“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un “librare”: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci conduce in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso Dieci Conversazioni con scrittori, editori, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari: uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, il classico di Lewis Carroll, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.
Interagire: questo è il nono verbo scelto da Kelly per qualificare l’epoca attuale. Nei prossimi trent’anni, scrive, ciò che non sarà intensamente interattivo verrà considerato rotto. Come esempio della massima interattività Kelly cita le Realtà Virtuale e Aumentata, che saranno parte integrante delle nostre vite. Chiama in causa l’ufficio del futuro progettato da Microsoft. I lavoratori, anziché star seduti in un cubicolo di fronte a una parete tappezzata di monitor, si trovano in un open space in cui ognuno, indossando gli HoloLens, guarda un’enorme parete fatta di schermi virtuali tutt’intorno a sé. Oppure, cliccano per essere teletrasportati in una sala conferenze 3D con una dozzina di collaboratori che vivono in città diverse o, ancora, per seguire un corso di aggiornamento nel quale un istruttore li accompagnerà in una lezione di primo soccorso, aiutando i loro avatar ad applicare le procedure corrette.
Oggi ne parliamo con Magdalena Barile, Autrice e Sceneggiatrice, il sociologo Derrick de Kerckhove, Luca Leoni, Amministratore Delegato di Show Reel Media Group, Mariangela Matarozzo, ideatrice del VRE Festival, Marina Massaro, Immersive MediaI Writer, Valentino Megale, CEO di Softcare Studios, Giovanni Verreschi, CEO di ETT.
In molti modi, scrive Kelly, una lezione in Realtà Aumentata sarà superiore a una lezione reale. Situazioni di questo tipo sono riprese anche in Ariminum Circus. Ad esempio nell’Episodio 7 della Quarta Stagione troveremo il Piccolo Ed sulla spiaggia, che gioca a fare l’investigatore privato. La notta è calata all’improvviso, “ma Rick Deckard era abituato a muoversi in un ambiente ostile, oscuro e perennemente piovoso, assistito solo dalla tecnologia.
Animale notturno, solitario, irriducibile, incurante del prossimo scatenarsi degli elementi, girava fra gli ombrelloni e le cabine mobili da spiaggia, con gli HoloLens a raggi infrarossi nuovi di zecca e lo smartphone Android Pixel 5 XXL accesi e connessi. Novello Adamo cibernetico, si divertiva a riconoscere e a dare un nome a ogni oggetto inquadrato con la fotocamera degli occhiali.
Grazie ai potenti algoritmi forniti dal Grande Fratello di Mountain View, puntando gli occhiali su una pianta, su un fiore o su un’alga otteneva la scheda presente in Wikipedia. Sapeva risalire al nome di un albero da frutto fotografandone un seme portato dal vento. O dire di che razza è un cane”.
Quanto investe questa dimensione, quella dell’interazione, la natura del libro? Ci sarà un ritorno all’oralità, in forme quali i social reading online? Come cambierà l’esperienza della lettura (e, ancor prima, della scrittura) del libro divenuto un “librare” interattivo?
L’interazione non è nella natura del libro. Almeno non nella natura del testo stampato. Qualsiasi altra forma di “libro” merita un altro nome, sia multimediale, sia “aumentato”, o anche, perché no, interattivo. Ma non è la stessa cosa. Perché, in realtà, il vero valore del testo stampato è proprio quello di non essere interattivo. Se ci pensate, la parola, tutto il linguaggio è in movimento, per voce, sullo schermo, nel pensiero, nel corso della scrittura. L’unico luogo in cui la lingua è fissa è la stampa. Non è né una coincidenza né una provocazione. Per dare piena potenza al lettore, il testo del libro deve rimanere immobile, non muoversi. Non si tratta di una questione di interazione, ma piuttosto di intra-azione da parte del lettore. Tutto ciò che si muove, che reagisce è nel suo pensiero.
Allo stesso modo, il libro non deve essere letto ad alta voce, non deve essere dichiarato. Perché è nel silenzio della lettura che si costituisce e si organizza la presa di potere del lettore sul linguaggio, l’evento fondante dell’Occidente grazie all’alfabeto, l’unico tipo di scrittura che è riuscita a riprodurre perfettamente il linguaggio e a metterlo a tacere. Questo ha portato alla sua completa internalizzazione. E questa interiorizzazione, fin dall’inizio, ha cominciato a costituire la coscienza privata, l'”ambiente interiore”, caro a Claude Bernard (ma pensava al corpo, non alla mente), stimolando l’immaginazione e la rappresentazione multisensoriale dei contenuti del testo.
La ricerca storica ha evidenziato che il testo alfabetico, nei suoi primi tempi, era considerato più come un “aiuto per la memoria” che come una tecnica a sé stante, diversa dalla comunicazione orale. Viene riportata la sorpresa di un monaco che osserva senza essere visto Sant’Ambrogio che leggeva silenziosamente senza muovere le labbra. Il monaco era così sorpreso che pensava che il santo fosse posseduto dal diavolo. Questo sarebbe l’ipotetico punto di partenza per la pratica della lettura silenziosa. La storia non dice nulla su quando e come sarebbe iniziata la scrittura silenziosa, ma è una domanda da porsi.
All’origine della letteratura occidentale, ma proprio andando a scomodare Aristotele, vi è una grande spaccatura che divide la produzione di racconto in due grandi aree: l’epica e le forme drammatiche. L’epica racconta in terza persona le gesta degli eroi che sono vivide nella descrizione ma rimangono lontane nel tempo e nello spazio, possono essere orribili scenari o virtuosi moniti di vite esemplari di gente che vorremmo toccare ma restano lontane da noi, alte, irraggiungibili. Le forme drammatiche invece ci danno del tu, si rivolgono a noi direttamente, accadono nel momento in cui noi le osserviamo, sono parte di noi, senza di noi non esistono.
E questa è la forma più antica di racconto interattivo che esiste al mondo, il teatro. E il teatro è, se ne potrebbe discutere se vogliamo, letteratura. Una forma di letteratura aperta, ibrida che ha bisogno di più materiale organico di un libro di carta stampata ma che alla luce delle nuove forme interattive ha in sé da sempre le domande e risposte che il librarsi del libro ci pone oggi. Nei teatri antichi della Grecia classica dove le rappresentazioni cominciavano nella la luce diurna gli spettatori mangiavano, bevevano, parlavano, si scambiavano idee, commenti e virus. Una dietro l’altra si assisteva a tragedie, commedie e farse che spesso erano focus diversi sullo stesso argomenti per stimolare la discussione e se qualcuno voleva skippare alla tragedia dopo non aveva che da uscire un attimo o bersi il suo vino pensando ai fatti suoi.
Crediamo che la partecipazione del pubblico nell’Atene del V secolo fosse molto attiva, non particolarmente solenne, sempre partecipata. Certo gli spettatori antichi non potevano cambiare il finale delle tragedie a cui assistevano ma nella maggior parte dei casi lo conoscevano già e andavano a teatro per sentirsi investiti di un ruolo attivo, quello che personaggi come il coro, convenzione chiave che apre la partecipazione alla vicenda, ci propone. Si può andare ancora a teatro e venire investiti di un ruolo preciso, quello del giudice severo, del vecchio saggio o delle ninfe del mare, troiane piangenti o baccanti scatenate. Il famoso patto che sospende l’incredulità di chi entra in un mondo di finzione è sempre più difficile da stringere. I confini fra realtà e finzione non sono mai stati così sottili, tanto vale credere a tutto o non credere a niente. Ma quando l’interazione è profonda, quando ci riguarda da vicino, allora nemmeno ci accorgiamo che c’è stato un accordo, semplicemente andiamo avanti a vivere.
