Il mondo di Magis
Nel corso della recente Biennale Innovazione ho avuto l’opportunità di confrontarmi con uno dei maestri del design italiano, Eugenio Perazza, il fondatore di Magis, da quarant’anni azienda leader nel mondo dell’arredamento. Una dimostrazione concreta di come il genius loci italiano possa affermarsi in tutto il mondo grazie alla sua inimitabile peculiarità, non chiudendosi in se stesso ma aprendosi a quanto di meglio si possa trovare al di là dei nostri confini. In particolare, il successo di Magis si basa sul desiderio di rendere accessibile a un’ampia fascia di utilizzatori prodotti di alta qualità funzionale e tecnologica, sviluppati insieme ai protagonisti del design internazionale, con una visione non solo estetica, ma anche etica e poetica del progetto.
Stefano Giovannoni, Jasper Morrison, Konstantin Grcic, Ronan & Erwan Bouroullec, Marc Newson, Ron Arad, Naoto Fukasawa, Marcel Wanders, Philippe Starck, Zaha Hadid, Thomas Heatherwick, sono alcuni dei designer che collaborano con Magis, per dare forma a una grande collezione di prodotti, ognuno con una propria storia da raccontare e con una propria personalità da esprimere, negli spazi domestici come in quelli collettivi.
Dedicati a un pubblico internazionale (la quota dell’export è infatti attorno all’85%) i prodotti Magis sono al 100% dimostrazione di cosa possa voler dire “Innovazione Made in Italy”, proprio come recita il sottotitolo del sito dedicato allo Humanistic Management: una garanzia di alta qualità, in sintonia con una tradizione che dalle sue radici culturali e artigianali, attraverso l’evoluzione stilistica e la crescita industriale degli anni Ottanta e Novanta, continua a rappresentare uno dei maggiori patrimoni dell’azienda.
La “Platfirm” Magis
Ma quello che maggiormente qui mi interessa rilevare è che, a suo modo, Magis è una antesignana del concetto di “Platfirm” discussa nel post La #DigitalDisruption In 5 Parole Chiave e mostra una strada originale attraverso cui una azienda radicata nella tradizione italiana può vincere la sfida posta dai social disruptors.
Come ha scritto Giampiero Bosoni, con il suo essere un singolarissimo produttore/editore, Perazza con Magis “apre una particolare questione riguardo all’attivazione e alla gestione dei processi di produzione rispetto alla fase ideativa e propositiva iniziale e la fase commerciale e distributiva finale. L’editore, oltre a immaginare uno scenario entro cui disegnare, e far disegnare, una strategia di forme, di espressioni, di linguaggi, e di modi in grado di generare una propria “cultura dell’abitare”, individua e organizza le tecniche e i processi produttivi, ma non necessariamente li detiene in proprio, anzi preferibilmente li cerca, li stimola e li coinvolge come un apparato esterno, duttile e flessibile. Questo concetto di piattaforma produttiva esterna, è stato uno dei primi punti innovativi verificati e conseguiti dall’azienda Magis già nei primissimi anni della sua costituzione, ormai quarant’anni fa”.
Di Magis, del suo modo di concepire l’innovazione e il design, Perazza ha parlato alla platea di Biennale Innovazione: nella conversazione che segue, abbiamo ripreso e approfondito il tema.
I primi passi
M.M.: “Eugenio, come ti sei avvicinato al design?”
E.P: “ Bisogna andare indietro nel tempo ed esattamente nel 1975.
A quell’epoca lavoravo nel commerciale di un’azienda della provincia di Venezia che occupava una ottantina di dipendenti e produceva articoli casalinghi in tondino di acciaio come scolapiatti, portaverdure, stendibiancheria, ecc. L’azienda investiva cifre notevoli nel processo produttivo, ma non investiva nessuna risorsa nella ricerca e sviluppo dei propri prodotti. Era orientata a copiare i prodotti belli che vedeva sul mercato.
E mi capitava spesso, quando visitavo i clienti e mostravo loro il catalogo, ascoltare … ma questo prodotto l’avete copiato lì, quell’altro là, ed io diventavo rosso dalla vergogna.
Così un bel giorno mi armai di coraggio e affrontai il proprietario, invitandolo ad aprirsi a una politica di sviluppo prodotto orientata al design.
Lui, per tutta risposta, mi disse: “Presenta tu, Perazza, un progetto”.
Raccolsi la sfida e mi misi alla ricerca di qualche buona idea di progetto. Passò una settimana, due, nessuna idea mi venne in mente.
Io credo che, ad ogni persona, almeno una volta nella vita, capitino quelli che io chiamo i sette secondi magici e, in questo lasso di tempo, possono accadere delle cose capaci di svoltarti la vita.
