La città dominata

“Vincere” di M. Bellocchio con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, sceneggiatura di Marco Bellocchio e Daniela Ceselli, prodotto da OffSide, Rai Cinema, Celluloid Dreams Productions; in collaborazione con Istituto Luce, 2009

 

Il giovane Mussolini giace sopra il corpo di Ida Dalser, la sua giovane amante trentina, ansimante, tutta tesa nell’accoglierlo nel lungo attimo di un incontro d’amore. Ma il giovane Mussolini, attivista socialista e giornalista dell’Avanti non è li, non è in quella stanza e non avverte la presenza fisica ed emotiva di quella giovane donna; il suo sguardo, ripreso in primo piano dalla macchina da presa di Bellocchio, mira lontano, verso uno spazio infinito che gli predescrive il destino cui crede di essere chiamato. E’ una, questa, delle scene più dense dell’ultimo film di Marco Bellocchio, narrazione intimistica, quasi dettata da una passione cronachistica per una microstoria, degli amori travagliati di Ida Dalser per il giovane Mussolini, dal quale avrà un figlio, Benito Albino; una storia che per la giovane di Trento è amore assoluto, devozione totale, fede cieca in un legame che sente come impossibile non venga riconosciuto e che, all’opposto, per il giovane giornalista socialista e successivamente capo del movimento fascista, è poco più che un’avventura giovanile, uno scarto della vita, un ingorgo dal quale occorre assolutamente liberarsi.


Le relazioni di potere, lo ha ricordato Foucault, toccano pervasivamente le relazioni umane e caratterizzano da punti di vista diversi la vita delle persone all’interno delle organizzazioni e della famiglia. Tutte le volte che le relazioni di potere non sono mobili e non consentono ai diversi attori possibilità di mutamento e diventano fisse, diventano relazioni di dominio nel senso che si cristallizzano, creano immobilismo e non consentono alle donne e agli uomini che vi partecipano, spazi di cambiamento: “se le relazioni di potere tendono a mantenere rigide le gerarchie e le dissimmetrie esistenti tra coloro che vi partecipano oppure i partecipanti usano tutti i mezzi fisici e simbolici per conservare la loro posizione entro il sistema di relazione dato, allora esse si trasformano in stati di dominio”[1]

Tutti i partecipanti di questa storia, Mussolini ovviamente lungo tutta la sua evoluzione e Ida Dalser e il giovane figlio nato dal loro amore, sono prigionieri di una relazione di dominio che impedisce loro di cambiare. Chi soffrirà di più è la giovane ardente donna di Trento, che non solo ha amato il giovane Mussolini, ma continua ad amarlo per tutta la vita, credendosi accomunata in un obbligato destino di gloria. In questo gorgo dove la coppia genitoriale è dominata  da un rapporto sado-masochistico, precipita anche il figlio, frutto contrastato, che, lungo questa attrazione per un destino segnato, finisce per perdersi come la madre. La incapacità di uscire da una relazione di dominio reciproca e ricorsiva accomuna i tre protagonisti di questa tragica micro storia italiana anche se, ovviamente, con prospettive e conseguenze diverse. Quando il giovane Mussolini assurge al potere e diventa il gestore onnipotente dei destini di tutti gli italiani, usa il suo potere di dominio per tenere lontana dalle trame quotidiane di chi vive l’irruzione del reale e per nascondere le fattualità dietro spesse cortine nebbiose, tessute con diligenza da zelanti religiosi, da zelanti magistrati, da zelanti medici, gente disposta ad ogni mercimonio pur di apparire degna di una fiducia piena di miasmi concessa loro dal potere.

Nella narrazione filmica esemplare di Bellocchio un grande ruolo è giocato dal cinema nel cinema, con citazioni eloquenti di pezzi d’archivio storici e di citazioni di grandi autori – tra tutti Charlie Chaplin – capaci di impreziosire splendidamente il risultato già alto dello sguardo cinematografico del nostro autore.

A cosa si può pensare uscendo meditabondi dal buio del cinema, esauriti i titoli di coda, e riconquistando la luce ? Si va inevitabilmente al nostro povero presente così incapace di imparare dal passato e così sordo di fronte alla deriva quotidiana della nostra cultura civile.

 

Giuseppe Varchetta


[1] A.M.Jacono, Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, 2000, pag. 33