La città deserta

Banda

Pino Varchetta recensisce:   La banda (regia di E. Kolirin)
Un’antica leggenda racconta che gli arabi abbiano inventato il numero zero perché hanno sempre avuto l’esperienza del deserto. Al di là della fondatezza della leggenda, resta la circostanza che il deserto è per molti di noi esperienza da una parte inquietante, dall’altra accogliente, da una parte densa di ansie per la illimitatezza del vacuum, dall’altra occasione di autoesplorazione, fino a una scoperta nuova del sé. Un gruppo di musici, chiusi in una elegante divisa azzurro chiaro – sono la banda della polizia cittadina di Alessandria – riempie lo schermo con la mdp che li presenta in una sequenza frontale, da sinistra a destra, con gli strumenti musicali delicatamente appoggiati a terra, attoniti, persi, con lo sguardo fisso sul deserto israeliano.

E’ in missione speciale la banda della polizia cittadina di Alessandria. Deve tenere un concerto in una indefinita piccola città israeliana ai limiti del deserto, ma come accade appunto nei deserti, quel gruppo sparuto di giovani arabi-egiziani si è perso e non sa dove andare e ha difficoltà linguistiche nel contattare i rari abitanti che incontra, resi diffidenti anche dall’incontro di due culture da sempre in conflitto aspro tra di loro. La banda, come tutte le bande di questo nostro mondo, ha un capo, un maestro concertatore, e insieme direttore. E’ un uomo di mezza età, con la faccia perennemente abbronzata dal sole africano e un paio di baffi solenni a nascondere una timidezza di fondo e un dramma. E’ rimasto vedovo recentemente e dietro i suoi occhi tristi e le poche parole che dice si nasconde un dramma che lo spettatore ha difficoltà a percepire in modo netto e preciso. Capita la banda in una sorta di motel ai limiti di una cittadina, gestito da una giovane donna, anch’essa provata dalla vita e destinata a una precoce solitudine. Il piccolo dramma della banda, che deve ritrovare la propria strada per raggiungere in tempo utile la sede del concerto, si intreccia con l’incontro tra queste due solitudini. L’uomo non sarà capace di superarsi, di creare una discontinuità nella propria vita, di cogliere quello spazio di kairòs che il caso gli ha costruito e che richiederebbe un po’ di coraggio per essere accolto. Pensa di non poter più amare, quel maturo direttore di banda, pensa che quelle vie non gli siano più consentite e se la banda riesce a ritrovare la propria strada, il commiato tra i due è triste e pieno della pena di un’occasione perduta, di una prospettiva non colta, di una gioia negata. Le immagini, che hanno sfiorato con pudicizia i corpi, mostrando mani, occhi, pezzi di volti, sembrano nel finale diventare restie, fuggire dall’intimità, e riprendono i campi medi, quasi a significare allo spettatore che ancora una volta donne e uomini non hanno voluto, saputo, potuto amare, che ancora una volta la paura è prevalsa sulla speranza e che il mondo si è un po’ impoverito. Il deserto sembra aver vinto nella sua prospettiva inquietante di un vuoto troppo eccessivo da poter essere riempito da donne e uomini di ogni giorno, resi timorosi dalla prospettiva di attraversare una zona grigia, desertica, perdendo l’identità presente, che se non li soddisfa li rassicura, per raggiungere una identità nuova, dettata dall’amore, che li potrebbe soddisfare, ma insieme, ora, li atterrisce troppo, colma com’è di incertezza e di imprevedibilità intollerabili.

Postato dalla personalità mutante di: Pino Varchetta

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