Organizzazione sociale e social organization
Nelle ultime settimane è uscito un gran numero di testi (libri, ricerche, White Paper, eccetera) dedicati ai social media e al loro rapporto con le aziende. Molti riguardano l’utilizzo aziendale dei principali social network (vedi ad esempio Vivere Social del nostro panelist DELPHI 2.0 Federico Guerrini); altri hanno un taglio sociologico (in questo blog abbiamo dato conto dei volumi di Davide Bennato e Angelo Romeo); altri ancora sono report proposti da organizzazioni come McKinsey e Boston Consulting Group, o spunti di ricerca come quelli di Gary Hamel).
In questo panorama spicca il volume di Bradley e McDonald The Social Organization, uscito da poche settimane negli Stati Uniti, che si impone all’attenzione per il taglio particolare dato all’argomento e la ricchezza di contenuti con cui lo sviluppa.
Come ha scritto McDonald in una sua introduzione al volume per HBR (e che ho ripreso come epigrafe nella presentazione del progetto La Rivoluzione social e le aziende), “All Organizations Are Social, But Few Are Social Organizations”. Ovvero è pacifico che tutte le organizzazioni sono delle costruzioni sociali realizzate da quell’animale politico che, come sappiamo almeno dai tempi di Aristotele, è l’uomo: ma sono ben poche oggi le organizzazioni che possono fregiarsi dell’aggettivo social, nel duplice senso di partecipativo e finalizzato a promuovere utilità sociale (così come avevo già indicato qualche anno fa in un mio post sul tema della social innovation e ripreso al tredicesimo punto del Delphi 2.0).
Bradley e McDonald (entrambi vice president di Gartner) si propongono quindi di definire cosa sia una social organization e poi di illustrare come una impresa tradizionale (ovvero taylorista o, se si preferisce, 1.0) possa trasformarsi in una organizzazione social (quindi postfordista ovvero basata su una concezione evoluta di Management 2.0).
Cosa è una social organization
Sono due gli assunti di partenza. Il primo: la social organization è quella in cui la creazione di valore passa attraverso la capacità di generare, sfruttando le enormi potenzialità dei social media, ciò che gli autori chiamano “mass collaboration”. Il social software che si è affermato in tempi brevissimi, sostengono, consente infatti ciò che fino ad ora non era mai stato possibile: attivare la capacità di un vastissimo numero di persone sparse per il mondo di lavorare collettivamente valorizzando al massimo grado le singole riserve di competenza, talento, creatività ed energia.
Questa “collaborazione di massa” deve essere sviluppata sia all’interno sia all’esterno dell’azienda. Non si può essere “social a metà” (focalizzandosi ad esempio solo sul marketing), la creazione di valore deve coinvolgere tutti gli stakeholder: clienti, fornitori, dipendenti, comunità locali. Si conferma ciò che abbiamo visto nel post dedicato ai 12 principi del Management 2.0: l’apertura dei confini organizzativi (secondo punto del nostro Delphi 2.0) è centrale per realizzare quello che, nei termini dello Humanistic Management 2.0, chiamiamo “il nuovo dominio manageriale" - quindicesimo punto del Delphi 2.0.
Secondo. Per ottenere una organizzazione di successo fondata sull’utilizzo partecipativo dei social media è fondamentale un profondo cambiamento nei modelli gestionali e negli stili di leadership. (vedi anche su questo: Verso una HUMANISTIC Enterprise 2.0).
Non siamo quindi davanti ad un problema tecnologico, ma ad un problema culturale (il quarto punto del nostro Delphi online è non a caso proprio dedicato alla necessità di trasformazione del modello cognitivo prima che operativo in base al quale si sviluppa l’azione aziendale a tutti i livelli, mentre il dodicesimo si focalizza sul tema della nuova leadership).
Ciò significa, molto concretamente, denunciare innanzitutto come puri alibi difensivi tutti gli argomenti addotti per resistere al cambiamento (una lista dei quali abbiamo proposto nel post I 10 alibi del Top Manager ostile all’innovazione 2.0). Quindi si tratta di mettere a punto un approccio che consenta di fare emergere tutte le “capabilities” necessarie per trasformare l’organizzazione in senso social, seguendo un percorso concreto e strutturato per fasi molto ben definite. Il libro di Bradley e McDonald offre un gran numero di strumenti riferiti a concrete case history che vale la pena di prendere in esame. Procediamo dunque con ordine.
Le tre componenti chiave della Mass Collaboration
Innanzitutto, di cosa parliamo quando parliamo di “collaborazione di massa”? Parliamo del prodotto dell’interazione di tre fattori: i social media, le community e la “purpose”, la proposizione di valore. Vediamoli nel dettaglio.
Social media. Un social media è un ambiente online (“online environment”) creato con l’obiettivo di sviluppare collaborazione di massa. Ciò che è distintivo di un social media non è la tecnologia. Ad esempio, Facebook è un social media fondato su una tecnologia di networking, Wikipedia su una tecnologia Wiki. In generale esiste un grandissimo numero di tecnologie abilitanti la mass collaboration (blog, social bookmarking, tagging, forum, eccetera), che non vanno confuse con quelle che semplicemente supportano la collaborazione fra singoli e team, che esistono da decenni. La differenza portata dalle tecnologie dei social media è la scala su cui operano e che consente a centinaia, migliaia persino milioni di persone di creare contenuti, condividere esperienze, costruire relazioni simultaneamente.
Community. Le community sono degli insiemi di persone che si riuniscono per ottenere un obiettivo comune. Radicata nell’obiettivo comune, una comunity può raccogliere diversi gruppi di persone provenienti dall’interno e dall’esterno dell’azienda che sono spinti da una stessa visione a lavorare collettivamente in maniera efficiente. Senza community non ci può essere collaborazione di massa.
