Nulla due volte in ebook

N2v Da molto tempo esaurito nella sua forma cartacea, rinasce come ebook Nulla due volte, il libro che scrissi nel 2006 intorno a 25 poesie del Premio Nobel Wislawa Szymborska, illustrato dalle foto di Fabiana Cutrano e arricchito dai commenti di 25 personalità del mondo della cultura e dell’economia.

E’ questa una buona occasione per riflettere sullo strano connobio che viene qui proposto: poesia e management, anche se, come ha rilevato Francesca Mazzuccato, è bene chiarire fin d’ora che l’orizzonte del libro è molto più vasto. Cosa c’è infatti di apparentemente più lontano della poesia dalla quotidiana prosa che informa di sé la tradizionale cultura d’impresa, quella che affonda le proprie radici nelle elaborazioni teoriche di Taylor e nelle pratiche della fabbrica fordista? E’ anche per rispondere a questa domanda che sono nate le esperienze de Le Aziende InVisibili prima, La Mente InVisibile   poi.

Il manifesto dello humanistic management

La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.

(Ad alcuni piace la poesia)

Persino Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura, del resto lo ammette. Non lo sa. Non sa cosa è la poesia. Tanto meno dunque, a cosa serve. Meno che meno, possiamo supporre, a che possa servire in azienda.

Per rispondere a tale domanda, occorre partire dall’assunto che, con buona pace di Taylor e Ford, l’impresa non è una macchina, statica e immutabile, bensì un mondo vitale, in continua e dinamica evoluzione. Tanto più in un periodo come l’attuale, in cui il cambiamento è divenuto il normale stato delle organizzazioni contemporanee, ormai permanentemente “mutanti”. Per questo il paradigma imprenditoriale tradizionale, il cosiddetto scientific management, si mostra ormai del tutto inadatto a offrire letture convincenti dell’impresa e strumenti operativi efficaci per la sua conduzione. Di qui l’idea di elaborare una visione alternativa di che cosa sia e di come gestire il “mondo vitale” delle imprese, fondata su un modello narrativo e sulla grande tradizione dell’umanesimo europeo, che è stata descritta da un gruppo di noti esponenti della cultura italiana nel libro Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management. Lo strumento principale di cui si avvale è l’apertura al nuovo: sia alle inedite possibilità  dischiuse dall’Information & Communication Technology, sia a discipline fino ad allora (era il 2004) escluse dalla realtà imprenditoriale – la letteratura, la filosofia, la drammaturgia, il cinema.

Si comincia così a capire perché proponiamo ai manager  di guardare alla poesia. Già Lyotard,  nel suo testo sulla “condizione postmoderna”, affermava che “lo spirito della contemporaneità coincide con la messa in dubbio di una cultura fondata sulle narrazioni che diventano prescrizioni”. E’ evidente il parallelismo con la necessità di abbandonare i paradigmi manageriali “scientifici” per sviluppare “un discorso”, scriviamo nelle Variazioni Impermanenti che aprono il Manifesto,che ci parli di come si coglie l’emergere del nuovo, di come si impara a imparare, di come si è determinati dal mondo a cui apparteniamo, e allo stesso tempo di come il mondo è (anche) frutto di un nostro contributo creativo…di come dunque riavviare una riflessione sui fini, oltre che sui mezzi; che metta al centro l’“arte”, quale ci è mostrata in massimo grado da poeti, romanzieri, drammaturghi: da “umanisti” nel senso rinascimentale, narratori di storie, “facitori di senso” (sensemakers) tramite il romanzo, la poesia, l’autobiografia, il teatro, il cinema, ma anche i computer e persino la televisione” (Prima Variazione).

Non a caso, a differenza di chi anche in tempi recenti ha adottato la forma “Manifesto” per ragionare sui temi della comunicazione e della cultura d’impresa, non abbiamo voluto esprimere tesi “fondative”, bensì piuttosto “temporanee”, “transitorie”, “incostanti”: “impermanenti”, come è la realtà che oggi abitiamo. “Variazioni” in senso musicale, intese come modificazioni di un tema sotto l’aspetto ritmico, armonistico, contrappuntistico, timbrico, tale che il tema stesso possa essere sempre riconoscibile in forme continuamente diverse.

