Nelle città continue il divenire che è costitutivo della loro essenza si colora spesso di una tinta cupa in quanto sembra destinato a esaurirsi definitivamente nello scenario spaventoso di un’apocalissi finale, rimandando a temi che oggi sono al cuore della riflessione manageriale e che vanno sotto i nomi generici di Business Ethics, Sostenibilità ambientale e simili.
La città di Leonia ─ ci dice ad esempio Calvino ─ rifà se stessa ogni nuovo giorno, espellendo tutti i resti del giorno precedente come spazzatura. In questo modo essa è venuta a trovarsi isolata dalle altre città circostanti e come incastonata al centro di un profondo cratere le cui pareti, fatte di tutti i suoi rifiuti, crescono a dismisura col passare del tempo:
“più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai”.
La misura del tempo, che nella immaginaria Leonia come nella Napoli reale si può leggere nell’orribile ingigantirsi dei cumuli di immondizia, a Procopia si presenta in una forma incomparabilmente più bella, ma a suo modo anch’essa inquietante, e cioè nell’aumento della popolazione. Scostando un poco la tendina di una finestra, si può assistere allo ‘spettacolo’:
“un fosso, un ponte, un muretto, un albero di sorbo, un campo di pannocchie, un roveto con le more, un pollaio, un dosso di collina giallo, una nuvola bianca, un pezzo di cielo azzurro a forma di trapezio. Sono sicuro che la prima volta non si vedeva nessuno; è stato solo l’anno dopo che, a un movimento tra le foglie, ho potuto distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiava una pannocchia. Dopo un anno erano in tre sul muretto, e al mio ritorno ce ne vidi sei, seduti in fila, con le mani sui ginocchi e qualche sorba in un piatto.
Ogni anno, appena entrato nella stanza, alzavo la tendina e contavo alcune facce in più: sedici, compresi quelli giù nel fosso; ventinove, di cui otto appollaiati sul sorbo; quarantasette senza contare quelli nel pollaio. (…) Presto vidi tutto il ponte pieno di individui dalla faccia tonda, accoccolati perché non avevano più posto per muoversi. (…) Non si ha idea, in uno spazio ristretto come quel campicello di granoturco, quanta gente ci può stare, specie se messi seduti con le braccia in-torno ai ginocchi, fermi. (…) Quest’anno, infine, a alzare la tendina la finestra inquadra solo una distesa di facce: da un angolo all’altro, a tutti i livelli e a tutte le distanze… Anche il cielo è sparito. Tanto vale che mi allontani dalla finestra…”.