Per parte sua Georges Perec (1936-1982), forse lo scrittore che ha portato l’ispirazione patafisica dell’OuLiPo ai risultati più eccelsi, scrive un intero libro senza utilizzare la lettera “e” (La disparition, 1969), immagina di descrivere in tutti i dettagli una piccola porzione di Parigi e costruisce il suo capolavoro (La vie mode d’emploi, 1978) ricorrendo a una serie di vincoli estremamente rigidi (il libro è la presentazione delle centinaia di storie vissute, immaginate e raccontate dagli abitanti di uno stabile parigino). La lezione di Perec (insieme a quella di Jarry, Cortazar e del padre spirituale di tutti i patafisici, Lewis Carroll) è centrale nella riflessione sul sensemaking sviluppata in Nulla due volte.
Anche Italo Calvino, che entra a far parte del Laboratorio nel 1972, scrive un libro pienamente oulipiano e patafisico (che risente anche dell’aria del tempo e dell’entusiasmo per i tentativi di trovare le regole della macchina narrativa, dallaMorfologia della fiaba di Propp alle ricerche di Roland Barthes). È Il castello dei destini incrociati, in cui il meccanismo combinatorio viene applicato al mazzo dei tarocchi che, disponendosi sul tavolo in modo sempre diverso, danno vita a una pluralità di storie. La combinatoria porta sempre in sé il sogno, folle e megalomane, e condannato in partenza al fallimento, di dire tutto, includere tutta la realtà tra le pagine del libro.
Le macchine narrative della letteratura potenziale potrebbero andare all’infinito, per poi scontrarsi con la durezza levigata della realtà, che a un certo punto sfugge a qualsiasi presa (e una delle conclusioni della combinatoria e dei giochi applicati alla scrittura è in fondo proprio questa, il limite non è dell’opera, è nostro, siamo noi a non avere a disposizione abbastanza tempo per esaurire tutte le combinazioni possibili di una sequenza di immagini o di segni).
E una delle conseguenze di questa constatazione viene ben formulata proprio da Perec, in un breve testo a commento del libro calviniano: “non ci saranno mai lettori a sufficienza per l’infinità di possibili racconti riflessi dagli specchi di questo Castello dei destini incrociati”. La letteratura potenziale è anche l’apertura all’infinito dei lettori possibili: i sentieri si biforcano di continuo, ogni storia può ramificarsi in infinite altre, ogni lettore potrà farsi largo a suo modo nel bosco narrativo.
Ma è proprio con Le città invisibili che Calvino raggiunge l’apice di questa sperimentazione. Ha infatti dichiarato: “il libro in cui ho detto più cose resta Le città invisibili, perché ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”.
In apertura: Ariadne auf Naxos, di Luigi Serafini