Umberto Eco e i generi letterari

Che cosa è 1984 ? Un romanzo di fantascienza? Una (anti)utopia? Una storia d’amore? Un racconto sado-maso? La perfetta rappresentazione della vita reale che si svolge oggi in Nazioni come la Birmania? Questa domanda mi frullava in capo mentre ieri sera ascoltavo Hitchens alla Scala presentare il suo ultimo libro La vittoria di Orwell.

Mi si era accesa una sinapsi con quanto avevo ascoltato un paio di giorni prima alla presentazione di un altro libro, Al tavolo del cappellaio matto di Alberto Manguel. In quel caso il relatore era  Umberto Eco che, in particolare, si era soffermato su uno dei capitoli del libro, quello dedicato al lettore ideale (ripreso anche in larga parte sull’ultimo numero del  Domenicale de Il Sole 24-ore ). Si tratta in effetti di una delle parti più deliziose del testo, di stampo chiaramente borgesiano, in cui si trovano affermazioni del tipo: ” Il lettore ideale non ricostruisce una storia: la ricrea”; “Bisogna essere inventori per leggere bene”; “Il lettore ideale sovverte il testo. Il lettore ideale non dà per scontata la parola dello scrittore”; “Il lettore ideale è un lettore cumulativo: ogni volta che legge un libro aggiunge un nuovo strato di memoria alla narrazione”; “Ogni lettore ideale è un lettore associativo. Legge come se tutti i libri fossero opera di un unico autore eterno e fecondo”.

Eco leggeva e commentava, concordando con l’autore su queste idee, mentre io pensavo a come Manguel avesse perfettamente descritto il lettore ideale del nostro romanzo Le Aziende InVisibili. Ma poi Eco è giunto ad una frase, che ha ritenuto di contestare: “Il lettore ideale non si preoccupa dei generi lettarari”. Sbagliatissimo, ha argomentato Eco: è impossibile leggere bene un libro senza sapere a quale genere appartiene. Un giallo è un giallo, una storia d’amore è una storia d’amore, un racconto epico è un racconto epico: se non si conoscono le “regole del gioco” cui ogni testo è sottoposto, le regole cioè del genere cui è stato iscritto dal suo autore, non si può comprenderlo a fondo.

A mio parere Eco qui si inganna: e mi sono permesso di esprimere pubblicamente questa opinione. Prendiamo l’Amleto. Se ci poniamo dal punto di vista di Eco dovremmo leggerlo come se fosse una tragedia, ed un particolare genere di tragedia: la “tragedia di vendetta”, un genere molto praticato ai tempi di Shakespeare. Tuttavia molti critici vedono in Hamlet la prima “detective story” dell’età moderna (Amleto in effetti investiga sulla morte del padre e vuole scoprire l’assassino); Harold Bloom ritiene che Shakespeare (a differenza del Kafka di Borges, che crea i suoi predecessori) abbia plasmato tutti i suoi successori ed in particolare Freud e dunque  vede in Amleto una sorta di dramma psicanalitico; ma naturalmente Amleto è anche una ghost story per eccellenza, è una storia d’amore, è un racconto filosofico (come nota il Deckard de Le Aziende In-Visibili “Cartesio ha con le idee dentro di sé lo stesso problema posto ad Amleto dallo Spettro, quando gli appare sotto il cielo stellato d’Elsinore: entrambi dubitano della realtà di quel che vedono e pensano. Temono che possano essere illusioni indotte da un malvagio Incantatore, dal diavolo. “). Tom Stoppard ha persino trasformato genialmente la tragedia in una commedia (Rosenkrantz e Guilderstern sono morti).

In sintesi: a me sembra che non solo i grandi libri non possano essere ridotti ad un unico genere letterario, ma che, al contrario, potenzialmente li contengano tutti. Potremmo forse azzardare una sorta di formula: più generi letterari scopriamo in  un testo, più è probabile che siamo di fronte ad un capolavoro.

Alcune domande di prova: A che genere appartiene Alice nel Paese delle Meraviglie, a quello dei libri per l’infanzia? E gli Esercizi di stile di Queneau è un mero manuale di retorica? E i romanzi di Chandler sono riducibili al canone del giallo “hard boiled”? E le Città Invisibili di Calvino sono dei semplici racconti brevi?