Beh, i miei sette secondi magici mi capitarono il giorno in cui vidi in un posto una sedia che non conoscevo, che destò la mia attenzione per una doppia ragione: per la sua qualità di design, ma soprattutto perché era in tondino di acciaio, il materiale che utilizzava l’azienda presso la quale lavoravo.
Si trattava di una sedia importante, la Wire, che Harry Bertoia disegnò per la Knoll. Ne comprai due e spesi qualcosa come 300 euro l’una.
Portai le sedie all’ufficio tecnico dell’azienda con l’invito a dirmi quanto sarebbero venute a costare nel caso le avessimo prodotte noi.
Mi arrivò la risposta alcuni giorni dopo: circa 10 euro l’una.
300 euro contro 10 euro, una grande differenza che mi sorprese e mi aprì l’idea di fare sedie e tavoli in tondino di acciaio per il mercato del contract, ma per fare ciò avevo bisogno di un bravo designer. Dove scovarlo?
A quell’epoca avevo un rapporto di grande amicizia con un dirigente dell’Olivetti che era per me la cattedrale mondiale del design.
Gli chiesi il nome di un giovane designer e lui mi diede il nome di Richard Sapper, un designer di origine tedesca che lavorava a Milano nello studio di Marco Zanuso.
Telefonai a Sapper, lo invitai a venire in azienda, lui venne e rimase fortemente impressionato.
Gli raccontai quanto avevo speso per l’acquisto della sedia di Bertoia rispetto al nostro potenziale costo di produzione e gli riferii della mia idea di fare sedie e tavoli in tondino d’acciaio per il mercato del contract. Lui trovò interessantissima l’idea e mi diede la sua piena disponibilità a lavorare su questo progetto.
Ero contento di come si mettevano le cose.
Venne il giorno in cui riferii il tutto al proprietario, il quale, alla fine del mio racconto, fu chiaro, ma inesorabile: “Caro Perazza, l’idea mi sembra bella, ma io non ho nessuna intenzione di lavorare con un designer, per giunta straniero”.
Questo episodio mi capita di riferirlo spesso e lo faccio, non tanto per raccontare qualcosa della mia vita, che non interessa a nessuno, ma per sottolineare una mentalità imprenditoriale allora molto diffusa in Italia, aperta ad investire nel processo produttivo e non nella ricerca e sviluppo prodotto.
La nascita di Magis
M.M.: Magis nasce l’anno dopo, giusto?”
E.P: “Dopo alcuni mesi, lasciai l’azienda e creai Magis nel 1976. Scommisi subito sul design, quando il design allora aveva un’identità fragile ed esitante, particolarmente nel Veneto, ma ero convinto che potesse essere un formidabile generatore di valore e ricchezza aziendale. Avendo pochi e scarsi mezzi fui portato necessariamente a concepire, sviluppare e definire un progetto di impresa di estrema leggerezza dal punto di vista finanziario. Come in effetti fu. Produzione esternalizzata, occuparsi solo della progettazione e della distribuzione del prodotto.
Inizi duri, un po’ bohemienne, giravano pochi soldi, ma tutto mi sembrava possibile. Poi, piano piano, le cose cominciarono a mettersi nel giusto verso ed oggi, a distanza di 39 anni dalla sua nascita, Magis gode buona salute ed è considerata azienda di grandissimo rispetto nella comunità internazionale del design e sono in tanti a pensarla così che…. quasi quasi comincio a crederlo anch’io”.
La reputation di Magis
M.M.: “Ma questa company reputation non è arrivata facilmente, è stata il frutto di un lungo e duro lavoro, immagino”.
E.P: “Beh, io mi sono spesso interrogato donde viene questa reputazione, e la sola risposta che ho trovato è questa: forse perché Magis sin dagli inizi è rimasta fedele a quello che voleva diventare, cioè un’azienda votata all’innovazione, alla ricerca, alla sperimentazione di nuovi materiali, tecnologie, linguaggi, per la realizzazione di progetti con un preciso grado di qualità, distinzione, differenza, sostenuta dall’ambizione di essere first mover, e penso che in molti casi sia riuscita ad esserlo.
Novantatrè premi di design, centoquaranta prodotti nelle collezioni permanenti di trentacinque musei, dal MoMA di New York, al Victoria & Albert Museum al Beaubourg : questi alcuni riconoscimenti della qualità del nostro lavoro.
M.M.: “Quest’anno siete anche presenti alla Biennale di Venezia”.
E.P.: “Andiamo fieri di tutto questo, ma stiamo ben attenti a non cadere nella trappola mentale dell’autocompiacimento : una specie di paraocchi che non ti fa vedere il momento in cui occorre svoltare, aggiustare la rotta e rompere, se occorre, con antiche fedeltà”.