Anche qui, nella mirabile riflessione di Magdalena Barile sul teatro, dobbiamo ancora una volta affermare la differenza tra il testo letto in silenzio o interpretato dalla voce, sia quella del lettore che quella dell’attore. La recitazione scenica, invece, una tappa intermedia tra l’epoca orale e quella letteraria, ci partecipa, ma solo in modo incompleto, in quanto è un’esperienza orale a senso unico, quest’ultima interattiva assolutamente e sempre sicura, forse (e ancora) vissuta dalla voce dell’eremita nel deserto.
L’invenzione del teatro nell’antica Grecia si presenta come un primo compromesso tra voce e scrittura, un miglioramento e un’estensione al gruppo dello stato inizialmente oralizzato della scrittura come semplice aiuto-memoria. È noto che Socrate è arrivato ad Atene con una troupe di mimi e attori e che i dialoghi, messi per iscritto da Platone, hanno intrapreso la strada di un passaggio dalla parola orale a quella scritta. Ma c’è di più, molto di più. Frances Yates, nella sua famosa opera L’arte della memoria, racconta che, tra la mnemotecnica di una cultura ancora permeata di oralità, Simonides de Céos, secondo Cicerone, aveva inventato l’immaginario di una scena in cui erano mobili e personaggi disposti dal pensiero a richiamare oggetti e situazioni: “L’ordine dei luoghi conserva l’ordine delle cose; le immagini ricordano le cose stesse. I luoghi sono le tavolette di cera su cui si scrive; le immagini hanno le lettere che vi si trovano sopra” (De Oratore, II, LXXXVI, 351-354).
In questa suggestiva scorciatoia, Cicerone, la cui mente (come quella dei suoi colti contemporanei) è da tempo esercitata all’immaginario del pensiero e al pensiero dell’immaginario, riunisce in uno stesso insieme di connotazioni, scrittura, dramma e coscienza. Ponendo una questione: in che misura l’invenzione e lo sviluppo del teatro hanno contribuito all’affermazione della coscienza privata come norma cognitiva in una cultura che stava imparando a leggere? La scena teatrale, infatti, invitava ed esercitava semplicemente la trasposizione del suo formato nello spirito e la pratica ordinaria e comune di un immaginario consegnato a esperimenti cognitivi inquadrati e soprattutto simbolici, quindi non più condizionati dall’evidenza del presente o dalle suggestioni delle credenze. Il teatro offriva così una nuova esperienza conoscitiva che corrispondeva alla lettura in due modi, uno costringendo sia lo spettatore che il lettore a rimanere a lungo immobile in uno spazio circoscritto definito da una scenografia, e l’altro proponendo una narrazione e personaggi più o meno fittizi, rappresentati ma non reali come nella mente. È probabilmente per questo motivo che, dopo aver contribuito alla transizione tra esteriorizzazione e interiorizzazione del linguaggio, il teatro ha finalmente lasciato il posto al romanzo, che è, molto semplicemente, teatro interiorizzato.
Che l’origine del racconto interattivo sia tutt’uno con la nascita del teatro è indubbio, così come il fatto che mantenga ancora oggi le caratteristiche essenziali descritte da Magdalena. Tuttavia, il 2020 rimarrà “impresso” sui libri di storia come l’anno di un cambiamento epocale, l’anno in cui una pandemia ha travolto il mondo intero con una forza inaudita, catapultando ognuno di noi in una dimensione ordinaria del tutto straordinaria, un improvviso lockdown che ha generato cambiamenti così sostanziali che hanno richiesto risposte urgenti e necessarie per ridefinire il corso della nostra storia. Una situazione, quella creatasi con il Covid, che ha reso attuali scenari che fino a poco prima sembravano essere lo script di film di fantascienza.
Che il digitale abbia modificato il nostro approccio e le abitudini di consumo di contenuti culturali come la musica, i film, i libri o i quotidiani è un dato acquisito; nell’ultimo decennio, infatti, il processo di digitalizzazione dei contenuti è andato maturando e si è assistito a una trasformazione degli oggetti fisici in flussi di dati da scaricare attraverso la rete.
Quali sono i cambiamenti in atto nel mondo dell’editoria con la chiusura delle librerie, il sempre minore numero di lettori, la disaffezione delle nuove generazioni alla lettura e la presenza delle nuove tecnologie immersive? Cosa accadrà nel mondo dei libri, nella loro scrittura e nella loro fruizione con l’avvento della Realtà Virtuale? Come cambierà la narrazione, di che natura sarà il nuovo storytelling? Come dovremo ripensare la letteratura se posta in relazione alla realtà virtuale? La tecnologia digitale può aiutarci a creare nuove forme di accesso ai libri?
Il rapporto tra scrittura e immagine sembrava essersi storicizzato, fissato nel dispositivo cartaceo del libro. Per migliaia di anni il solo modo di accedere alla cultura e all’istruzione è stato imparare ad interpretare i segni grafici contenuti nelle pagine di questi oggetti che andavano scritti, riscritti e preservati, cosicché quella cultura, quell’informazione non andasse perduta e potesse idealmente attraversare i secoli. Dai codici, rivoluzionari nel loro formato, all’avvento dei caratteri mobili in Europa da parte di Johannes Gutenberg con la sua Bibbia, ecco che si delinea un percorso che, piuttosto che essere un elenco di evoluzioni tecniche, è la storia di come la scrittura (tecnica) e il libro (dispositivo) entrano prepotentemente nella narrazione storica come primo medium, unico mezzo che fa da tramite tra il sapere e la sua memoria, il suo perdurare nel tempo.
La scrittura d’altronde non avrebbe mai potuto ricoprire un ruolo così determinante se non fosse per le caratteristiche funzionali del suo supporto. Il libro è la perfetta sintesi tra contenuto e forma, idea e necessità e il loro posto nella piramide del sapere acquista una centralità primaria, finanche sacrale, divenendo il mattone di ogni struttura del sapere che miri ad avere un passato, un presente e che voglia poter esistere nel futuro. E’ stato così per molto tempo, finché la tecnologia non si è evoluta e noi con essa.
L’avvento delle nuove tecnologie permette al mondo editoriale di rendere l’accesso al libro fortemente democratico con diverse iniziative, una di queste è il Progetto Gutenberg dell’informatico Michael Hart, una biblioteca elettronica che riproduce digitalmente i libri stampati allo scopo di abbattere l’analfabetismo e promuovere la letteratura. Occorrono oltre quindici anni perché venga pubblicato per la prima volta un romanzo su floppy disk, Afternoon, a story dello scrittore statunitense Michael Joyce.
