Due giorni fa sulle pagine centrali del Corriere della Sera Alessandro Baricco e Claudio Magris discettavano delle ormai ben note tesi baricchiane (brutto…bariccose? no sembra una malattia , tipo le vene bariccose…barrichelle? No, sembrano le monellerie di un pilota sfigato…barricadere? Il buon Alessandro non ce lo vedo proprio a fare un qualsiasi tipo di rivoluzione… Insomma, fate voi) sulla “civiltà dei barbari”. Uno scambio radical chic fra due vati (o fra due che se la tirano parecchio da vati, diciamo l’uno entrante e l’altro uscente) del tipo:
“Magris: Baricco cerca di descrivere — o, nei suoi romanzi, di raccontare — e soprattutto di capire il mondo, anziché deplorarlo, e sostiene giustamente, nel bellissimo finale de I barbari (Feltrinelli), che ogni identità e ogni valore si salvano non erigendo una muraglia contro la mutazione, bensì operando all’interno della mutazione che è comunque il prezzo, talora pesante, che si paga per un grande progresso, per la possibilità di accedere alla cultura data a masse prima iniquamente escluse e che non possono avere già acquisito una coerente signorilità «Se tutto va compreso — gli chiedo incontrandolo nella sua e un po’ anche mia Revigliasco— non tutto va accettato. Tu stesso scrivi che occorre sapere cosa salvare del vecchio — che dunque non è tale — in questa totale trasformazione. Questo implica un giudizio, che non identifica dunque, come oggi si pretende, il valore col successo. Anche Il piccolo alpino vendeva un secolo fa tante più copie delle poesie di Saba, ma non per questo chi lo leggeva capiva meglio la vita. Se i giornali — come dici — non parlano di una tragedia in Africa finché non diventa gossip di veline o di sottosegretari, non è una buona ragione per non correggere questa informazione scalcagnata prima ancora che falsa. Del resto è quello che fanno tanti blog, in cui si trova spesso più «verità» che nei media tradizionali. I barbari ci aiutano quindi forse anche a combattere la barbarica identificazione del valore col successo».Baricco — Certo, non tutto va accettato, hai ragione.”
Oppure: “Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è pateticamente out, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che…».
Baricco — «È capitato che…», bellissimo.”
Se già provate un accenno di mal di stomaco davanti a tante sdolcinatezze, allora non avete il fisico per sopportare il resto: “Baricco: Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d’animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un’apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso… Magris — Tu indaghi splendidamente lo stretto rapporto che c’era tra profondità, rifuggita dai barbari, e fatica, sublimata e cupa moralità del lavoro e del dovere, che spesso conduce a sacrificio e a violenza.”
Ok, ok, basta così. Era solo per dire che le tesi di Baricco in sé per sé sono interessanti anche se in buona parte prese pari pari da Bauman e altri. Tanto è vero che nello sviluppare alcune considerazioni sulla poesia di Wislawa Szymborska due anni fa, in Nulla due volte, mi sono permesso di richiamarle in un paio di occasioni (anche se con tutto l’amore mi viene da dire: è da due anni che le sentiamo ripetere in tutte le salse, non è che per caso c’è qualche aggiornamento? La profondità che diventa superficialità e tutto il resto. Bello, ma non è che per caso c’è qualche novità?) .
Devo tuttavia aggiungere che Baricco, come altri scrittori-critici (ovvero in buona sostanza gente se la canta e se la suona) teorizza bene e razzola male. Nel senso che la mutazione che intuisce poi non mi sembra la sappia vedere in quello che sta concretamente succedendo: in internet, su Facebook, in siti come quello di Ibridamenti. Non a caso è proprio Baricco ad aprire il lungo elenco di celebrati scrittori che, scrive oggi Gian Paolo Serino su Il Giornale, hanno con il social networking in Rete un rapporto “da Fiera delle Vanità con risultati esilaranti“.
Nel nostro piccolo, mentre altri ne discutono piacevolmente, abbiamo lavorato duramente per due anni nel tentativo di entrare in sintonia con la mutazione richiesta dalla nuova civiltà dei “barbari”. Sotto questo aspetto, abbiamo cercato di attualizzare l’auspicio espresso nel suo ruolo di critico “puro” della letteratura da Belardinelli, ovvero che si possa transitare dall’ormai usurato concetto di postmodernità ad una pratica narrativa radicalmente mutante, che sia in grado di dialogare con il patrimonio letterario del passato, prossimo e remoto, guardando tuttavia al futuro.
Una pratica narrativa mutante che può credo più generalmente tradursi nella tensione verso un modo di leggere, interpretare ed infine gestire la realtà che sappia superare vecchie tassonomie e modelli mentali. L’approccio collettivo e metadisciplinare che ha presieduto alla stesura de Le Aziende In-Visibili, in maniera ancor più programmaticamente marcata che in tutte le precedenti esperienze dello Humanistic Management, il cui bagaglio concettuale ormai può tranquillamente proporsi quale vero e proprio Humanistic Mindset per la (tentativa) comprensione, a trecentosessanta gradi, del mondo in cui viviamo, ha l’ambizione di affermarsi come una possibile modalità pratica di scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager, fra sociologi e attori, fra musicisti e designer, fra filosofi ed economisti. Un programma troppo ardito, ambizioso, pretenzioso? Peggio: velleitario? Forse. Anche se va doverosamente ricordato che fra i 99 della Living Mutants Society c’è Elena Varvello, che collabora attivamente alla Scuola Holden, la istituzione creata da Baricco che è sicuramente benemerita e per la cui esistenza dobbiamo essere tutti grati al suo ideatore, va pure detto che, se non altro, mentre altri chiacchierano, noi proviamo ad accettare la sfida mettendoci in gioco in prima persona. Uscendo dai salotti dove quelli che Stefano Disegni ha genialmente definito “atticisti” macinano parole omaggiandosi a vicenda per scendere nelle strade della vita (anche le strade virtuali del Web) alla ricerca di nuovi percorsi per narrarla, affrontando tutta la complessità della mutazione in atto.
In apertura: Opera miracolosa, di Luigi Serafini