L’esorcismo dell’ombra che accompagna la favola platonica appare a prima vista funzionale a una potente strategia di pensiero. Si tratta del trionfo di una metafisica mimetica della luce intellettuale e incorporea. Per noi, incatenati nella caverna, «la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali»; ma se uno di noi «fosse sciolto – costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre…»[1] – potrebbe allora iniziare un percorso che trascorrendo dal dubbio alla verità conduce alla morte violenta.
E’ dunque con l’accurata scelta di una metafora visiva che equipara visione e cognizione che viene descritto il processo interiore della conoscenza. Si tratta, per chi fosse costretto ad alzarsi, di abituare lo sguardo «se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre (skias), poi le immagini (eidola) degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi…»[2]. L’ombra appare come infima tra le immagini, e quindi “prima” tra le immagini («intendo per immagini in primo luogo le ombre (skias), poi i riflessi nell’acqua e in tutti gli oggetti formati da materia compatta, liscia, lucida, e altre cose dello stesso genere»[3]), per il suo grado di illusorietà. Il mondo superiore, sarebbe allora un mondo senz’ombra, come quello dipinto, talvolta, da Matisse.
[1] Rep. 515c-d
[2] Rep. 516a
[3] Rep., 510a (trad. modificata)