Grazie alla sempre maggiore presenza del digitale il testo, sia esso narrativo, scientifico, divulgativo, educativo etc, è migrato su altri supporti e ha dato vita all’eBook: un libro in formato digitale leggibile tramite computer, smartphone, tablet, eReader che apre ad una nuova forma di fruizione, il cui pioniere è Stephen King con il suo Riding the bullet.
Sono anche gli anni in cui il pubblico si avvicina agli audiolibri: moltissimi i titoli, appartenenti ai diversi generi letterari, letti ad alta voce da attori e artisti che promuovono il ritorno ad antiche forme di oralità in chiave digitale, valorizzando l’intimità e l’immediatezza che una voce umana può conferire al racconto delle storie che ci appartengono. Il connubio tra le moderne tecnologie e le antiche forme di narrazione portano all’individuazione di forme nuove ed ibride di scrittura e di lettura.
Come molte altre manifestazioni della cultura digitale, l’ipertesto segnala una sorta di esternalizzazione della mente, un dispositivo in cui i collegamenti giocano il ruolo di connotazioni e la navigazione è fatta sullo schermo invece che nella testa. Vorrei dire una parola, però, sulla narrativa occidentale, originata anche dall’adozione dell’alfabeto. Il cambiamento nell’organizzazione mentale dei Greci e poi degli antichi Romani può essere espresso al meglio dallo stupefacente mito delle Tre Parche e dalla sua chiara articolazione di una nozione di destino ormai legata alla singola persona piuttosto che a un popolo o a una tribù. Clotho gira il filo del destino, Lachesis lo misura e Atropos lo taglia. Questa comprensione della vita umana è continua, causale, irreversibile, isolata e parzialmente indipendente dal gruppo sociale. È la linea di scrittura/lettura portata come modello a vita. Inoltre, va da sinistra a destra come la scrittura alfabetica e accompagna un generale cambiamento di orientamento nella cultura greca dal passato al futuro.
Per completare la disamina proposta da Mariangela, vorrei riprendere anche un altro punto toccato da Marco e Magdalena, ovvero: ci sarà un ritorno all’oralità?
L’avvento di Internet e del Web hanno rivoluzionato profondamente i sistemi di comunicazione e le pratiche di lettura. Sebbene persistano legami profondi con i modelli tradizionali, il libro si apre a nuove forme di socialità e alle dinamiche tipiche dei social network che hanno lasciato spazio alla creazione di piattaforme e al social reading online, una pratica di lettura condivisa attraverso cui gli utenti possono leggere insieme un testo, commentarlo e discuterne tramite delle piattaforme accessibili da più dispositivi, in particolare dagli smartphone. Questo tipo di lettura digitale si configura come l’ultima frontiera dell’attività del leggere, da attività intima a solitaria a fenomeno condiviso in tempo reale che dà vita ad una vera esperienza collettiva all’interno della Community Digitale.
Le Community di lettori online si radunando su piattaforme come Anobiii e Goodreads che danno loro la possibilità di avere uno scaffale virtuale in cui allineare la propria collezione e degli strumenti che gli consentono di valutare, commentare, recensire, consigliare e annotare le proprie osservazioni su ciascun libro letto. Inoltre possono incontrarsi in rete con persone che hanno interessi simili e discutere dei libri che stanno leggendo.
In rete, ancora, esistono delle variazioni come Kobo che, invece, integra un originale sistema di check-in e geolocalizzazione dei luoghi narrativi; Bookliners che permette agli utenti di condividere le proprie sottolineature. Un passo avanti è stato compiuto da Socialbook che permette di creare gruppi di lettura, all’interno dei quali condividere appunti, note, sottolineature e commenti a margine del testo. Chiunque, inoltre, può caricare il proprio ebook sulla piattaforma e invitare altri a leggerlo.
Inoltre il Social Reading ha un elevato potenziale educativo ed è un facilitatore nel favorire la comprensione, l’attenzione, l’empatia e la collaborazione tra studenti, insegnanti e lettori. Una nuova forma di didattica digitale integrata che mira a sviluppare le competenze trasversali, le soft skills, e ad esercitare lo spirito critico grazie ad un approccio innovativo che favorisce l’apprendimento cooperativo e sociale.
Si inizia a parlare del un ritorno di un’ oralità secondaria, così come l’ha definita Walter J. Ong nel suo libro Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola ovvero, quella del nostro tempo, che riprende tutti gli elementi che caratterizzano l’oralità primaria e li trasporta nel mondo dei mass media. Rintracciamo così la centralità della partecipazione e del coinvolgimento del pubblico, la simultaneità della comunicazione diretta, la capacità di immedesimazione ed empatizzazione con i personaggi delle storie narrate. La differenza sostanziale della prima con la seconda sta nel diverso utilizzo della scrittura che sostituisce la conversazione orale e l’abbandono del pensiero lineare a vantaggio di uno organico e ipertestuale.
La digitalizzazione è la seconda fase della terza trasformazione del linguaggio (orale, scritto, digitale). La prima fase, semplicemente elettrica, è stata quella analogica (luce, calore, energia), utilizzando l’elettricità come mezzo di trasporto sia per la lingua orale che per quella scritta. Con il digitale, l’elettricità viene applicata direttamente alla lingua stessa. Introduce una massima frammentazione al cuore delle funzioni del linguaggio, passando (a seconda delle lingue che traspone) dalle 26, 27, 28 lettere dell’alfabeto alla binarità. Infatti, 0\1 è il momento in cui la lingua viene ridotta al minimo comune denominatore. Tutti i sensi possono quindi convergere nel digitale e le muse stesse si fondono nel virtuale. Siamo nell’era del “tag”, l’indirizzo digitale minimale che collega tutto a tutto e costituisce un modo di ipertesto globale. Il “tag” è l’anima di Internet (confronta con Il tagging come produzione collettiva di senso – Alice annotata 21b, ndr.)
Come dimostrano queste prima battute della nostra Conversazione, interagire è un verbo che naturalmente attira l’attenzione di tutti coloro che amano la lettura e la scrittura, anche nell’ottica della loro evoluzione futura legata all’incrocio di pratiche tradizionali con nuovi e sofisticati strumenti tecnologici.
Quando si parla di libri interattivi, l’appassionato di letteratura pensa subito a Ruyuela di Cortazar e gli amanti dei libri gioco a Umberto Eco che li analizzza in Opera Aperta e in altri luoghi; ma gli amanti delle serie TV ai film interattivi prodotti da Netflix, mentre le mamme di oggi a quei testi per bambini che hanno la capacità di immergere i bambini, ma anche gli adulti, in un ambiente multimediale, ovvero di creare l’interazione con i singoli elementi della storia.
Da parte mia, il tema della letteratura interattiva evoca il libro di Janet Murray, Amleto sull’Holodeck, in cui elenca alcune caratteristiche dell’iper-letteratura, in particolare:
– Un dialogo procedurale tra gli esseri umani e i computer reattivi suggerisce che possiamo scrivere nuove regole per interpretare il mondo come una narrazione.
– I computer sono interattivi e rispondono ai commenti delle persone. Essi generano contenuti utilizzando regole procedurali interne e risultati esterni.
– Gli ambienti digitali sono “caratterizzati dalla loro capacità di rappresentare lo spazio navigabile”.