Dal che si potrebbe forse evincere un’ultima conclusione: ogni grande libro “crea” il suo proprio genere letterario, diventando oggetto di emulazione per schiere di scrittori successivi.

Postato dalla personalità mutante di: Marco Minghetti

  • Leonardo Terzo |

    Egregi interlocutori,
    Al genere non si sfugge: se Amleto, invece che una tragedia di vendetta fosse un giallo, ricadrebbe pur sempre in una casella generica. Il genere è un modello ideale che nessuna opera reale realizza del tutto. Così come tutte le funzioni del linguaggio sono presenti in ogni messaggio, ma una funzione è dominante, allo stesso modo elementi di più generi sono presenti in ogni opera, ma c’è un genere dominante o al più una commistione di generi. Per esempio Moby Dick integra tre generi: un romance comico, un romance tragico e una satira menippea. Secondo Frye, l’Ulisse di Joyce integra tutti i sottogeneri della narraiva in prosa. Privilegiare questo tipo di opere miste è un presupposto (ma anche un pregiudizio) delle poetiche moderniste, che prima o poi passeranno di moda anch’esse. Resta il fatto che i generi, anche in questi casi di ibridazione, restano validi quadri di riferimento per capire il senso delle varie parti.
    Il genere, oltre che un modello ideale, è anche un modello flessibile, perché come tutte le cose umane è una costruzione culturale che rispecchia gli interessi del momento e quindi si adegua alle esigenze dei lettori: se mi interessa il meccanismo tragico Riccardo III è una tragedia del potere, se mi interessa di più come episodio della storia inglese allora Riccardo III è un dramma storico.
    Naturalmente il postmodernismo ha ucciso l’autore, ed ora è principalmente il lettore che stabilisce il senso delle opere. Comunque le interpretazioni continuano ad essere più o meno plausibili o più o meno stravaganti. Infatti dire che Amleto è un giallo è divertente ma lascia il tempo che trova. Sarebbe come dire che Il gatto con gli stivali, invece che una favola, è l’ultima moda per i felini domestici. Non è divertente?

  • Marco Minghetti |

    segnalo che il post è stato ripreso anche da booksblog: http://www.booksblog.it/post/2863/eco-manguel-e-i-generi-letterari

  • Claudio Fattibene |

    Il dibattito aperto da Marco Minghetti sui generi letterari offre l’opportunità di riflettere su una delle (forse apparenti) dicotomie letterarie più importanti: quella autore/lettore. E’ questo un rapporto caraterizzato da un tacito accordo che privilegia lo status del lettore: chi legge infatti ha il diritto di non rimanere deluso dall’opera e sarà quindi premura di chi scrive adeguarsi alle “regole del gioco”, che qualcuno identifica (a mio avviso in maniera del tutto sbagliata) nei generi letterari.
    A tutti sono note le caratteristiche di un “giallo”, genere a cui apparterrebbe anche quel romanzo alla cui fine si scopre che l’assassino è l’ispettore di polizia (sono sprovvisto di validi esempi, quindi molto probabilmente un giorno scriverò qualcosa del genere…). In questo caso si tratterebbe di un “tiro mancino” da parte dell’autore, ma intanto la figura dell’assassino risulterebbe ben presente nella mente del lettore, che viene così condotto inevitabilemente alla famigerata catalogazione: un processo, quello di identificazione in un genere, che proviene dunque dal basso. L’inserimento in un determinato filone è infatti a discrezione del significato e della morale che chi legge coglie e interpreta. Se a monte l’autore gestisce il percorso seguendo la sacrosanta regola del “lettore che non deve essere annoiato”, a valle predomina un insindacabile giudizio di quest’ultimo, che può essere più o meno in grado di circoscrivere il tutto solo dopo l’atto vero e proprio della lettura. Ecco perchè sostengo la tesi di Minghetti secondo la quale è molto contingente “conoscere a priori” la natura (tra l’altro “soggettiva”) di un romanzo, essendo a mio parere lo schema mentale del genere letterario un deterrente ai fini di un possibile acquisto o più semplicemente di un’eventuale lettura. Infatti potrei non essere un patito del genere horror-thriller di cui è esponente Stephen King, ma nulla mi vieterebbe magari di apprezzare “La tempesta del secolo” solo per essere un romanzo scritto sotto forma di sceneggiatura, una “regola stilistica” adottata dall’autore. Al contrario potrei nutrire una passione per i romanzi d’amore, ma la ridondante banalità di cui sono intrisi i recenti “fenomeni” commerciali (Goccia….Doccia, o qualcosa del genere) infliggerebbero un colpo di grazia a a questa mia passione. Perciò mi sento di dire che trovo disdicevole per un lettore definirsi “amante dei gialli” o “appassionato di romanzi rosa”, espressioni che riflettono l’uso improprio dei generi letterari in materia di gusto. Personalmente scrivendo ho imparato che un romanzo è bello per come è scritto e per come viene snocciolato agli occhi di chi legge, totalmente privo delle catene che lo legano ad un qualsiasi genere, puntando e facendo riferimento non a schemi fissi e stereotipati, ma al contrario anche all’innovazione e, perchè no, alla fantasia del lettore.
    Per questo concludo che il lettore ideale, oltre alle sue caratteristiche già citate da chi ha partecipato a questa discussione, è anche “l’autore ultimo” ovvero colui che, grazie alla sua fantasia e al suo giudizio, scrive l’ultima pagina di un romanzo.