M.M.: “Non mi sembra il vostro caso, state andando forte”.
E.P: “Magis oggi va bene, sta crescendo, a dispetto della crisi.
Le aziende devono crescere continuamente se vogliono mantenersi giovani, dinamiche, agili, perché l’azienda è come un albero, finché l’albero cresce è in buona salute, ma, appena smette di crescere, inizia a morire.
Magis è azienda familiare, con una forte emotional ownership, un alto senso di appartenenza istintiva all’impresa, di identificazione, attaccamento: l’impresa è una parte di te.
Non si è ostaggi dei dividendi di fine anno, ma si ha uno sguardo costantemente orientato al medio-lungo termine.
Penso che il futuro le appartenga e lo sostengo non tanto basandomi sul fatturato corrente, perché questo dice poco per non dire niente sullo stato di salute dell’azienda al futuro, quanto basandomi sulla valutazione dell’insieme dei progetti di design e progetti in altre aree aziendali che stiamo coltivando a fronte del 2016-2017-2018”.
Il design secondo Magis
M.M.: “Ma entriamo più dentro il mondo Magis. Cosa vuol dire per te design?”
E.P:” Design per Magis innanzitutto è il pensiero e la cultura aziendale capaci di guidare l’azienda verso percorsi suoi propri, alla ricerca di una qualità di progetto, di una differenza che conti. E sono le differenze che fanno la forza delle aziende.
E per fare vero designoccorre essere in due: l’azienda, da una parte, con tutte le sue voci, e il designer, dall’altra: e se è vero che devono pedalare in tandem in perfetta sincronia e simbiosi, il manubrio deve essere sempre nelle mani dell’azienda che decide in che direzione muoversi, che luogo raggiungere, perché come può lavorare il designer se l’azienda non sa dove precisamente andare?
E simbiosi è avere la piena consapevolezza da parte di entrambi, azienda e designer, che l’una non può fare a meno dell’altro e viceversa, in una specie di coopetizione, una collaborazione-competizione, un convergere di diversità.
Fare design è un viaggio a due, azienda e designer, che si inquadra nella vision aziendale e la vision nasce dal delicato equilibrio tra il senso della realtà e l’utopia. Non deve essere così utopica da risultare irrealistica, ma deve esserlo abbastanza da porre una sfida concreta e stimolare l’energia, e la vision deve potersi tradurre in realtà ma solo a prezzo di un duro impegno”.
M.M.: “Molti giornalisti, critici del design, quando scrivono di un progetto geniale parlano solo del designer”.
E.P.: “Il merito spesso va tutto a lui. Ma non è così. Il genio funziona collaborando e il progetto è sempre il risultato di un lavoro di squadra.
La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie alla TED conference nel giugno del 2009 ha definito “il pericolo della singola storia”: il rischio che un’unica prospettiva, per quanto forte e significativa, appiattisca la complessità delle migliaia di voci della storia”.
L’idea e il progetto
M.M: “Quanto è importante il progetto di partenza?”
E.P.: “Il progetto deve stabilire come prima cosa una buona idea perché senza una buona idea non si fa design ma esercizio di stile, puro manierismo.
Le idee non cascano dal cielo.
Nascono al contrario da una profonda immersione nella conoscenza presente. Dal farla propria intensamente fino a viverci immersi. Dal rivoltare infinitamente i problemi aperti, provare tutte le strade e poi ancora tutte le strade e poi ancora tutte le strade.
Fino a che, là dove meno te lo aspettavi, scovi una fessura, una crepa, un passaggio, qualcosa di minuscolo che apre un varco verso un territorio nuovo. E trovata l’idea bisogna trattarla bene. Godersela. Portarsela a letto, al bagno, al ristorante. Cominciare a lavorarci sopra. A disegnarla.
Questo per dire che design per Magis è soprattutto un modo di pensare, di generare nuove idee. E riempirsi la testa di idee, perché la mente è il solo luogo del nostro corpo in cui l’abbondanza non è insana. E poi fare screening, saper scegliere quelle giuste e lavorarci sopra”.
Cosa significa “innovazione”
M.M.: “Innovare vuol dire sperimentare?
E.P.: “Occorre sviluppare la cultura della sperimentazione.
Che è un investimento a volte mostruoso, di sforzo, di volontà, di caparbietà, di fanatismo, addirittura di follia, per raggiungere un obbiettivo che ci siamo proposti.
Che è il coraggio di osare, di spingersi on the edge, al di là della “parete”.
Il che è come percorrere una stanza buia alla ricerca di un’uscita che non sei mai sicuro di trovare.