Dalla poesia l’apprendimento

L’idea di lavorare per Variazioni definisce una scelta di campo ben precisa: lo stile plasma il contenuto. Spesso testi che lavorano sulla zona di convergenza tra management e scienze umane propongono concetti innovativi attraverso canali espressivi troppo tradizionali. L’espressione e il pensiero (il sentimento, l’emozione, l’idea…) che essa vuole manifestare dovrebbero invece costruire una “doppia cattura”, un territorio mobile in cui quello che si dice e il modo in cui lo si dice permettano un rilancio reciproco. E’ la  biplanarità del segno: una faccia rivolta al significato, un’altra rivolta all’espressione. I due piani devono coesistere per poter “dire” il cambiamento in atto. L’idea musicale di Variazione pensa proprio questa persistenza nel cambiamento. Lo stesso vale  per la più musicale delle discipline letterarie: la poesia, che, fra tutte le ricchezze offerte dal patrimonio umanistico, può, dicevamo in apertura, apparire particolarmente difficile da utilizzare come strumento per leggere e gestire le imprese. Anche perché  è complicato dare una definizione di cosa sia la poesia stessa. Ha scritto Borges: “ Non possiamo definirla proprio come non possiamo definire il gusto del caffè, il colore rosso o l’amore per il nostro paese. Sono cose così profonde dentro di noi, che possono essere espresse solo da quei simboli comuni che tutti condividiamo.

La difficoltà è tale, che se ne può forse venire a capo solo seguendo Hans Magnus Enzensberger, quando indica con la consueta ironia queste Opzioni per un poeta:

Dire la stessa cosa con altre parole,

ma sempre la stessa.

Con sempre le stesse parole

dire una cosa tutta diversa

o in modo diverso la stessa.

Oppure tacere in modo eloquente.

La poesia rivela od occulta? Se la seconda fosse l’opzione corretta, gli scientific manager allevati – per parafrasare il titolo di una raccolta di poesie ispirate alla vita aziendale, scritta da Francesco Varanini – alla scuola del largo consumo… di risorse umane (che spesso è, direbbe Montale, uno scialo vano, più che crudele) potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Chi meglio di questi tecnocrati,  heidegerriani chiacchieroni, per così dire,  usa le parole, persino inconsapevolmente, non per rivelare o costruire, ma per contrastare l’emergere di qualsiasi possibile significato, che non sia quello pre-determinato, assoluto, immodificabile (o ritenuto tale) imposto dall’alto?

Ma si tratta di un tentativo che l’affermazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della  comunicazione  destina al fallimento. La loro massiccia introduzione in azienda  ha costituito un punto di non ritorno, poiché consentono forme di conoscenza della realtà non più  sequenziali, razionalmente ordinate e del tutto coerenti. La multimedialità, l’ipertestualità, il networking, le diverse possibilità di interazione tra chi ascolta e chi racconta consentono di indagare la complessità in cui siamo immersi con tutte le sue contraddizioni. Dalla prosa del taylorismo si è passati a quella poesia manageriale che sola può guidare l’assunzione di responsabilità a tutti i livelli rispetto a fini anche non strettamente economici dell’impresa, soprattutto attraverso la socializzazione e valorizzazione delle conoscenze (knowledge management), imprescindibili basi delle organizzazioni attuali, siano esse private o pubbliche.

