Il tema della “verità nascosta” in termini aziendali fa il paio con quello attualissimo del “controllo” di tale verità. A tutti i i livelli ormai siamo alle prese con quotidiane battaglie combattute contro il profilare di normative come 231, SOA, ISO, che hanno come unico risultato quello di un progressivo appesantimento burocratico delle attività, mentre tutto risulta “sotto controllo” tranne ciò che dovrebbe essere oggetto di verifica (casi ormai sempre più frequenti, da quello Enron allo scandalo dei mutui subprime, sono lì a mostrarlo) .
Il punto è che la letteratura ma soprattutto la prassi manageriale contemporanea si trovano ancora sotto l’influsso di quello Scientific Management che fu inaugurato da Taylor cento anni fa. Pur nella varietà delle sue interpretazioni, i caposaldi dello Scientific Management sono, in breve sintesi, il primato della specializzazione funzionale, del principio gerarchico, degli obiettivi individuali, dell’orientamento al controllo, con una cultura diffusa nelle organizzazioni a coltivare standard interni per la valutazione del raggiungimento dei diversi compiti primari.
Le organizzazioni ispirate e gestite attraverso le prospettive paradigmatiche dello Scientific Management si pongono come soggetti collettivi compatti, orientati da una razionalità piena, con una forte capacità previsiva e una visione lineare/sequenziale del processo decisionale.
Ma la condizione strutturale necessaria per la declinazione di tali paradigmi è la stabilità: con la progressiva accelerazione dei tempi del cambiamento e la necessità per le organizzazioni di essere permanentemente “mutanti”, gli strumenti di previsione, valutazione e controllo classici sono stati messi pesantemente in discussione.
L’organizzazione vincente – suggerisce ad esempio Kevin Kelly nel suo libro programmaticamente intitolato Out of Control, che ha inaugurato un certo tipo di analisi con troppa fretta relegata fra il pattume pubblicistico della new economy: a) è una rete fatta di nodi autonomi e cooperanti; b) non risponde a una funzione di comando centralizzata; c) è in grado di autoprogettarsi. L’aporia del management contemporaneo diverrebbe quella di essere capace di perdere il controllo dell’organizzazione, sapendone conservare la guida.
Ci permettiamo dunque di sollevare quantomeno il dubbio che l’impresa contemporanea operi tanto più efficacemente quanto più “leggero” è il sistema di governo. Il sospetto è che l’adeguamento a un ordine predefinito e declinato in termini di rigidi e capillari strumenti di comando, valutazione e controllo rischia di atrofizzare la forza differenziatrice dell’organizzazione, che è proporzionale al grado di autonomia delle sue sinapsi, rendendola più vulnerabile.
Sospetto che si rafforza se pensiamo all’organizzazione come sforzo collettivo di generazione di senso e contesto discorsivo privilegiato. Secondo la prospettiva del sensemaking di Karl Weich, essa chiarisce i propri obiettivi e i ruoli delle parti coinvolte – diciamo: esplicita il proprio progetto – solo al termine del percorso discorsivo, non all’inizio. Il manager, quindi, cessa di essere colui che detta i significati al resto dell’organizzazione, colui che fornisce la corretta interpretazione degli obiettivi, dei ruoli e delle funzioni, magari attraverso un processo di envisioning più o meno manipolatorio, che dovrebbe essere sostituito da un approccio più vicino alla maieutica socratica.
Si tratta di rinunciare alla proposizione di un ordine dettagliato, sostituita dalla diffusione di una “Vision” tale da consentire, tramite l’attivazione riflessiva e dialogica di tutte le persone che operano nell’impresa, l’adempimento della imprescindibile missione manageriale che resta pur duplice: favorire il conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione, ma coniugandoli con quelli di autorealizzazione e autosviluppo delle persone che in essa lavorano.
E’ il cuore di ciò che da anni chiamiamo “humanistic management“.
Il modello organizzativo che ispira lo scientific management è olistico, totalitario, definitivo, prescrittivo, fondato sulla centralità del comando, su modelli, procedure e “best practices”, su un’attenzione ossessiva ai processi di esecuzione, sul controllo. Per usare le parole di Wislawa Szymborska, Finge di non tralasciare nulla,/di concentrare, includere, contenere e avere (Tutto).
Viceversa, lo humanistic management è partecipativo, impermanente, fondato sulla convivialità, su uno “stare insieme per”, sulla delega agli individui e l’imprenditorialità diffusa, sulla “governance” di sistema e non sul “controllo” di dettaglio: nella convinzione che l’illusione di poter contenere “tutto” oggi più che mai si rivela tale.
Non casualmente la grafica del romanzo Le Aziende InVisibili richiama quella di una Intranet Aziendale, in particolare di uno di quei tableau de bord a supporto dei processi decisionali, ricchi di dati, grafici e tabelle, aggiornati in tempo più o meno reale, che i manager delle grandi aziende ben conoscono. La parte larga di ogni pagina accoglie il testo del romanzo, mentre in quella più stretta una “In-Visible Scorecard” segnala alcuni indicatori per la sua gestione (lettura e interpretazione): il numero progressivo dell’episodio, la posizione in Astrogramma dell’Azienda In-Visibile ivi descritta, l’esagramma correlato nella versione Boaz o Jakin, il link con l’originale calviniano, eccetera. Se qualcuno vuole vedere in questo un’ironica rappresentazione dell’illusione (non solo) manageriale del controllo totale sulla realtà, è libero di farlo – anzi decisamente incoraggiato.
In apertura: Sempre sia lodato il terziario avanzato, di Luigi Serafini