Va ricordata un‘altra osservazione di Auden. “Come altre opere mitopoietiche, La Tempesta ha ispirato diversi sviluppi “apocrifi”. Non si può leggere Don Chisciotte senza provare il desiderio di creare nuovi episodi che Cervantes , si fa per dire, ha dimenticato di raccontarci. Lo stesso vale per il Conan Doyle di Sherlock Holmes. Ma sono soprattutto grandissimi scrittori come Cervantes e Kafka che possono stimolare operazioni di questo genere”. Italo Calvino è sicuramente fra questi. Le Aziende In-Visibili raccoglie insomma l’eredità dell’Oulipo nei termini di una produzione collettiva di senso (che è sempre più portata avanti anche sulla Rete a partire da operazioni come “Luther Blissett”, il nome multiplo, ovvero lo pseudonimo utilizzato da un numero imprecisato di performers, artisti, riviste underground, operatori del virtuale americani ed europei negli anni ottanta e novanta per realizzare opere collettive o, nei primi anni 2000, la “costola” italiana “Wu Ming”- tanto che inizialmente avevo pensato anche di chiamare il gruppo di autori de Le Aziende In-Visibili i “Marco Wu? Minghetti”….poi ho lasciato perdere, ndr), confrontandosi con la dimensione mitica e quindi narrativa del mondo vitale dell’impresa contemporanea.
Sotto questo aspetto va ricordato che la teoria delle organizzazioni come culture, un paradigma mutuato direttamente dalle scienze sociali (e quindi a centralità umanistica), invita a considerare ogni organizzazione come una cultura caratterizzata da simboli, valori, credenze, da una sua specifica storia biografica. In una parola, da una mitologia. Una siffatta identità non può essere gestita se non da un management direttamente o indirettamente in grado di trasmetterla a tutti i livelli dell’organizzazione. La conoscenza della cultura di una organizzazione non deve essere però un invito a rivolgere il nostro sguardo individuale al passato, bensì a contestualizzare l’organizzazione all’interno di un flusso evolutivo che porta al futuro, come costantemente immersa dentro dinamiche di cambiamento che sottolineano la capacità di evolvere della comunità, ma anche del soggetto che a tale evoluzione partecipa, rispetto alle mutazioni sociali, di mercato, culturali del suo contesto di riferimento.
Per affinare questa capacità di visione occorre soprattutto affrontare quella che Heidegger, in un celebre saggio degli anni 50, chiamava “l’autentica crisi dell’abitare”, che “non consiste nella mancanza di abitazioni. La vera crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni”. Essa risiede nel fatto che gli uomini “devono anzitutto imparare ad abitare”: affermazione che vale tanto per i contesti urbani quanto per quelli aziendali. In ultima analisi, questo è l’obiettivo formativo finale de Le Aziende In-Visibili: aiutare i lettori a comprendere che abitare le città come le aziende «non è primariamente occupare, ma l’avere cura e creare quello spazio nel quale qualcosa di individuale sorge e prospera».
E lo strumento è proprio quello indicato da Heidegger: lo scrivere “poesie in forma di racconto” de Le Aziende In-Visibili che significa, direbbe Szymborska, “preferire il ridicolo di scrivere poesie/al ridicolo di non scriverne” (Possibilità), segnalando la necessità di passare, abbiamo affermato in Nulla due volte, dalla prosa del taylorismo alla nuova poesia manageriale dello humanistic management. Ovvero di quel “poetare che, in primissimo luogo, rende l’abitare un abitare. Poetare è l’autentico far abitare (…) Noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico (…) Il fatto che abitiamo in modo impoetico, e fino a che punto, lo possiamo esperire in ogni caso solo se sappiamo il poetico. Un rovesciamento di questo abitare impoetico, se e quando accadrà, possiamo sperarlo solo se manteniamo l’attenzione rivolta al poetico. Come e fino a che punto il nostro fare e non fare possa aver parte in questo rovesciamento possiamo provarlo solo noi stessi, se prenderemo sul serio il poetico”.
In apertura: Fish and Fish, di Luigi Serafini