Innocenzo X. Da Velasquez a Bacon

Bacon_papa Fisiopatognomoscopia VI, di Piero Trupia.

Eletto papa per le consuete trame delle famiglie regnanti europee (1644-1655), Giovanni Battista Pamphilj pagò il suo debito agli Absburgo confiscando i beni ai Barberini contro il Mazzarino loro protettore. Ordinò subito lavori di abbellimento a piazza Navona su cui, ancor oggi, si affaccia un palazzo di famiglia. Placati con sontuosi benefici i nipoti per allontanarli dal potere, cadde però nelle mani della cognata Olimpia Maidalchini. Via di Donna Olimpia, a Roma, porta al parco, ora pubblico, ove sorge la villa che la dama pretese e ottenne in regalo da Giovanni Battista.

Innocenzo X voleva dominare il teatro politico del tempo e regolare, d’imperio, le questioni ecclesiastiche aperte: giansenismo, strapotere dei gesuiti, persecuzione dei cattolici irlandesi, equiparazione del calvinismo al cattolicesimo negli Stati tedeschi e riaffermazione del principio cuius regio, eius religio affermati nei Trattati di Westfalia. Non ebbe successo, così come nel tentativo di restaurare l’unità e l’autorità della Chiesa in linea con il Concilio di Trento (1545-1563).

EntrataLudwig von Pastor nella Storia dei Papi (1932) e l’altrettanto monumentale Histoire de l’Eglise depuis les Origines jusqu’à nos Jours (Augustin Fliche e Victor Martin, 1960) non sono indulgenti con il Nostro, grande soltanto nel desiderio. Bacon ha visto nell’Innocenzo dipinto da Velasquez l’epitome di ogni vicenda umana che il potere amplifica: un conato di consistere, “presenti e loquenti” nel mondo a dispetto di una debolezza di fondo della personalità con i suoi limiti, ubbie, manie, condizionamenti, spesso autoimposti. Una condizione psichica e mentale che determina una fisiopatognomica che non nasconde la frustrazione. Un tratto caratteristico di tutti i detentori del potere mondano in tutti i tempi, non, quindi, Gandhi, Madre Teresa, Nelson Mandela,…Robert Harris.[1] 

Nel ritratto di Velasquez vediamo una fisiopatognomica del conato impotente che Montale così coglie in Ossi di Seppia.

So l’ora in cui la faccia più impassibile/è traversata da una cruda smorfia:/s’è svelata per poco una pena invisibile./Ciò non vede la gente nell’affollato corso.

In una saletta della Galleria Pamphilj, a Roma, il ritratto di Innocenzo X del Velasquez è accostato al busto berniniano del medesimo. Tanto accademico questo – Bernini era attentissimo alla committenza – quanto rivelativo quello del Velasquez: “Troppo vero!” ebbe ad esclamare il povero Innocenzo al momento della presentazione dell’opera.

La mise e la cosmesi, allora come oggi, non nascondono il dramma.

Teso sulla poltrona dorata, a disagio entro i paramenti, torvo lo sguardo, le sopraciglia inarcate a triangolo, le labbra serrate, il naso contratto nel sentore di un potere che non gusterà.

Le mani, in relazione allotopica l’una con l’altra, completano il volto. La sinistra è rilassata, pur nella presa di una lettera appena ricevuta che non stringe; la destra platealmente, insolentemente adunca, l’artiglio di un rapace con le falangette spruzzate della porpora della mozzetta, del camauro (il copricapo) e del rosso scuro dello sfondo striato di nero, mentre la cotta bianca di tulle plissé riflette l’oro dell’ inutilmente fastosa poltrona.

Le numerose ossessive versioni baconiane dell’Innocenzo di Velasquez ne esasperano i tratti con verismo espressionistico, quello dell’eterna mascherata del potere alla Ensor.



[1] Chost writer, spin doctor di Blair e amico di famiglia. Ruppe sulla guerra irachena e sulla capacità di Tony “di sedurre l’opinione pubblica, apparire sincero anche quando non lo era”.

Puntate precedenti:

Fisiopatognomoscopia V

Fisiopatognomoscopia IV

Fisiopatognomoscopia III

Fisiopatognomoscopia II

Fisiopatognomoscopia I

  • Piero Trupia |

    A Giovanni Salonia:
    Grazie per averci ricordato ciò che è indefinibile, e quindi scarto, nel rigor mortis della scienza scientista. Gloria del ‘900 – i primi trent’anni – è stata la scoperta delle zone di confine, delle terre di mezzo: metaxù, traità, noità…, la riscoperta del relativismo comprendente della phronesis, del protagonismo dell’altro da non ricondurre a noi e alle nostre certezze (scoperta successiva, oltre la psicologia scientifica); “altro” da accostare delicatamente nell’ascolto e opertivamente nella cura. Relativismo rischioso e perciò da evitare, rinunciando alle sue promesse. Come se la deresponsabilizzante corsa al nichilismo fosse una conseguenza logica del relativo! E’ invece conseguenza della mancanza di coraggio. Coraggio dell’incertezza e della libertà, capacità e volontà di una scienza come ricerca e cammino e non come arrivo e possesso, il cui guadagno sia più luce e più relazione