Dalla poesia l’apprendimento”, recita dunque la controcopertina del Manifesto. Ciò, in concreto,  può avvenire in quanto il testo poetico, proprio per la profondità con cui agisce sul lettore e l’universalità dei suoi contenuti, determina un processo identificativo, scatena delle reazioni e porta il soggetto ad interrogarsi sul perché di tali reazioni, favorendo dunque l’autoconsapevolezza, primo passo verso l’autosviluppo. In questo senso, è stato osservato, la letteratura può essere utilizzata non diversamente da altre esperienze identificative, come ad esempio il cinema. Ma  la poesia diventa uno  strumento di indagine della realtà  più potente di molti altri, con cui pure condivide la “narratività”, in quanto è  per sua natura aperta a recepire i vissuti individuali più interiori, cioè non razionali,  contradditori, spesso ignorati o nascosti dai soggetti stessi. Un esempio su tutti:  preziosa risulta la lettura di una poesia come L’amore felice, in cui genialmente, forse per la prima volta nella storia della poesia, l’amore è visto non con gli occhi, ridenti o più spesso dolenti, degli amanti, ma con quelli degli esclusi da questo rapporto. Presso questi ultimi, per dirla con Girard, si scatena quel “desiderio mimetico” che quasi sempre nutre di sè le relazioni personali e professionali anche nell’odierno mondo aziendale, dando origine al mobbing e all’emulazione “ostacolativa” (non gli faccio fare quella cosa perché non sono io a farla; non gliela faccio fare anche se non mi interessa) E c’è solo un modo, tragico e paradossale,  per chiudere il circolo vizioso, la guerra di tutti contro tutti, che il desiderio mimetico avvia: la distruzione dell’individuo preso a modello e quindi la morte di ogni legame propriamente umano.

L’approccio metadisciplinare

In questo quadro, il libro che proponiamo di realizzare è costituito da  una scelta di venticinque poesie del premio Nobel per la letteratura Wislawa Szymborska  ordinate  per temi “manageriali”, che corrispondono però a questioni di portata valoriale più ampia (convivialità aziendale, motivazione individuale e sviluppo delle relazioni interpersonali, knowledge management, diversità e creatività, sensemaking). Ciascuna poesia è accompagnata da un commento che si può leggere in quanto tale, oppure come vero e proprio pre-testo, punto cioè di partenza di un più ampio discorso che il lettore può costruire sequenzialmente o mettendo insieme i singoli pezzi attraverso percorsi di senso che lui predilige o inventa, secondo la lezione del Cortazar de Il gioco del mondo, dove con intuizione straordinaria egli ha anticipato  le logiche dell’ipertesto e di Internet (in coerenza dunque con il fine dello humanistic management di coniugare Information Technology e sapere umanistico). Come è noto, in quel libro del 1961 (titolo originale “Ruyela”, ovvero Ragnatela, ovvero…Web) lo scrittore argentino  presenta due itinerari di lettura, con i rispettivi sistemi di connessioni interne, invitando implicitamente  il lettore a crearne di nuovi. Di fatto il miglior ipertesto che si poteva immaginare su carta. Cosa avrebbe fatto Cortazar se avesse avuto a disposizione un blog o un sistema di knowledge management? Chissà. Certo è che il libro ha indotto comportamenti di lettura non sequenziali e persino del tutto arbitrari simili a quelli che oggi sono abituali per chi usa Internet. “Alcuni – ha dichiarato Cortazar –  mi  hanno detto che non avevano voluto seguire né il primo né il secondo modo di lettura, e con procedimenti a volte quasi magici – tirando i dadi, per esempio, o estraendo numeri da un cappello – avevano letto il libro seguendo un ordine totalmente diverso”. Tornando alla nostra proposta editoriale, aggiungiamo che l’editing sarà equilibrato in modo tale da porre a fronte di ogni poesia un commento. Volendo, il lettore potrà anche leggere le poesie indipendentemente dai commenti, e viceversa.  In tal modo, la ricerca di ulteriori itinerari di lettura dovrebbe risultare ancor più stimolata.

