Devo una risposta a Francesco Varanini che, nel suo Bloom, ha pubblicato una nota relativa a Le Aziende In-Visibili, in cui riassume i termini di un dibattito che fra noi abbiamo svolto in forma di lunghe chiacchierate in varie occasioni nel corso dei due anni di gestazione del romanzo.
Premetto che io e Francesco ci conosciamo da una dozzina di anni e abbiamo condiviso parecchie esperienze: Francesco, che per me è stato innanzitutto, fin dai primi anni Novanta, il maestro che ha fatto scoprire la possibilità di usare la letteratura per leggere l’impresa, è stato poi fra i contributori di Hamlet (la culla in cui è nato e per sette anni è cresciuto il concetto stesso di Humanistic Management), ha tenuto una rubrica fissa su Personae (la rivista che ho fondato e diretto per due anni in ambito ENI), è stato uno dei “dodici apostoli” del Manifesto dello Humanistic Management. E io a mia volta ho scritto molto per il suo mensile Persone e Conoscenze.
Non potevo dunque non coinvolgerlo nell’esperienza de Le Aziende In-Visibili, nonostante la sua conclamata avversione a Calvino, che peraltro non ha mancato di esprimere nell’Episodio realizzato per il Romanzo collettivo. Fra l’altro dando proprio in questo modo un contributo essenziale: in un opera ispirata da Calvino, in cui non solo Le Città Invisibili sono state rielaborate, ma in realtà tutta l’opera saggistica e narrativa è stata ripensata e “tradotta”, non poteva mancare un punto di vista anti-calviniano. La complessità del reale che il Romanzo tenta di ripercorrere e di riflettere è fatta anche di opinioni divergenti, di gusti diversi, di intelligenze che dialogano e se necessario discutono accanitamente. Come insegna Morin possiamo pensare di comprendere, almeno in parte, la Complessità solo se adottiamo un approccio razionale, ovvero di confronto e di apertura al mondo, che è il contrario del razionalismo riduzionistico di chi si illude di poter ricondurre tutto ad un’unica Verità, ad una formula, ad una Legge, come è tipico dello Scientific Management cui da sempre cerchiamo di proporre una alternativa.
In questo quadro inoltre mi interessa riprendere una specifica osservazione di Francesco.
“Invece di un’opera che si mette in scia, invece di un’opera che cerca vantaggio nel richiamo all’opera di Calvino, avrei voluto leggere un’opera dove Marco Minghetti mette in gioco Marco Minghetti. Siamo tutti autori deboli, certo, ma ognuno di noi ha qualcosa da dire, qualcosa legato alla propria storia personale, alla propria cultura, all’etica e ai desideri e al carattere. Perché non provare a tirarlo fuori? Borges, Dick, Perec, Cortázar, adottano una cifra personale che Calvino non seppe mai portare alla luce. Mi piacerebbe conoscere di più della cifra personale di Marco.
Invece molto si perde, anche nella sua introduzione, nella descrizione del gioco e delle sue regole, nel mare di citazioni.”
Ecco, questo è per me un punto chiave. Il fatto è che, a differenza di Francesco che si sente e si sente fortemente e giustamente un autore, per quanto debole, io mi riconosco soprattutto nel ruolo del regista, più che dello scrittore. Diciamo che mi sento a mio agio in un ruolo che nel cinema è tipico di quei registi che sono anche attori del film che dirigono. O di quei jazzisti che sono leader di una band e allo stesso tempo suonano uno strumento, facendo però un passo indietro, o accompagnandoli con discrezione, quando sono i membri della band a fare il loro assolo nella jam session. La mia responsabiltà di Direttore Artistico è stato appunto quella di creare un frame accogliente dove ogni Mutante potesse esprimersi liberamente ma nel rispetto di un contesto comune. Come del resto ho sempre fatto nelle esperienze sopra ricordate cui anche Francesco a partecipato e continuo a fare come “metablogger” qui su NOVA100.
Questo ragionamento infine ha qualcosa a che fare con quanto scrive Filippo La Porta oggi sul Corriere: “Sull’Avvenire Alfonso Berardinelli e Massimo Onofri hanno riproposto la questione del «romanzo italiano assente ». In particolare Berardinelli ha ricordato la caratteristica peculiare del romanzo secondo E.M. Forster: only connect. Una attitudine — a connettere — secondo lui estranea alla maggior parte della narrativa italiana contemporanea… Berardinelli si chiede poi, legittimamente: se ognuno vuole scrivere il proprio romanzo, chi mai scriverà il romanzo di tutti? Eppure solo se uno vuole davvero scrivere il «proprio» romanzo scriverà forse il romanzo «di tutti». Guai invece a voler scrivere programmaticamente il romanzo «di tutti»! Ci si limiterebbe a parlare delle cose più in voga, insomma della schiuma del presente… Soltanto calandosi rischiosamente nel proprio io a una certa profondità si potrà forse trovare il noi.”
Io credo che Le Aziende In-Visibili possa indicare una strada che mette d’accordo Belardinelli e La Porta: la strada di una scrittura collettiva basata su un complesso gioco di connessioni che passa proprio per la ricerca di un equilibrio fra l’espressione del romanzo individuale e quello collettivo. Nella consapevolezza che ognuno è veramente sé stesso quando si racconta agli altri e al tempo stesso accoglie il racconto altrui, generando un processo collettivo e sempre rinnovato di generazione di senso.