Da Le Città Invisibili… a Le Aziende In-Visibili, 34. L’azienda come metafora della società

AutunnoCresce l’attesa per la presentazione ufficiale del romanzo Le Aziende In-Visibili, che si terrà presso la Triennale di Milano il 21 ottobre con questo programma:

 

 

 

Martedì 21 ottobre 2008 ore 18.00
Salone d’Onore
Triennale di Milano – via Alemagna, 6

presentazione del volume

Le Aziende In-Visibili
Romanzo a colori di Marco Minghetti
& The Living Mutants Society
con 190 immagini di Luigi Serafini

intervengono
Armando Massarenti
Marco Minghetti
Francesco Morace
Giulio Sapelli
Luigi Serafini
Alessandro Zaccuri

Chairman:
Gian Paolo Serino

In platea sono inoltre attesi molti dei 99 co-autori ed altri illustri ospiti. Intanto la discussione su forma e contenti dell’opera, che si era già aperta qualche giorno fa sul sito di Ibridamenti e che avevamo ripreso qui, è stata oggi rilanciata sul prestigioso blog letterario de L’Espresso Letterattitudine.

Qui Massimo Maugeri propone molti materiali del romanzo in anteprima: stralci dall’introduzione e il testo dell’Episodio da lui realizzato, rilettura della città calviniana di Adelma. Sarà molto interessante vedere come si svolgerà la discussione sul sito gestito da Massimo, frequentatissimo da persone estremamente competenti, come dimostra l’immediata reazione di Sergio Sozi, che, oltre a porre un paio di questioni tecniche cui risponderò direttamente su Lettarattitudine, pone una questione assolutamente rilevante: “Questa: se giungeremo, perfino in Letteratura, a rendere l’azienda rappresentativa della vita collettiva della nostra epoca, ho pronta la pistola sotto al letto – come i partigiani degli anni Quaranta, solo che mentre loro sparavano ai dittatori e ai loro sostenitori io sparerei al fantasma della pazzia dominante questa nostra era. E la pazzia e’ difficile da accoppare, essendo ubiquitaria. E non mi si venga a dire che l’azienda del Duemila e’ il corrispettivo moderno della borghesia trecentesca: i ”mutatis mutandis” da sottolineare a proposito sarebbero troppi e il paragone a mio avviso sarebbe insostenibile. L’azienda e’ l’alienazione, non la vita umana del XX secolo. Almeno spero.”

Devo dire che già mentre sto scrivendo questa nota alcuni lettori di Letterattitudine hanno reagito con parole che condivido totalmente. Ad esempio Simona lo Iacono con grande lucidità scrive: “L’idea di utilizzare l’azienda come metafora della contemporaneità è assolutamente in linea con la poetica calviniana, con la sua “utopia pulviscolare”. Proprio ciò che sembra finito, costruito, definitivo, come una città (o come l’azienda) nasconde al suo interno una grande trappola. L’idea che non sia modificabile. E che questa immobilità sia frutto di un grande sforzo razionale. Di un’astrazione compiuta. Capace di offrire una risposta.E invece c’è una Città in ogni città. E imperfezione nella perfezione. C’è nell’apparenza di razionalismo che domina la vita moderna, un’emotività disordinata. Distorta.E non c’è arrivo. Non c’è risposta. Perché la città che sembra città, non è il frutto di un progetto. Di un percorso dialettico. Di una mappa.

Calvino si distaccava dalle tesi di Max Weber e dalle diagnosi di coloro che ritenevano che l’alienazione moderna fosse il frutto di un “sistema” rigidamente finalizzato. Razionale. Coglieva piuttosto un andare confuso. Un’irrequietezza irrisolta. Timore.E vedeva oltre il cemento. Oltre le griglie dei palazzi. Scorgeva nell’apparente staticità un movimento parallelo. Dubbioso. Palpitante. Piuttosto che a un prigioniero colpevole di essersi costruito da sé una gabbia, l’uomo di Calvino somiglia a un superstite che si aggira tra le macerie. Tra sabbie mobili che non nulla possiedono della consistenza del piede ben piantato. Sicuro.