Vi è un altro aspetto poi da considerare. Tratto distintivo dello humanistic management è   la commistione fra saperi diversi, il dialogo interdisciplinare, l’ibridazione  in tutte le sue forme, in quanto  elementi essenziali per lo sviluppo della creatività, come è stato messo in luce da tutti i più importanti studiosi del fenomeno, da Domenico De Masi a Richard Florida. Perciò le poesie raccolte nel volume  di volta in volta sono oggetto di un commento puntuale, didascalico, soprattutto quando si prestano  bene ad una lettura aziendale (tipico il caso di Scrivere il curriculum), ma costituiscono più spesso  la base  per  sviluppare paralleli con altri autori (poeti, filosofi, romanzieri, eccetera); ancora,   conducono persino a “porte” imprevedibili (in quanto del tutto arbitrarie, casuali, impermanenti) per accedere ad altri “universi” di significato.

Perché Wislawa Szymborska

Resta da rispondere ad un’ ultima domanda: perché Wislawa Szymborska? Le ragioni sono tantissime e si possono ricercare nella sua capacità di coniugare  un linguaggio apparentemente semplice a una spesso enorme complessità di significati; di illuminare con dei lampi improvvisi di luce abbagliante verità scontate e banali – così scontate che le perdiamo continuamente di vista; di inserire la singola vicenda personale nel quadro di valori  universali che connotano l’umana esistenza in ogni tempo e in ogni luogo. Anche in azienda, dove conduciamo buona parte della nostra vita. Come ha scritto Pietro Marchesani, “la presa di questa poesia sui lettori dipende dalla sua non comune capacità di aderire alla concretezza del quotidiano per giungere, spesso partendo da minimi dettagli, al nucleo intimo delle cose”. E’ proprio  la capacità assolutamente mancante allo scientific manager dedito al culto della pianificazione burocratica e del controllo rigido: culto dominante in  un mondo pervaso da   quella stupidità dei nostri tempi che purtroppo, come ha ben chiosato  Wislawa Szymborska “non è ridicola” (così come  “la saggezza non è allegra”).  Lo humanistic manager, al contrario,  è proprio colui che si sforza di andare continuamente alla ricerca di nuovi significati da dare al lavoro e alla vita in azienda, attraverso la riflessione sui fini da perseguire, l’esplorazione delle potenzialità dell’impresa e la ricognizione dei mezzi necessari per tradurle in atto: attraverso il rafforzamento, insomma, di una leadership flessibilmente disposta a percorrere le imprevedibili biforcazioni dei sentieri che si snodano nel giardino del futuro per puntare a cogliere ciò che anche Milan Kundera  chiama appunto l”anima delle cose”, grazie a sempre nuove scoperte nella trama del reale che, come accade ai poeti, sono in certa misura sue proprie “invenzioni”.

Su questo, a ben vedere, non solo si fonda quella capacità di visione che contraddistingue il vero imprenditore e il buon manager, ma si innesca anche  quel processo decisivo nelle aziende contemporanee che consiste nel  coltivare il sapere interno  come spazio plurale di possibilità: un processo collettivo fondato necessariamente su una approfondita consapevolezza individuale delle proprie molteplici potenzialità di sviluppo (come ci insegna Szymborska nella poesia intitolata proprio Possibilità), senza la quale non può esserci alcuna crescita del talento dei singoli e, quindi, nessuna crescita della realtà imprenditoriale che essi contribuiscono a sostenere. Sotto questo profilo,  si  apprende più da una pagina delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar o da un “post” su Facebook, che da mille volumi di letteratura manageriale. Ecco allora che poesie come La gioia di scrivere possono costituire un viatico originale e assai stimolante per capire in particolare come  la scrittura della propria vicenda (con una penna d’oca o usando la tastiera di un computer) sia un esercizio morale di raccoglimento e meditazione  che,  fin dal rinascimento,  coincide con il raggiungimento interiore dell’“età virile” (o muliebre). Analogamente il manager oggi deve sapere  “conoscere sé stesso”, il proprio io fatto non solo di competenze tecniche ed esperienze professionali, bensì di “chiaroscuri e semitoni/…capricci, ornamenti e dettagli,/stupide eccezioni,/segni dimenticati,/innumerevoli varianti del grigio,/gioco per il gioco/e tu, lacrima del riso” (Nell’arca).

