossima Nota.
Per il momento a coloro che condividono la visione claustrofobica, panoptica, orwelliana dei social network di Ferraris suggerisco di riflettere sull’Episodio 40 de Le Aziende In-Visibili, intitolato Identità liquida. Qui si descrive il Porto Commerciale di Liquor, metafora perfetta di luoghi virtuali come Facebook e dell’impossibilità di sottoporre coloro che li abitano al modello del Comando e Controllo. “Dopo una lunga traversata nel paesaggio desertico e polveroso si giunge al Porto Commerciale di Liquor. Luogo liquido senza una goccia d’acqua. Luogo che vede la presenza di ponti lignei, che scavalcano canali metafisici come in un quadro di Giorgio De Chirico. Gli abitanti si muovono leggeri per le strade del villaggio di un bianco andaluso, appaiono e scompaiono come luci nella notte. Gli uomini, le donne, i bambini, presentano contorni indefiniti, come se fosse difficile mettere a fuoco la loro immagine singola e singolare. Non piove da secoli o forse qui non ha mai piovuto. L’aria brucia la gola secca del viaggiatore. Si cerca l’acqua, si sognano i pozzi, si immaginano i fiumi che forse un tempo solcavano il deserto. Chi arriva non può sopravvivere, deve ripartire immediatamente, se non vuole morire disidratato: eppure gli uomini sono qui da tempo immemorabile. È questo il mistero di Liquor. Non si capisce quali siano le condizioni minime di sopravvivenza in questa città: in qualsiasi altra parte del mondo bisogna bere, dissetarsi, per sopravvivere. Qui no. Come se gli abitanti vivessero in una condizione di liquidità mentale. Chi vive a Liquor non ha bisogno di bere, poiché conosce la condizione esistenziale dell’identità liquida. Anche se la polvere regna come prodotta da un sudario, da secoli a Liquor le relazioni sono liquide: ognuno si incontra con l’altro in un flusso permanente di emozioni ed esperienze che vengono vissute con intensità ma immediatamente dimenticate. Quando incontri qualcuno non sai se sia già stato parte della tua vita o meno. Le storie si intrecciano, si sovrappongono e si perdono nella dimensione dell’amnesia. Le identità delle persone si sciolgono nel liquido amniotico del Porto, che restituisce di tanto in tanto frammenti personali paragonabili alla sabbia finissima prodotta dai detriti di conchiglie che vanno a formare le isole più spettacolari del mondo. Frammenti di identità che nessuno può ricostruire o ricordare e che contengono l’intensità fulminante di esperienze momentanee, uniche e irripetibili. Così si produce questo velo permanente di polvere biografica, che non si sedimenta né si calcifica. Così Liquor diventa meta di incontri che moltiplicano le emozioni collettive ma che si perdono nella memoria personale: tutto viene invece registrato e archiviato nella memoria sconfinata e inaccessibile del Porto, che registra i nomi e racconta le biografie. Nei sotterranei accessibili solo al Capitano – sempre lo stesso da centinaia di anni (c’è chi dice sia solo un simulacro) – si conserva la memoria incarnata di Liquor e della sua popolazione. La sua storia, gli eventi che ne hanno plasmato la vita collettiva, l’origine e la costruzione dei palazzi: alte torri di argilla che assomigliano alle case di Saana, nella terra in cui governava la regina di Saba. È così che Liquor diventa il luogo delle identità liquide, dei flussi vitali, delle storie disincarnate, dei corpi senza memoria. Ma nello stesso tempo il luogo-archivio, il luogo che non dimentica, schedando inesorabile la vita di tutti. L’unico che può leggere è il potere. Il Capitano è convinto di tenere così tutti sotto controllo, conoscendo ogni particolare della vita di ognuno: ma in realtà non controlla nulla, poiché le persone dimenticano la propria identità e non sono quindi né prevedibili né ricattabili. Essi vivono tutto per la prima volta e il loro cervello è una tabula rasa su cui scrivere come sull’acqua”.
Alice annotata 41. Continua.
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[i] Maurizio Ferraris, Anima e iPad, p. 63