Il manager outsider

Enzo Riboni su: Tom Jones,  di Henry Fielding

Che l’etica manageriale si possa imparare anche da un personaggio picaresco, un outsider seduttivo e un po’ briccone? E’ la promessa che ci fa il vecchio-sempregiovane Tom Jones, classe 1749, dalle pagine del libro omonimo di Henry Fielding.

Il protagonista deve il suo successo di uomo e di personaggio proprio al fatto di essere un outsider. Nel senso letterale di chi gioca fuori dal coro e dalle convenzioni dominanti e che non è previsto come possibile vincitore. Salvo poi sbaragliare tutti, a partire dai suoi più acidi denigratori, e trasformarsi così in un normalissimo (sic!) insider.

Prendete allora un Tom Jones d’oggigiorno, mettetelo in azienda, esponetelo all’invidia visto che ha la simpatia del capo, cambiatelo di reparto in reparto nella più estenuante job rotation, spostatelo dalla sede centrale lontano dal suo mentore, mettetelo in competizione con un rivale disposto a tutto pur di prevalere e far carriera al suo posto, cercate di emarginarlo magari con un po’ di mobbing-bossing, mettetelo alla prova dandogli una responsabilità per la quale non può fallire pena la reputazione dell’azienda, riportatelo in sede in un ambiente-organizzazione completamente modificato. Se alla fine di tale calvario il moderno Tom Jones sopravvive e addirittura prospera scalando assai gradini della carriera aziendale, avrete perfettamente ricostruito il Tom Jones romanzo di Henry Fielding.

Peccato che, normalmente, gli outsider in azienda non siano frequenti, e che, quando ci sono, siano difficili da individuare e, soprattutto, da tollerare come competitor. Perché l’outsider vincente difficilmente è amato dai suoi colleghi, mentre spesso è adorato dai suoi sottoposti, i quali vedono in lui la propria stessa possibilità di riscatto e vittoria.

Il Tom Jones di Fielding, però, è anche strutturalmente un briccone. Cioè molto diverso dall’outsider aziendale positivo che, se lo fosse (briccone), potrebbe facilmente e pericolosamente trasformarsi in un “pescecane” incurante dell’etica. Il nostro Tom (quello di Fielding) invece, è un briccone che resta etico dall’inizio alla fine.

Prendete per esempio quando era un ragazzo, un ex trovatello adottato dal generoso e probo (ma anche ottuso e noioso) possidente Allworthy, ed era alle prese con il nipote di questi, l’ipocrita ed egoista Blifil: se sei uno di oscura provenienza, vai a convincere la gente che puoi anche essere meglio di un parente stretto di un nobilotto di campagna!

Eppure il “legittimo” Blifil (che odia un Tom molto più brillante e simpatico di lui) è uno che si maschera dietro un’apparenza di moralità ma che è il vero furfante della situazione. Come quella volta che il giovane Tom, avendo come unico amico il guardacaccia Black George, con lui un giorno sconfinò nella tenuta di un vicino di Allworthy per inseguire e abbattere una quaglia. Scoperto lui solo dal vicino poiché il guardacaccia era riuscito a nascondersi, Tom negò ad oltranza di aver compiuto la malefatta in compagnia di alcun altro.

Leale, certo, ma forse poco prudente. Come ci spiega ancora Fielding: “L’uomo non è ugualmente saggio a tutte le ore, nessuna meraviglia quindi che non lo sia un ragazzo. Essendo sorta tra i due una disputa di gioco Blifil chiamò Tom ‘maledetto bastardo’. E questi, che non era di carattere molto paziente” colpì l’altro con un pugno. E cosa fece il subdolo Blifil? Non solo accusò Tom, davanti al benefattore Allworthy, di aggressione trascurando di citare l’offesa con cui l’aveva provocato, ma ritirò fuori la storia della quaglia asserendo che Tom era un mentitore incallito che aveva protetto il guardacaccia. Visti dall’esterno i due ragazzi in definitiva potrebbero aver entrambi sbagliato, l’uno facendo prevalere l’onore sulla verità e l’altro preferendo una verità (parziale e distorta) priva d’onore. Così, tornando alla questione dell’etica aziendale e ammesso che non si possa sposare la verità con l’onore, quale dei due comportamenti risulta più accettabile? Oggi le questioni della Csr, Corporate social responsibility, dei codici etici aziendali, dei bilanci sociali e di sostenibilità e, soprattutto, dell’eticità individuale dei manager, stanno occupando sempre più il centro dell’attenzione. Tanto che le maggiori business school del mondo, da Harvard, alla Columbia, all’Insead di Fontainebleu, hanno messo quei temi al centro dei loro corsi per executive, enfatizzando il vantaggio competitivo che dà il comportamento da “manager etico”. E’ per questo che le forzature sulla verità a favore del “bene” che fa Tom Jones, ci appaiono del tutto giustificabili.

Così come lo sono per Fielding, che avverte i lettori (e noi i nostri capi azienda) di “Non comprare mai a troppo caro prezzo”, perché, “chiunque porta con sé questa massima nel gran mercato del mondo e l’applica costantemente agli onori, alle ricchezze, ai piaceri e ad ogni altra merce sul mercato, è, affermo, un uomo saggio perché fa i migliori affari: egli compera ogni cosa soltanto a prezzo di poco disturbo e si porta a casa tante buone cose, pur conservando per sé la salute, l’innocenza e la reputazione, che sono i prezzi comuni che altri pagano per esse”. Così non perde la testa “quando ha fatto il miglior affare e non si scoraggia quando il mercato è vuoto”.

E la leadership jonesiana è quella della naturalità, della fiducia nel mondo e negli amici (collaboratori), della convinzione di essere destinato a futuri migliori (successo aziendale), della simpatia contagiosa. E soprattutto, anche se nessun libro di management lo dirà mai, di essere assolutamente seduttivo, una dote che si possiede o che comunque si può orientare, ma senza la quale non si coinvolge nessuno, non si convince alcuno a seguirci sulla nostra strada.

(Per saperne di più leggere: Il grande libro della LETTERATURA per manager, Etas, marzo 2008).

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