– I computer forniscono uno spazio in cui le persone possono muoversi, a differenza di libri e video. Poiché il computer è il più esteso mezzo di comunicazione mai inventato, memorizza una quantità quasi infinita di informazioni e contenuti per sempre.
Un personaggio è quello che fa. Sono le azioni che fanno il personaggio. Non quello che dice e quello che pensa. Questa è la regola d’oro della drammaturgia aristotelica. Niente di nuovo quindi se per rinnovare le cose vecchie ci rivolgiamo ancora una volta all’ antichissimo che è sempre il più moderno.
Assistiamo oggi a un ritorno a una realtà arcaica implementata dove le azioni/gesta dei personaggi accadono davanti ai nostri occhi e noi abbiamo ancora di più che in un teatro classico la sensazione di agirle al posto loro.
Aziono un libro e nemmeno il tempo di ambientarmi con un buon vecchio incipit che sono bersagliata da stimoli visivi sonori, tattili olfattivi… Mi trovo in una stanza che non conosco, posso assistere a un omicidio, vedere il sangue che scorre, intravedo il volto dell’assassino, ne sento l’odore… forse di tabacco, rimango a tu per tu con il cadavere. Gli guardo la faccia. Ha la mia faccia? Sono io la vittima di questo libro? L’autore ha lasciato una bella pagina bianca per me. Sono morta ma sono anche qui che guardo la mia faccia. Ma che trucchi sono, bassi trucchetti da fiera per avere tutta la mia attenzione? A chi ho dato il consenso per questo? Ho pagato per questo?
Quante volte al giorno do il consenso a tutti di usare i miei dati e perché no la mia faccia. Non mi lamento l’uso dei miei dati in questo libro di realtà aumentata è certamente più interessante di quello al solo scopo di vendermi cose. Il libro diventa un esperienza di gioco e il lettore ci mette la faccia e il proprio bagaglio emotivo. Lo scrittore/autore dovrà essere sempre più abile a trovare forme aperte che contengano diversi mondi pronti ad accogliere versatili sempre nuovi protagonisti, i lettori. In fondo immaginare e poi vivere avventure con i nostri dati è quello che facciamo già con le nostre vite: vivere, se così si può dire, fra una realtà aumentata e uno smartphone come prolungamento del braccio.
Qui è il dilemma, ancora Amleto, ancora teatro, lasciare che la nostra vita scorra, lasciarla andare – come insegnano i saggi orientali – oppure intervenire come fosse finzione e scrivere la nostra storia: interagire con essa. Interagire, quindi fare delle scelte, uccidere la propria madre, tornare indietro nel tempo, farsi aiutare da un app che ci fa passare l’ansia ma ci affatica la vista a furia di guardare ruscelli zen che scorrono, capire cosa c’è nel nostro DNA o come siamo arrivati in questa stanza e perché un uomo ci ha appena ucciso. Forse come in un gioco posso zoomare per sapere di più su quest’uomo, capire cosa ci lega e forse scoprire che in questa versione della realtà non ci siamo mai incontrati e in altre sì. Notato anche voi quanto tutte le storie che si scrivono adesso, per tutti i media, non parliamo di Netflix, sono ispirate ai concetti maldigeriti di fisica quantistica?
Come darli torto. É la nuova visione iperaumentata della realtà: il regno del multiverso e del movimento, il regno assoluto di ogni scrittore. E infatti se ne erano già accorti Sofocle e Omero che le storie ci fanno viaggiare nel tempo, nello spazio e nell’identità. L’epica quantistica. Io posso essere contemporaneamente morta nella stanza e viva qui scrivente in questo momento di argomenti come il principio di indeterminazione o l’entanglement per chi sa di cosa parlo per gli altri è uguale, io sono Amleto o Amleta se osservata da una certa orbita. La fisica quantistica ci racconta oggi quello che la letteratura fa da millenni. Sono le relazioni a costruire la realtà, i punti di osservazione a farla apparire sempre diversa, sempre in movimento, viva, passibile di cambiamento, tesa, nostra, personale e non riproducibile.
È il destino delle storie, quelle di essere aperte, sezionate, aumentate in ogni modo dalla possibilità di interagirci e quindi da tutte le nuove invenzioni tecnologiche del caso. Ogni epoca le sue. Amleto per intervenire sulla sua realtà, sul suo destino di personaggi tragico, ha una geniale intuizione: chiama degli attori e scrive per loro una commedia che la sua stessa vita, un episodio di realtà aumentata. Forse che le nuove tecnologie siano solo una nuova possibilità, l’ennesima diavoleria scenotecnica, per ampliare il gioco della vita, che diceva Shakespeare, non è molto diversa da un palcoscenico con le sue entrate e le sue uscite. Un nuovo importante strumento al già naturale e implementatissimo mare magnum dell’immaginazione metaletteraria.
Sono strafelice di questo commento, che arricchisce notevolmente il mio lavoro sugli aspetti culturali della fisica quantistica.
Ciò che mi affascina della fisica quantistica è proprio la possibilità, se non la promessa, di andare a fondo della realtà (che Martin Heidegger ha già detto essere, dopo tutto, solo una delle varianti del possibile).
Il rapporto di Magdalena con la creazione letteraria mi apre prospettive completamente nuove.
Vorrei portare avanti il ragionamento di Magdalena riprendendo quanto diceva Marco nella Ottava Conversazione rispetto all’esperienza de Le Aziende InVisibili ed altri progetti di scrittura collaborativa. Negli ultimi anni assistiamo a un proliferare di tentativi di costruzione collegiale o interattiva della scrittura. In varie forme l’oggetto libro o, meglio ancora, l’embrione che si manifesterà in forma di libro in un tempo successivo, è svelato, condiviso, toccato e ritoccato da più mani e più opinioni: pensiamo alla realtà di Wattpad o a livello più piccolo e meno strutturato alla quantità di scrittori anche già affermati e sicuramente più anziani dei primi che sottopongono al giudizio e al gusto delle proprie cerchie nomi dei protagonisti o luoghi e ambientazioni tramite sondaggi sui social.
In realtà questo processo è un qualcosa che si è sempre fatto in privato testando così il sentiment di una selezione dell’ipotetico pubblico di riferimento. Oggi l’interazione con la community dei propri lettori restituisce uno spaccato più accurato e dà vita a una più o meno consapevole fase di teasing del libro stesso, atteso e desiderato in quanto, in qualche parte, partecipato.
Ma se la ragione commerciale di questo approccio è nota, più interessante è il movimento del lettore verso lo scrittore e quello dello scrittore verso il lettore, che avviene simultaneamente al servizio di una interazione che generi il libro, auspicando di essere tenuto attivo anche dopo il compiersi del ciclo di vita editoriale dell’opera.
Quello che, insomma, anche se non del tutto nuovo è sicuramente caratteristico di questo momento è la voglia di condivisione che sta emergendo in maniera preponderante.
La lettura è probabilmente l’attività più solitaria che esista: se mentre si lavora si può chiacchierare o mentre si guarda un film si possono commentare le scene e distrarsi insieme in vari modi, o ancora mentre si ascolta una canzone si può canticchiarla in coro, quando invece si legge un libro non si può fare null’altro che non appartenga al libro stesso.