  • Josephine Pace |

    caro Marco,
    concordo con quanto dici circa l’effetto innovativo di una grande opera, è pur vero, però, che il lettore ha in genere la tendenza ad incasellare ciò che legge in una categoria, magari notandone le differenze rispetto al genotipo d’appartenenza. Credo, quindi, che ben vengano i sistemi di riferimento, cartesiani o meno, della lettura, non fosse altro che per superarli nella pratica della produzione letteraria e, del resto, un’opera come l’Amleto non potrebbe essere “transgenica” nel senso da te delineato se non esistessero dei generi che essa anticipa, supera e/o sovverte…
    Grazie per la possibilità di rifelessione che ci dai su questi temi i quali hanno poi tanti e tali risvolti individuali da essere indispensabili momenti d’indagine per chiunque si cimenti (da fruitore o da autore) nell’arte dello scrivere. Per me, comunque, il lettore ideale è quello che non mente a se stesso…così come lo scrittore “vero” è colui che non inganna il lettore: insomma la letteratura, anche quando mette in scena una pura finzione, è un’operazione di verità, un patto di reciproca franchezza tra autore e lettore.

  • Piero Trupia |

    Stupenda la deflagrazione minghettiana! M’inserisco sparando sul mostro sacro Eco. Poiché lo amo: per la rivolta che ha suscitato in me la lettura di tutto quello che ha scritto. Su Croce invece non sparerei; sarebbe maramaldeggiare.
    Mi sono spaccato il cervello per comprendere alcune proposte del Trattato, per accorgermi, alla fine, che il gioco era impossibile: Il Trattato vuole costruire un sistema semantico sulle fondamenta del nichilismo saussuriano. Il modello KF (p.140),il modello Q (p.174), la tesi “E'” come artificio metalinguistico non stanno in piedi così come tutto il Trattato dominato dal dogma della “ricorsività semantica infinita” (p. 173): ogni segno apre ad un altro segno. Come la Terra sulle spalle di Atlante, sul dorso di una tartaruga, su…
    Circa i generi letterari, una considerazione di valore analogico tratta da Eco. “La teoria è in grado di spiegare se e perché una frase ha molti sensi ma non in quali circostanze essa debba perdere la propria ambiguità, né secondo quale senso”. Beh, il lettore decide e…crepi l’astrologo! Il testo di genio è un panopticon che apre infinite prospettive; sta al lettore percorrerle in parte o tutte (sic!). Naturalmente, contestualizzando. Non ci si può aspettare dall’Alighieri precisione astronomica né sensatezza astrologica. Più letture, “più livelli di realtà” (espressione calviniana) e più mondi possibili. Purché sensatamente accessibili (c’è una logica dei mondi possibili). Cartesio e Amleto dubitano ma, riflettendo, raggiungono la certezza. E se la lettura non ci desse certezza, che gusto ci sarebbe a leggere? Tanto varrebbe allora l’enigmistica ove risolvi il rebus e ti trovi sotto gli occhi una frase senza senso. PieroT

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