Impermanenza, diversità, identità molteplice

L’insieme dei concetti fin qui delineati per sommi capi, centrali ai fini del discorso che vorremmo condurre nel libro in progettazione, è legato all’importanza che ha anche nelle poesie di Szymborska il tema  dell’impermanenza, dell’arbitrarietà, del caso (Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità. Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio, scrive in Sotto una piccola stella), come avviene nei versi intitolati proprio Ogni caso:

 

Poteva accadere.

Doveva accadere.

E’ accaduto prima. Dopo.

Più vicino. Più lontano.

E’ accaduto non a te.

 

Ti sei  salvato perchè eri il primo.

Ti sei  salvato perché eri l’ultimo.

Perché da solo. Perché la gente.

Perché a sinistra. Perché a destra.

Perché la pioggia. Perché un’ombra.

Perché splendeva il sole.

….

In seguito a che, poiché, eppure, malgrado.

Poichè viviamo sempre più nell’impermanenza, ciò di cui ognuno di noi ha bisogno per dare il meglio di sè stesso nel lavoro e nella vita privata (o semplicemente per non lasciarsi morire)  è l’individuazione di un “significato”: di ciò che   Wislawa Szymborska, nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel per la  Letteratura, definisce ispirazione. “L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono giardinieri siffatti, ci sono pedagoghi siffatti e ancora un centinaio di altre professioni….Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti di questa terra lavora per procurarsi da vivere, lavora perchè deve. Non sono essi a scegliersi il lavoro per passione, sono le circostanze della vita che scelgono per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia, apprezzato solo perchè comunque non è a tutti accessibile, è una delle più grandi sventure umane. E nulla lascia presagire che i prossimi secoli apporteranno in questo campo un qualche felice cambiamento”. La scrittrice polacca è dunque pessimista sulla possibilità da dare dignità ed interesse al lavoro della maggior parte di noi. Come nella poesia Commediole, talvolta sembra disperare che si possa dare un senso più in generale alla nostra vita. Eppure è indubbio che rispondere a questa esigenza appare ineludibile. Cresce la consapevolezza che, nella società attuale, la “cittadinanza sociale” passa attraverso il lavoro. Accanto agli altri ambiti della vita (famiglia, tempo libero, gruppi sociali) gli individui soddisfano le proprie aspettative di realizzazione, sviluppo, relazione e, in senso più forte, costruiscono la propria identità soprattutto nell’ambito lavorativo, spazio purtroppo oggi sempre più difficile da conquistare soprattutto per i giovani.

Una identità che oggi si caratterizza per una radicale “molteplicità”, che destabilizza in azienda le modalità correnti di gestione di persone considerate meramente “unidimensionali”. Oggi invece “l’identità è doppia, tripla, quadrupla, multipla come le vite che ciascuno di noi sperimenta. La gente cerca una vita che negli Stati Uniti chiamerebbero “bicoastal”, con l’abitazione sulla sponda di un oceano e il lavoro sulla riva di un altro, o, meglio, una professione diversa per ogni giorno della settimana” (Sesta Variazione).  Inoltre nelle Variazioni il tema della molteplicità è richiamato anche come connotato non solo delle persone, ma anche delle loro esperienze e dei loro bisogni: “Abitiamo un mondo in cui si vogliono vivere esperienze materiali (visive, auditive, cinestetiche) per contattare immediatamente una dimensione emotiva, spirituale, trascendente. Voglio assaporare un caffè straordinario in un bar dove suonano musica jazz per poter vivere un’esperienza che mi porta in contatto con un me altro, con la natura spirituale che sento dentro” (Ottava Variazione). Sono queste persone, al tempo stesso uniche e molteplici, che oggi i manager devono sapere gestire, sviluppare, valorizzare. I loro sentimenti, le loro conoscenze, la loro immaginazione, unica e irripetibile. E al tempo stesso la loro irriducibile diversità, cui troppo spesso i capi azienda guardano con la medesima insofferenza e alla quale riservano il medesimo trattamento dei consoli romani fotografati impietosamente nella poesia Voci. Inoltre  la poesia con la sua capacità di esprimere l’inesprimibile, cogliere l’impensabile, guardare contemporaneamente le facce di quel Giano plurifronte che è l’Uomo, non solo può svolgere una pars destruens, nello svelare i meccanismi di omogeneizzazione imperanti nelle aziende di “cloni”, ma  può rivelarsi come la chiave di volta per  capire ciò che fa di ognuno propriamente sé stesso, così come impeccabilmente scrive Wislawa Szymborska:

 

Quattro miliardi di persone su questa terra,

ma la mia immaginazione è uguale a prima.

Se la cava male con i grandi numeri.

Continua a commuoverla la singolarità.

 

Sensemaking

Per questo nelle aziende si parla sempre più frequentemente di “sensemaking”. Saltata la concezione dell’impresa come serie di  significati prevedibili e pre-scritti sul marmo delle best practices, delle procedure, degli ordini di servizio, degli organigrammi,  si è affermata la necessità di pensarla come sforzo collettivo di generazione di senso. Un processo per Weick  connotato da  sette caratteristiche:

  1. la costruzione di identità, individuale e collettiva;
  2. la retrospettività, per cui  la creazione di significato si riferisce a ciò che è già avvenuto, più che a ciò che avverrà;
  3. l’istituzione di ambienti sociali tramite le persone che vi operano,  senza dimenticare che
  4. il substrato sociale modella l’interpretato e l’interpretante;
  5. la continuità: il sensemaking è un “never ending process”,
  6. centrato su informazioni selezionate (pensiamo ad  Internet. Per non naufragare nel mare di dati reperibili, ogni  lettore-autore dovrà costruire personali percorsi di senso, tramite l’eliminazione di  ciò che con tali specifici percorsi è incoerente);
  7.  la plausibilità.

 

Si può  affermare, dunque, che il processo di “costruzione di significato” è essenzialmente comunicativo e narrativo. Ciò  pone dei problemi che i “facitori di senso” per eccellenza, ovvero i poeti, i commediografi, gli artisti in genere conoscono bene. Il primo dei quali è che il linguaggio non solo è impreciso,  talora è perfino contraddittorio rispetto agli  oggetti  che  dovrebbe  descrivere,  come  nota  Wislawa Szymborska quando sottolinea che “Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta”. Il tema dall’ambiguità del linguaggio viene sviluppato più compiutamente in poesie come  Le tre parole più strane (in cui fra l’altro si ritrova la specifica difficoltà  di     esprimere     tutti  i  significati  del “silenzio”)  e  soprattutto Vista con granello di sabbia  (proposte nella sezione “Sensemaking”). Una poesia, quest’ultima,  mirabile per l’andamento “cinematografico” con cui passa dal particolare all’universale, attraverso una serie di “panoramiche” sempre più allargate. Dal dettaglio minuscolo – Lo chiamiamo granello di sabbia./Ma lui non chiama se stesso né granello, né sabbia– passando al paesaggio circostante –il lago, le sponde, le onde che riflettono il cielo – fino all’enigma del tempo umano ed di quanto vi è oltre l’umano – Il tempo passò come un messo con una notizia urgente./Ma è solo un paragone nostro./Inventato il personaggio, insinuata la fretta/e la notizia inumana.

In sintesi, possiamo dire che gli avvenimenti, compresi quelli aziendali, senza una chiave di lettura sono vuoti, come ogni interpretazione è cieca (inumana), priva di un  contesto. Torna così ancora più forte la domanda: sono pronti i manager a trasformarsi in “inventori” di senso? E non un significato assoluto, come quello che Prospero impone a Miranda nella Tempesta shakespeariana e gli epigoni di Ford ai propri dipendenti,  ma un significato molteplice, dialogico, “permanentemente impermanente” ? E tutti noi che viviamo nelle organizzazioni, siamo pronti a contribuire al processo di continua re-invenzione del senso del nostro lavorare,  del nostro esistere stesso?