La lettura a voce alta è l’unica interazione appartenente al libro che ci è concessa, e sta vivendo infatti una fase di rinascimento, se pensiamo al grande successo degli audiolibri, cresciuti proprio nel momento in cui personaggi non tanto famosi quanto credibili hanno fatto la loro comparsa sulle piattaforme.
Per immaginare altro tipo di interazione possiamo infilare un dito tra le pagine per mettere in pausa il volume e iniziare a raccontare a chi abbiamo accanto cosa sta succedendo nel libro o in noi stessi, perché quel romanzo ci stia prendendo così tanto. Quando riapriamo il volume e ci reimmergiamo di nuovo nella lettura, però, torniamo immediatamente a essere soli con il libro, catapultati in un mondo estraneo di cui diventiamo spettatori invisibili.
Al di fuori dell’azione della lettura, l’esperienza di lettura è sempre stata condivisione, di storie, di punti di vista e di saperi. Dalla Bibbia in poi interi gruppi sociali si sono riconosciuti e si sono determinati grazie all’essere iscritti dentro un gruppo di persone che ha letto quel dato libro.
Oggi il pubblico e la community dei lettori cerca ancora di più quello che è proprio dell’esperienza di lettura: consigli autorevoli e rilevanti per orientarsi nella galassia di titoli proposti, sui quali forse ha perso una certa capacità di decodifica prima della lettura. Non credo, tuttavia, che informazioni automatiche osservando una copertina in libreria attraverso strumenti come le HoloLens, che possano tenere traccia delle nostre letture precedenti, siano la risposta all’esigenza di oggi. Forse lo saranno di quella di domani. Perché oggi mi pare più di assistere alla richiesta di pareri personali e luoghi di condivisione dove costruire relazioni a partire e attorno all’oggetto libro, una sorta di versione 2.0 dei vecchi club del libro, stavolta resi accessibili e diretti dalle potenzialità di un social come Instagram.
Due generazioni intere sono unite dalla ricerca di luoghi, digitali per comodità, dove si parli del libro e, indirettamente, della relazione che si può avere attraverso di esso. La relazione è la fibra ottica attraverso cui viaggia l’influencer markenting, ed è interessante vedere come alcuni volti noti del web abbiamo fatto leva sulla relazione tra libri e community.
Penso al Venti letterario sul canale editoriale Venti di Sofia Viscardi, partecipatissima lettura ad alta voce di Irene Graziosi di brani scelti per rappresentare la community, che è diventato uno dei format più richiesti all’interno del diversificato palinsesto del canale.
Oppure il book club di Giulia Valentina, che ha dato vita a una catena di lettori attivi: sui suoi canali annunciava lo start dell’attività dicendo di preferire regalare un libro a un membro della community invece che a un’amica che lo “avrebbe usato come sottobicchiere o lo avrebbe messo in mostra per far vedere che legge” a condizione che chi fosse stato selezionato lo leggesse in meno di un mese e lo spedisse alla lettrice successiva. Il permesso di scrivere note sul libro rendeva l’operazione più personale e creava un dialogo aggiunto tra i membri della community.
Guglielmo Scilla e Marco Cioni hanno invece creato la Setta dei Libri con la suggestione per cui nessuno ha tempo per leggere, ma se lo si fa insieme il tempo lo si riesce a trovare. Tramite sondaggio, la community sceglie il libro da procurarsi entro la fine del mese e nel corso di quello successivo si procede con la lettura, scandita in maniera graduale condivisa.
Anche se quando leggiamo non ci va di parlare, appena chiudiamo il libro sentiamo l’esigenza di comunicare a qualcuno le nostre impressioni, confrontarci con qualche altro lettore, urlare al capolavoro o inveire contro chi ci ha consigliato quel romanzo, per questo è fondamentale poterlo fare con persone che condividano la nostra cultura e preferibilmente parlino la nostra lingua, una selezione di pubblico formata tramite (più o meno) le stesse letture.
Questo ha fatto nascere decine di social network letterari, che da aggregatori artigianali di informazioni per appassionati quali erano quando sono nati, si sono poi evoluti in sistemi che hanno come obiettivo primario il dirigere l’interesse dei lettori verso nuovi acquisti. È stato così per l’aNobii citato prima anche da Marina, tra i primi a conquistare gli utenti italiani, che lì hanno massicciamente caricato le loro librerie, aggiunto commenti e confrontato i gusti; fondato nel 2006 ad Hong Kong, è stato acquistato da Mondadori. Analogo è il competitor nato l’anno successivo negli USA, GoodReads, acquisito da Amazon insieme ai suoi 25 milioni di membri, 10 milioni di iscritti alla newsletter, 750 milioni di libri in catalogo e 30 milioni di recensioni nel database.
Diverso come approccio, e per questo secondo me molto interessante, è invece la case italiana di Zazie, che rispetto al supermercato digitale di libri catalogati con informazioni digitalizzate proprie del sistema analogico delle biblioteche, ha preferito proporre alla community di catalogare i libri secondo gli stati d’animo del lettore e la sua contingenza fisica (sto viaggiando in treno, sono a casa in salotto, …) concentrandosi sull’interazione che il lettore può avere con il libro.
In questa direzione si muoveva anche l’idea che ha dato origine a BookCrossing (2011), che fungeva da piattaforma di incontro digitale per chi sceglieva di lasciare i suoi libri in giro per il mondo fisico: geolocalizzando i libri su panchine, mensole di bar e sedili di mezzi pubblici, si lanciava una caccia al tesoro interattiva di cui il libro era protagonista, consentendo tramite l’etichetta all’interno del volume di mettersi in contatto sulla piattaforma con il “lasciatore”, dando così proseguimento a una nuova storia in cui il libro diventava solo uno dei personaggi.
Nella mia esperienza digitale, ho assistito in maniera ricorrente a questo fenomeno: non si tratta di trasformare o digitalizzare un contenuto, ma di sfruttare l’innovazione per raggiungere le persone attraverso nuove forme e spazi, dentro i quali dare nuova forza ai contenuti originali, protetti e amplificati dal contenitore digitale.
Viviamo in un mondo multi-screen e multi-piattaforma (come è stato discusso nella Quarta Conversazione), dove l’idea del «one fits all» propria del mondo televisivo è del tutto sorpassata perché le diverse community sono raggiungibili solamente attraverso topic studiati e significativi per ognuna di esse. Il contenuto digitale da re è diventato imperatore. La sfida sta proprio nel realizzare questo tipo di ingaggio capace di creare connessioni con la community.
Domandiamoci allora quali sono le tappe che il lettore fa nel viaggio che lo porta all’oggetto libro e, soprattutto, se queste sono connesse tra di loro: lavorando su questo percorso possiamo permettere al libro di farsi tassello di una grande storia, quella della relazione tra libro e community che nasce prima dell’esperienza di lettura e prosegue a lettura terminata. Una storia dove il libro catalizza le storie dei diversi lettori per cui quell’oggetto costituisce la risposta a una necessità, interagendo con loro tanto tra piattaforme diverse quanto nel mondo reale.