  • Giovanni Salonia |

    Nella prospettiva psicoterapica la lettura del testo artistico diventa – secondo la lezione gadameriana – processo paradigmatico della comprensione dell’altro. Le domande che la psicoterapia della Gestalt pone all’antropofenomenoantropologia, riguardano proprio la ‘relazionalità’, quella circolarità tra testo-contesto, tra testo-lettore che , attraversando il rischio del relativismo, pone come chiave di lettura dell’essenza dei fenomeni la ‘traità’ ( in Psicoterapia della Gestalt: confine di contatto; in M.Buber: Zwischenheit). Rimenendo nel field della psicoterapia non si rivela riduttivo un ‘comprendere’ (che si differenzia dal ‘descrivere’ e si attua attraverso processi di Einfuhlung) che si focalizza sul mondo dell’altro e non include il ‘comprendere’ il mond relazionale che accade tra chi comprende e chi è compreso. E se proprio questo confine di contatto fosse la cifra esplicativa del vissuto dell’altro? Sono interrogativi che vanno ascoltati e custoditi con la fatica ascetica della ‘phronesis’ per proteggerli dalle derive della precomprensione e del relativismo. Ma possiamo accostarci alla realtà con sicurezza senza correre nessun rischio? Non è forse la relazione, nella sua costitutiva impossibilità di essere completamente e definitivamente com-presa, a rendere possibile l’accostarsi genuino alla ‘verità’ che, per gli umani, dovrà accadere sempre nell’invitabile ‘metaxù’ di luce e di tenebra, di soggettività e di alterità, di dato e di compito?

  • Piero Trupia |

    Ad Angela Ales Bello.
    Al di là dell’estetica fenomenologica in quanto scienza del bello in generale, penso a un’ermeneutica fenomenologica che, attraversando i vissuti, raggiunga il significato dell’opera come referente veritativo ed essenziale fuori del testo. In fondo è l’impostazione originaria dell’ermeneutica. quella biblica, poi degenerata nel mulinello della semiosi infinita.

  • Angela Ales Bello |

    Esiste un’ estetica fenomenologica che non si deve confondere con l’ermeneutica. E’ vero che il termine ermeneutica significa “interpretazione” e quindi può essere usato in modo ampio, ma dal punto di vista culturale e filosofico in particolare, l’ermenutica, pur essendo figlia della fenomenologia, si è separata da essa. Si pensi a Gadamer. La differenza consiste nel fatto che la fenomenologia insiste sulla lettura “essenziale” dei fenomeni, anche quelli artistici. L’ermeneutica, al contrario, pone in evidenza il rapporto fra testo e contesto, in una circolarità che sottolinea la mutevolezza, il cambiamento e l’impossibilità di stabilire ciò che è essenziale, perchè ritiene che la ricerca dell’essenziale sia legata alla “vecchia” metafisica. La decisione fra l’una o l’altra interpretazione non sta in una questione di gusto personale, di opinione. Bisogna oggettivamente stabilre se possiamo cogliere, pur con tutte le nostre limitazioni, il senso, l’essenza, delle cose.La scelta dell’una o dell’altra posizione influisce in modo determinante sulla lettura dell’opera d’arte.

  • Piero Trupia |

    Rispondo, in ritardo, agli stimolanti commenti di Angela Ales Bello e di Paola Argentino a fisiopatognomoscopia V.
    Ad Angela Ales Bello:
    L’approccio fenomenologico alla comprensione dell’arte fa giustizia dell’interpretazione corrente in chiave di sentimenti espressi dall’autore, colti in risonanza dal fruitore a specchio dell’interpretazione autentica del critico, nonché delle generalizzazioni dell’estetica e delle utili, ma non tematiche, puntualizzazioni di storia dell’arte e di filologia dell’opera.
    La fenomenologia apre alla ragione veritativa dell’arte, juxta la definizione tommasiana della bellezza-claritas, nascosta anche nelle cose più trite, come splendore della semplice, una essenza della cosa.
    Mi domando se esiste, o se può esistere, non un’estetica, ma un’ermeneutica fenomenologia dell’opera d’arte.
    A Paola Argentino:
    Ogni essere umano è vulnerabile in quanto esposto al’ordinaria furia dell’esistere: la violenza cosmica che incessatentemente plasma e disgrega lo spazio, il tempo, la materia, la vita. L’umana con quella peculiare vulnerabilità che è il suo “assurdo” conato di consistere, di ergersi, presente e loquente, contro la devastazione eraclitea, se non altro per chiedere ragione. Solo l’umano è drammaticamente incoerente rispetto al contesto, con buona pace di chi vede la natura come il regno di una provvidente armonia.
    Bacon raffigura i segni che il vissuto drammatico di quell’incoerenza lascia sui corpi: spasmi e sorriso-ghigno che sprofonda nel grido. Da qui il possibile sviluppo di una eziologia psichiatrico-esistenziale, al riparo da ideologismi antropologici, per offrire ai molti Bacon che non riescono a vedere o dipingere un sorriso un’alternativa all’anestetico del pub.

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