Credo quindi che l’azienda come la città, sia una sintesi della stessa crisi. Della stessa incertezza delle città calviniane. Ora più che mai, lungi dall’essere lo sbocco di un progetto razionale, di un punto d’arrivo, l’azienda è l’involucro patinato di paure striscianti. Sotterranee. Invisibili. Dentro quello spazio, mille altri spazi – tanti quanti le ombre che lo popolano, e i sogni che lo abitano – sono ipotizzabili.”

Di questo tema avremo modo sicuramente di parlare ancora molto, a partire dall’evento di martedì prossimo in Triennale. Vorrei però fin da ora sottolineare che mi sembra molto difficile non ammettere che oggi non solo la metafora dell’azienda si applica alla gran parte di quella che Bauman ha chiamato la “modernità solida”, che resiste vigorosamente a tutti gli attacchi portati dalla complessità sempre più “liquida” del mondo in cui viviamo; ma soprattutto è un certo MODELLO MENTALE AZIENDALISTICO che è ormai diventato il modo di pensare e di agire di tutti noi. Basta pensare che viviamo in un Paese in cui un Partito-Azienda ha stravinto le elezioni. Il punto è allora un altro, ovvero: questo modo di pensare è a) etico, b) efficace anche ai fini della produzione economica, c) ricco di futuro? la mia risposta è no, a tutti e tre i quesiti. Non c’è dubbio che oggi l’azienda è quell’inferno privo di significato descritto perfettamente dai fratelli Coen nella prima scena di Burn after reading (e siccome non più tardi di qualche mese fa ho vissuto nella mia realtà personale proprio quella scena nel ruolo rivestito nel film da John Malcovich, posso dirlo con assoluta certezza). E a mio avviso non è un caso che i fratelli Coen partano dal mondo aziendale per poi mostrare come l’entropia del significato invada tutta la nostra società. E’ il risultato della resa senza condizioni di (quasi) tutti noi al modello (mentale, prima ancora che organizzativo) dello Scientific Management che domina da almeno 100 anni (senza tornare ad Adam Smith, I Principi dello Scientific Management di Taylor sono del 1911) aziende e organismi sociali. Università come Harvard, istituzioni come la McKinsey, strumenti di comunicazione come la Televisione generalista attuale sono fra i protagonisti di questo processo.

Che fare? Ce lo dice lo stesso Calvino nella pagina più celebre, quella conclusiva,  de Le Città Invisibili:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Che nel nostro romanzo diventa:

Esclama Fordgates: – Come si può credere che vi siano manager interessati alla letteratura, alla cultura, all’umanesimo! Non sopporto più di sentire ripetere che la bellezza salverà il mondo!

Replica Deckard: – Forse affermare che la bellezza salverà il mondo è esagerato, però una cosa è certa: se non facciamo attenzione, la bruttezza lo distruggerà.

– L’estetica è dunque un’etica?

– La capacità manageriale di vedere, oltre l’usato, l’originale e il bello, genera un’etica e quindi una politica, anzi una poetica, per cui ciascuno può abitare l’azienda, invece di limitarsi ad occuparla, creando lo spazio in cui la qualità individuale sorge e prospera, divenendo bene collettivo.

– Utopie. Se la Verità e la Giustizia sono di Sinistra, la Bellezza e il Talento sono di Destra. Genio di massa è un ossimoro.

– La bellezza non risiede in una astratta “genialità” ma nella concreta singolarità. L’organizzazione che, in nome di una Bellezza prescritta, omologa tutti ad un unico modello, nasce già morta; ma è possibile anche una impresa conviviale e partecipativa – di più, erotica – dove tutti possono fare risplendere la propria bellezza singolare, riflettendosi in quella altrui.

– Liberation management, rivoluzione creativa? Questa è vecchia.

– Non serve scatenare rivoluzioni, ma portare avanti il minuscolo, quotidiano, lavoro di cura verso noi stessi e gli altri. Raccogliersi su qualcosa in apparenza non così importante, ma che è nostro, e farlo durare.

– Sogni, sogni, sogni. Sveglia Deckard!

– Sognare? Forse…. Ma non credere al potere dei sogni ha un’unica conseguenza: lasciare che le cose restino l’inferno che sono.

In apertura: Autunno,  di Luigi  Serafini