In questo modo si potrà immaginare di convertire queste relazioni in risultati reali, che certifichino il valore dell’opera e rendano sostenibile l’intero progetto editoriale. Uscire dal libro per mettere al centro della storia – di cui quel libro potrà essere protagonista – la community dei lettori di quel libro, vuol dire concentrarsi sulla capacità di interazione che quel libro genera.
Ma ogni capitolo di questa storia di relazione dev’essere pensata, scritta e messa in pratica in maniera tale da aggiungere valore al libro e non creare un buzz che passa davanti al libro, oscurandolo, finalizzato esclusivamente alla vendita del libro indipendentemente dal suo contenuto.
Attivando soluzioni di questo tipo si potrà anche trarre un profitto dallo sfruttamento commerciale di quel libro nel momento della campagna di promozione, ma il libro ridotto a involucro così svuotato del suo ruolo di protagonista non sarà mai considerato rilevante e non potrà essere dunque in grado di generare capitoli successivi della sua storia di relazione con la propria comunità di lettori.
Questo succede ogni volta che si vuole lanciare un contenuto che non è in grado di reggersi sulle proprie gambe di fronte al pubblico e allora lo si stampella con effetti speciali che durano il tempo di un fuoco di artificio. Invece, sono convinto che un grande contenuto sia l’unica strada da percorrere per creare qualcosa che le community accettino e ricerchino in modo attivo, rendendo così possibile un presente allungato alla relazione non più di consumo con il libro.
Il contenuto ci salverà tutti.
Secondo Kelly, nei prossimi decenni continueremo a espandere la gamma delle cose con cui interagiamo. Tale espansione procede secondo una triplice spinta.
- Più sensi. Continueremo ad aggiungere nuovi sensori e nuovi sensi alle cose che facciamo. Naturalmente, tutto avrà occhi (la vista è quasi gratuita) e udito, ma uno per uno possiamo aggiungere dei sensi sovrumani, come sensori per la localizzazione GPS, il rilevamento di calore, la vista a raggi X, la sensibilità a molecole diverse o agli odori. Ciò permette alle nostre creazioni di risponderci, di interagire con noi e di adattarsi ai nostri usi. L’interattività, per definizione, è a due vie, perciò questi sensi elevano le nostre interazioni con la tecnologia.
- Più intimità. La zona in cui si svolge l’interazione continuerà a marciare verso di noi. La tecnologia si avvicinerà più di un orologio o di un telefono tascabile. L’interazione sarà più intima, costante e onnipresente. La tecnologia personale è una frontiera spalancata. “Pensiamo che la tecnologia abbia saturato il nostro spazio personale, ma quando tra vent’anni ripenseremo a oggi, ci renderemo conto che nel 2016 (anno in cui Kelly ha scritto il suo libro) ne era ancora ben lontana”.
- Più immersione. L’interazione massima richiede un salto da parte nostra nella tecnologia stessa. Questo è ciò che la Realtà Virtuale ci permette di fare: calcoli così vicini da esserci dentro. Dall’interno di un mondo creato tecnologicamente, interagiremo l’un l’altro (realtà virtuale) o anche con il mondo fisico (realtà aumentata) in modi nuovi. La tecnologia diventa una seconda pelle.
Tutte e tre queste linee evolutive vengono esplorate in Ariminum Circus. Nella Quarta Stagione ad esempio il Capitano, sempre alla ricerca di terapie di self help online, ne sperimenta una “utilizzando lo smartphone e un visore per la realtà virtuale… Era stato creato un ambiente virtuale, Il Giardino Segreto, che riproduceva un ambiente zen. All’interno offriva una serie di meditazioni realizzate con la tecnica della gamification, per capire e controllare le proprie emozioni, riducendo il livello di stress. Prevedeva, in altre parole, esercizi-gioco fondati sulla cosiddetta “ruminazione” (continuare a pensare a progetti personali, o a obiettivi professionali, e ai modi per realizzarli)”. Nella Quinta Stagione poi la tecnologia avanzatissima del “braiframe” è al centro di uno sviluppo sorprendente della trama, che non spoilero per non rovinare il piacere della sorpresa. Sono solo fantasie? In particolare Realtà Virtuale e Aumentate che prospettive aprono al libro?
Il futuro del libro sarà guidato da un’innovazione profonda del testo. Assisteremo alla nascita di uno storytelling di nuova generazione, sempre più interattivo e immersivo, capace di generare esperienze da vivere in prima persona e, al tempo stesso, da condividere con gli altri. La creatività intraprenderà vie inedite, il testo supererà la linearità della tradizione e assumerà una struttura più frammentata, modulare e fluida. Le formule narrative si avvarranno di nuove modalità di fruizione, a cominciare dall’esplorazione di mondi virtuali e realtà aumentate, che permetteranno di arricchire il testo di contenuti multimediali e di stimoli sensoriali.
La natura del libro cambierà simultaneamente in più direzioni. Da un lato il testo dovrà essere sviluppato dall’autore seguendo una logica cross-mediale e pensato, da subito, come un prodotto proteiforme e pervasivo, sempre meno circoscritto a specifici media o canali, e ancor meno a singoli manufatti. Dall’altro la narrazione diventerà sempre più un’opera aperta, partecipata dai lettori, che potranno scegliere, in prima persona o in partecipazione con altri, come articolare il proprio percorso narrativo, con quali media esplorarlo o approfondirlo, con quali altri condividerlo.
Accanto a queste innovazioni radicali del testo, si prospettano cambiamenti altrettanto profondi nei processi della filiera editoriale. Il futuro del libro, necessariamente, prenderà forma lungo la traiettoria tracciata dalla quarta rivoluzione industriale, una trasformazione di respiro epocale dove l’immaterialità del digitale promette di ridefinire l’intero settore manifatturiero, generando nuovi paradigmi e forme di produzione inedite. Si tratta di un percorso di innovazione destinato a durare a lungo nel tempo e a superare la logica tradizionale della produzione di massa. Il futuro del libro non potrà che essere parte di questo mondo produttivo emergente, ispirato alla cosiddetta customizzazione di massa, con lo sviluppo di opere modulari e adattabili su misura sul singolo lettore, in grado di generare esperienze uniche e irripetibili.
Le nuove narrazioni interattive inseguono oggi la stessa traiettoria evolutiva del digitale: sono ovunque e pervadono ogni mezzo di comunicazione, contaminando i generi e le forme espressive. Spesso sono figlie dei nuovi media che nascono attorno agli ambienti digitali interattivi.
Non si tratta più di raccontare in modo diverso le grandi storie senza tempo, quello che è in gioco è un modo profondamente diverso e più interattivo di intendere la relazione tra l’autore e il lettore. L’opera diviene aperta, la figura dell’autore si frammenta e diviene sempre più partecipativa, il pubblico appare sempre meno una massa indistinta e prende forme e profili più attenti alla pluralità delle identità e dei linguaggi, ai fruitori viene offerta la possibilità di fare propri i contenuti, di ridefinirli e di condividere con altri questa esperienza.
E’ un fenomeno di contaminazione e convergenza che, sotto la spinta incessante delle tecnologie digitali, sta ridefinendo non solo l’editoria, ma l’intero settore dell’industria culturale, dal cinema ai videogiochi, dalla pubblicità alle arti visive.