Proposta di valore. L’obiettivo, la “value proposition” intorno a cui si raccoglie la community, da cui essa viene “convocata”, è l’ingrediente essenziale della collaborazione di massa e quindi della social organization. E’ ciò che determina la spinta interiore, la motivazione, la volontà di lavorare insieme ad altri mettendo a disposizione la propria conoscenza, le proprie esperienze e le proprie idee. E’ la proposta di valore, il fine comune, la pietra di paragone in base al quale si misura l’efficacia di una community, l’adeguatezza della tecnologia sociale da utilizzare, la coerenza con gli obiettivi di business, l’efficienza della leadership.
In sintesi: la community definisce chi collabora. Il social media dove collabora. La proposta di valore perché collabora. Semplice no? Ma maledettamente difficile da mettere in pratica.
I sei principi della collaborazione di massa
La collaborazione di massa, costituita dai tre fattori sopra esaminati, si fonda, secondo Bradley e McDonald, su sei principi: partecipazione, lavoro collettivo, trasparenza, indipendenza, continuità e “emergenza”, nel senso di “far venire alla superficie dal basso”.
Partecipazione. Per ottenere un sostanziale beneficio dai social media, occorre essere in grado di mobilitare una community. Saper creare un ambiente conviviale. Negli ambienti sociali efficienti la massima parte dei contenuti viene dai partecipanti. Sembra banale, ma la quasi totalità delle aziende ritiene che i social media siano semplicemente un ennesimo canale broadcasting attraverso cui veicolare la comunicazione corporate. L’effetto è disastroso, sia in termini di comunicazione interna sia di marketing. Del resto la gran parte delle agenzie di pubblicità e della società di consulenza cui le aziende si rivolgono non le sanno guidare, perché non possiedono le necessarie competenze, verso un diverso approccio, ovvero un approccio genuinamente social. Ma basta pensare a LinkedIn, Wikipedia, YouTube o Facebook: senza ciò che in termini tecnici viene definito “user generated content” sarebbero dei gusci vuoti. Proprio come la comunicazione corporate della maggior parte delle aziende oggi.
Lavoro collettivo. In una comunità collaborativa le persone si raccolgono (to collect) intorno ad una proposta di valore unificante. Questo è ciò che le rende un Mondo Vitale (vedi anche la conversazione con Angelo Romeo, sopra ricordata). Le persone si raccolgono attorno a Wikipedia per creare articoli enciclopedici o intorno a YouTube per condividere video. L’atto di contribuire ad uno sforzo collettivo, che si espande grazie a una moltitudine di contributi individuali ed indipendenti, è la novità della “mass collaboration” ed è ciò che distingue il suo approccio da quello di altre tecnologie come l’email o il file transfer.
Trasparenza. Trasparenza in questo contesto significa che tutti i partecipanti possono vedere i contributi di tutti gli altri. Non solo: possono usarli, aumentarli, validarli, criticarli. Solo applicando questo concetto di trasparenza la community è in grado di creare contenuti innovativi, migliorarli e farli evolvere. Fra l’altro, il vedere i contributi degli altri costituisce spesso la molla che attrae nuovi contributori, oltre ad essere la condizione indispensabile per ottenere la fiducia da parte di tutti i membri della community. E’ la trasparenza che distingue la collaborazione di massa da cose come i motori di ricerca, i tradizionali sistemi di knowledge management o le survey online (infatti il nostro Delphi 2.0 si differenzia da queste ultime proprio perché applica tutti e sei i principi di cui stiamo parlando, a partire dalla trasparenza nel senso qui indicato). Senza trasparenza la “mass collaboration” si trasforma inevitabilmente in “mess” collaboration (in un casino, per dirla chiara).
Indipendenza. Ogni membro della community deve poter partecipare al lavoro collettivo in maniera completamente autonoma, dovunque si trovi. Ad esempio la tecnologia wiki ha avuto successo proprio perché consente a chiunque di contribuire da qualsiasi luogo e a qualsiasi ora.
Perseveranza. Le organizzazioni che utilizzano i social media per abilitare la collaborazione di massa devono stabilire che tipo di continuità richiedere alla contribuzione dei partecipanti. Comprendere esattamente quali informazioni devono essere catturate, per quanto tempo devono essere mantenute, ogni quanto tempo aggiornate è vitale per il successo di qualsiasi social media.
Emergenza dal basso. I comportamenti che producono la collaborazione di massa non possono essere definiti, disegnati e controllati dall’alto come nei sistemi tradizionali. Questi comportamenti semplicemente emergono dal basso attraverso le interazioni fra i membri della community. Questa capacità di emersione spontanea dal basso è la chiave che consente di aprire le porte dell’innovazione, di trovare nuove idee, di escogitare soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili.
Meccanismi di funzionamento e possibili modalità di collaborazione di massa
Giunti a questo punto, gli autori descrivono il meccanismo base di funzionamento di una community (il ciclo “contributions, feedback, judgment and change"), ma soprattutto alcuni modelli di collaborazione di massa.
Fra questi ricordo l’intelligenza collettiva, il crowdsourcing, le strutture emergenti, la coltivazione di interessi comuni, il flash mobbing. Ma al di là delle sue specifiche possibili declinazioni, è interessante capire come una organizzazione tradizionale può trasformarsi in una social organization. Ne parleremo nelle prossime puntate.
1. Continua
Vedi anche:
La social organization – parte seconda
La social organization – parte terza
La social organization – parte quarta
La social organization – parte quinta