E cerchi di abituare lo sguardo all’oscurità, urti, inciampi, ti fai male, e soprattutto, momento dopo momento, scopri che le cose non sono mai come te le immaginavi. E intorno a te, invisibili e reali, le ombre, a volte inquietanti, a volte stranamente cordiali. Con loro, comunque, devi venire a patti se vuoi raggiungere incolume l’uscita.
Il rischio è di non farcela, ma si deve ritentare. Ricordate che si fallisce una volta sola nella vita, quando si perde la voglia di ritentare.
Ben consapevoli che è là, in quel territorio oltre la parete che si potrà raccogliere il risultato importante della differenza e di conseguenza del vantaggio competitivo sul mercato”.
Il mercato
M.M: “Come sta cambiando il mercato?”
E.P.: “Oggi tutto sta cambiando, il mercato non è più quello di ieri, il consumatore non è più quello di ieri, molte aziende sono in uno stato di difficoltà e non sanno cosa fare per uscirne fuori.
In questa situazione in cui tutto sta cambiando, non si può più combattere con le armi del conflitto precedente (la metafora non è mia) perché tu puoi aver trovato le risposte a tutte le domande il fatto è che ti hanno cambiato le domande.
Anche il design deve cambiare.
Ci sono certo in giro buoni prodotti di design, ma c’è anche molto design oggi in giro con forme frivole, leggere, più o meno decorative, incapaci di durare e tutto questo ha un nome: design veloce, design per il momento presente cui non importa nulla del futuro o del passato.
Quando il design autentico ha bisogno di maturazione, cioè di tempo, attenzione, cure, precisione, rigore, che potrebbe definirsi come un’infinita pazienza.
Il premio nobel per la fisica Subrahmanyan Chandrasekhar (1983) dice che per fare della buona fisica non è essere particolarmente intelligenti che serve, quello che serve è lavorare molto.
Io dico che anche nel design è così.
Per fare del buon design non è essere particolarmente intelligenti che serve, quello che serve è lavorare molto.
Come prima cosa bisognerebbe mettere fine alla bulimia di progetti che costantemente vengono sfornati che sono privi di cuore, anima, che sono senza qualità.
Concentrarsi su pochi progetti, ma che siano sostenuti da un’idea originale, forte e saperli poi raccontare bene con qualità.
Perché sarà sempre più la qualità a vincere sul mercato”.
Il futuro di Magis
M.M.: “Quale è la direzione di Magis per il futuro?”
E.P.: “Occorre sempre domandarsi che cosa stiamo facendo perché il futuro ci appartenga, e perché ci appartenga occorre scovare la Next Big Thing.
Per quanto riguarda Magis è da alcuni anni a questa parte che mi interrogo se ci possa essere una via tipicamente italiana per fare progetto di design e produrlo poi qui in Italia, in un mondo globalizzato in cui appare sempre più evidente che si stanno via via assottigliando le differenze tra le produzioni di un Paese e le produzioni di un altro Paese. Secondo me esiste. Occorre però marciare, marciare, finché non la si trova.
Trovarla è, mi si passi la metafora, come trovare la pianta che sa crescere bene, svilupparsi bene, dare ottimi frutti in Italia e non sa parimenti crescere bene, svilupparsi bene, dare ottimi frutti in altri climi.
To be unique and universal. Questo è il punto di arrivo della via.
Magis da pochi anni in qua ha aggiustato il tiro nello sviluppo futuro del progetto di design, mirando a risultati che sappiano alla fine esprimere sapori e profumi tipicamente italiani. Lavora sulla ricalibratura di certe nozioni prima fra tutte la nozione dell’artigianato, vuole portarsi oltre la pura forma per arrivare a “l’estetica del significato”, un significato che sia prettamente italiano.
Convinta com’ è che in molti campi l’artigianato italiano sappia applicare la lezione del “ben fatto” sicuramente meglio di quanto sappia fare l’artigianato di altri Paesi.
E allora ecco la ricalibratura del progetto di design. Il progetto manterrà un suo svolgimento industriale con un piccolo innesto artigianale pensato, disegnato, ed eseguito perché divenga il cuore l’anima del progetto stesso, la dominante della sua qualità estetica, la sua raison d’être. Così si può definire una qualità italiana di progetto, una differenza italiana, un vantaggio italiano sul mercato globalizzato.
E la qualità, me lo ricorda, tutte le volte che ci si vede, l’amico Enzo Mari, la coscienza critica del design come l’ha definito Alessandro Mendini, la qualità Perazza, e me lo dice con quel piglio proprio del maestro paziente che sa di dover ripetere la lezione perché l’allievo non capisce granché, non è un concetto astratto, la qualità si definisce e misura per raffronto e il raffronto va fatto con il meglio che c’è in giro, con lo stato dell’arte.
Ma attenzione, si deve ben capire dove effettivamente sta il meglio, dove effettivamente sta lo stato dell’arte cui misurarsi”.