Anche nel settore museale, grazie all’innovazione introdotta dalla tecnologia negli allestimenti, le tradizionali narrazioni non sono più univoche come in passato e sempre meno condizionate dalla padronanza di linguaggi settoriali. L’innovazione museale permette oggi di sviluppare forme di storytelling molto più accessibili al bagaglio culturale del visitatore medio, riuscendo così a generare esperienze molto più coinvolgenti e, al tempo stesso, personalizzate. Gli allestimenti si arricchiscono di dispositivi interattivi e, grazie all’utilizzo della realtà virtuale e aumentata, creano ambientazioni sempre più immersive, dove la fruizione del contenuto si trasforma: da conoscenza didascalica e superficiale diventa esperienza di familiarità, vissuta in prima persona ed emotivamente significativa.
La realtà virtuale consente di entrare ed esplorare un mondo verosimile, perché possa generare contesti interattivi è necessario andare oltre la semplice ricostruzione grafica di un ambiente, occorre progettare accuratamente la percezione e l’azione affinché sia credibile e consistente con le esperienze nel mondo reale. Occorre generare la cosiddetta “sospensione dell’incredulità”, portando il pubblico ad ignorare le incongruenze marginali che ogni mondo virtuale porta con sé e a godere appieno dell’opera, concentrandosi sulla sua esperienza e sulla narrazione. Solo così la realtà virtuale diventa coinvolgente e l’interazione appare naturale.
Proprio per la sua natura multisensoriale, ogni ambiente virtuale è sempre interattivo, in quanto richiede una partecipazione attiva, a volte una semplice esplorazione, altre volte un vero e proprio apprendimento. La realtà virtuale è inoltre necessariamente “esperienza”, è un vissuto in prima persona, in quanto genera immediatamente la sensazione soggettiva dell’esserci, il senso della presenza. Tutto ciò favorisce di per sé il coinvolgimento e livelli più alti di attenzione. Se il coinvolgimento è legato al senso della presenza, la sensazione di poter interagire con una realtà virtuale nasce dal senso dell’embodiment, nel rapporto strettissimo tra la mente e il nostro corpo, tra il pensiero e le nostre azioni. Nell’esperienza virtuale immaginare e agire operano simultaneamente e sinergicamente operano per rendere verosimile la realtà virtuale che appare davanti ai nostri occhi. La stessa visione stereoscopica facilita questa immedesimazione mente-corpo.
Un’ulteriore potenzialità delle soluzioni tecnologiche immersive è l’utilizzo della modularità. Grazie al comune substrato digitale possiamo oggi articolare una narrazione in frammenti, che possono essere ricombinate dall’autore, in funzione delle strategie di personalizzazione e di profilazione dei visitatori, ma anche dell’esigenza creativa di declinare i contenuti lungo una molteplicità di mezzi e canali multimediali. La validazione scientifica dei diversi moduli, che è un requisito irrinunciabile in ogni allestimento museale, permette poi disporre di ampi repertori di contenuti di qualità, offrendo nuove opportunità non solo in ambito didattico ed editoriale, ma anche nella divulgazione scientifica e nel debunking delle fake news.
Un territorio ad oggi ancora poco esplorato è l’utilizzo delle nuove tecnologie legate alle interfacce vocali, dove il riconoscimento vocale mediato dall’intelligenza artificiale potrebbe aprire la strada a nuove forme di fruizione orale del libro in formato digitale. E’ infatti in crescita l’ascolto degli audio-book e cominciano ad apparire sulle smart tv le prime funzionalità di lettura di libri attraverso voci di sintesi. E’ tuttavia ancora poco esplorata l’opportunità di introdurre arricchire la fruizione sonora dei libri digitali con funzionalità di interazione vocale e di dialogo, anche se possibilità di dialogare con chat bot connessi all’intelligenza artificiale apre la prospettiva di nuovi scenari creativi. Restano, al momento, sullo sfondo anche i primi tentativi di scrittura automatizzata basati sulle reti neurali, che appaiono circoscritti più alla scrittura funzionale che a quella creativa.
Un elemento che sicuramente influenzerà il futuro del libro è il fenomeno delle reti partecipative sui social network. Se la narrazione diventerà sempre più immersiva e interattiva, non sarà attraverso trame e ambientazioni da fruire ed esplorare in solitudine, ma attraverso contesti interattivi tanto virtuali quanto sociali, dove l’esperienza in prima persona e subito mediata dalla condivisione con gli altri, dai loro commenti, dal suggerimento di punti di vista diversi e inaspettati. Il libro del futuro avrà la fluidità dell’opera aperta, dove il lettore potrà essere parte attiva dello scorrere della storia e interagire con essa attraverso i numerosi gradi di libertà che le tecnologie digitali mettono a disposizione e, al tempo stesso, potrà muoversi ambienti virtuali di fruizione collettiva, interagendo non solo con i contenuti multimediali, ma anche con le esperienze e la diversità di un pubblico che diventa sempre più una community.
La previsione di una tecnologia sempre più intima e interconnessa con il corpo, è del tutto probabile e in linea con la sua evoluzione sempre più confortevole rispetto al nostro approccio nei suoi confronti. Il punto è, però, non tanto cosa ci permette di fare, ma cosa ce ne facciamo di queste possibilità.
Pensiamo alla nostra auto, che rispetto anche solo a una generazione fa è incredibilmente più tecnologica: ci permette di fare un’infinità di cose mentre stiamo guidando: per esempio ci permette di avere informazioni ambientali come la temperatura esterna, o interne rispetto ai singoli componenti come la pressione delle gomme, di metterci in contatto con altre persone o altri guidatori attraverso l’interfaccia dell’auto, di poter visualizzare un’estensione dei nostri dispositivi; ci ricorda quanto tempo manca alla revisione, eccetera.
Ognuna di queste informazioni è utile e ha un suo senso. Ma quante di queste usiamo?
È importante avere a disposizione la possibilità di accedere a informazioni quando ne abbiamo bisogno, ma spesso la nostra esperienza, in questo caso quella di guida, non cambia di molto nella pratica quando avere accesso a queste informazioni aggiuntive rispetto all’azione di guida non sono necessarie.
Non si tratta di avere un approccio passatista all’innovazione, che non mi appartiene, ma è incontrovertibile che tutti abbiamo sperimentato, davanti a una sterminata gamma di possibilità, di aver preferito l’essenziale.
A chiunque è capitato di dismettere un elettrodomestico senza averne mai sfruttato una buona metà delle proprietà, quelle stesse proprietà che possono averci spinto all’acquisto in un primo momento.
Se da un lato è davvero stupefacente la gamma di possibilità che la realtà aumentata può dare alle cose quotidiane, dall’altro vorrei riflettere su cosa sentiamo l’esigenza di vivere come upgrade di quello che facciamo.
Quando in un servizio in abbonamento guardiamo un film o una serie, ci sono un sacco di informazioni aggiuntive sull’episodio che stiamo guardando: ma davvero le leggiamo? Oppure invece ci danno addirittura fastidio perché ci distraggono o ci “ostacolano” rispetto a quello che siamo lì per fare?
Non rischiamo allora di star immaginando di usare la nuova tecnologia per replicare implementazioni che abbiamo già sperimentato come superflue in epoca analogica, un po’ come succedeva con i dischi aggiuntivi dei contenuti extra nei cofanetti dei dvd, che erano poi gli unici a non graffiarsi mai perché mai utilizzati?
Per ogni tipologia di canale ci dovrà essere una declinazione ad hoc del messaggio: per esempio, l’esperienza di un libro didattico può ricevere grande impulso da strumenti immersivi come la realtà aumentata, consentendo in fase di studio l’immediata capacità di mettere a confronto informazioni molto diverse su piattaforme diverse, e dotando così la parola scritta del beneficio di aumentare la sua efficienza grazie all’interazione con grafici, dati aggiornati, esempi pratici multimediali, eccetera.
Oppure, a livello giornalistico, il fact-checking e la correlazione tra articolo e fonte potrebbe assumere finalmente un ruolo centrale nella comunicazione.
Ma se consideriamo l’oggetto libro, credo sia utile e funzionale ricordare che tutto quello che mettiamo “in più” deve essere al servizio di una domanda di approfondimento ulteriore, e ricordarsi sempre di essere tale. In più, oltre al contenuto.
Abbiamo potuto apprezzare di recente Skam, uno dei pochi prodotti a raccontare davvero chi sono gli adolescenti senza costringerli in rappresentazioni archetipiche ormai obsolete utili, e neanche poi tanto, solo a noi genitori per decodificarli. Per tutto il periodo della serie, sui social i personaggi di Skam vivevano le loro vite da protagonisti “reali” condividendo informazioni più o meno private e sicuramente personali che rimandavano alle vicende affrontate durante la serie, approfondivano, parlavano d’altro, aggiungevano significato.
Esattamente come succede nella vita vera, per esempio come quando ascoltiamo il racconto di un evento che ci interessa ma a cui non abbiamo partecipato, e cerchiamo sui social tracce di quello che abbiamo sentito, e lì troviamo conferme e frammenti di informazioni aggiuntive e complementari, che messi insieme compongono un mosaico tale da darci l’impressione di sapere, quasi come se ci fossimo stati.
Il problema della rilevanza di questi contenuti aggiuntivi è disinnescato, il racconto non lineare delle interazioni dei personaggi sui loro social con gli utenti e tra di loro, riempiva quello che nella trama degli episodi non era stato affrontato offrendo così un livello aggiuntivo di contenuto a chi ne sentiva l’esigenza, e dall’altra parte in nessun modo la serie diventava incomprensibile per quella porzione di pubblico che non aveva sentito l’esigenza di immergersi in questo sottobosco di narrazioni.
Ecco, l’apporto che la tecnologia vorrà dare all’esperienza di lettura sopravviverà al tempo nella misura in cui saprà restare tra questi due paletti: fornire informazioni aggiuntive rilevanti che possano innescare dibattito e approfondimento ulteriore da un lato e dall’altro non fagocitare il contenuto che abbiamo scelto rendendo una maratona multipiattaforma e multi-contenuto necessaria alla comprensione del testo.
Riassumendo: eravamo già abituati a vedere nelle librerie i libri pop-up, creati per sollecitare l’interazione del lettore attraverso dispositivi di carta “tridimensionali” che si animano quando vengono sfogliate le pagine. La tecnologia oggi a noi disponibile ci ha permesso di andare oltre questa forma editoriale che evolvendosi, permette la creazione di libri che, attraverso la realtà aumentata offrono al lettore un’esperienza immersiva di lettura. L’uso della AR per potenziare il libro è una pratica in atto negli ultimi anni che mira a introdurre una nuova modalità di storytelling che si affranchi dalla narrazione classica e si avvicini più ad una narrazione integrata, in cui l’utente può scegliere liberamente cosa approfondire, a che tipo di contenuti accedere, e potendo operare una vera a propria segmentazione del testo in base ai propri interessi.
Numerosi sono i progetti editoriali che propongono un nuovo approccio al testo come esperienza e non più solo come attività puramente intellettuale. ll lettore ha la possibilità di visionare contenuti digitali attraverso un Qrcode che può essere letto da più dispositivi. Attraverso la visione di questi contenuti potremo conoscere i motivi che stanno alla base delle scelte dei personaggi proprio dalla bocca degli stessi, oppure avere accesso ad eventi che si svolgono dopo la fine della narrazione.
Un modo nuovo di pensare alla storie e alla narrazione, non più lineare ma articolato, più immersivo e coinvolgente. Una scrittura abbinata a contenuti visivi, interattivi e digitali che può coinvolgere un pubblico più vicino ai contenuti audiovisivi digitali.
L’offerta editoriale del panorama AR è vasta e si estende dai libri per l’infanzia passando per la narrativa sensoriale arrivando ai libri per adulti con importanti collaborazioni e contenuti inediti. Facciamo qualche esempio.
The Time Tub Twins, un libro focalizzato su temi come la creatività, la scienza e le invenzioni che vuole stimolare l’immaginazione dei più piccoli. Lo scenario e la trama sono”aperti“, nel senso che i lettori hanno la possibilità di personalizzare e di interagire con i personaggi e con gli oggetti in 3D, diventando così dei veri e propri storyteller oltre a poter partecipare a un’esperienza diversa ogni volta che si decide di aprire il libro, creando un’invenzione differente all’interno del “piccolo laboratorio” cartaceo-digitale.
Sensory Fiction, il primo libro “indossabile” che grazie alla realtà aumentata riesce a trasmettere al lettore le stesse emozioni che stanno vivendo i personaggi della storia. Grazie a sensori sul libro che modificano la temperatura percepita e a un gilet da indossare che esercita una pressione sul torace del lettore, la ‘sensory fiction’ permette di immedesimarsi in maniera più vivida nelle avventure e nelle emozioni dei protagonisti. Grazie a questi due strumenti l’esperienza di lettura diventa vivida e realistica.
Masters of the Sun: The Zombie Chronicles, libro destinato ai lettori adulti, nato dalla collaborazione tra Marvel e Black-Eyed Peas; il libro, grazie alla tecnologia AR, offre ai lettori contenuti animati e musicali creati da Will.i.am e Hans Zimmer e narrazioni a cura di personalità note al pubblico come Jamie Foxx e Queen Latifah. Cosa ne pensa un neuroscienziato esperto di Realtà Virtuale come Valentino Megale?
Il libro è da sempre lo strumento perfetto per condividere intere esperienze sfruttando il potere delle parole di evocare immagini, scene ed emozioni nella nostra mente, come è stato spesso ribadito nelle Conversazioni del progetto #Librare. Si tratta di un medium che fa leva sulla nostra naturale capacità di immaginare il mondo, oltre che percepirlo con i nostri sensi. Ha da sempre rappresentato anche un canale di relazione sociale, permettendoci di superare limiti di spazio e tempo, offrendo a generazioni diverse di entrare in contatto e condividere il proprio vissuto, dai mondi di fantasia a narrati realistici. Leggere un libro è come vivere una stessa esperienza, trasportati attraverso la mente in uno stesso spazio, mentre sfogliamo le pagine di carta o cambiamo quelle digitali nei più moderni lettori di ebook.
Leggere ha letteralmente plasmato il nostro cervello nel corso dei secoli. Ogni esperienza che facciamo, tutto ciò che percepiamo con i nostri sensi, mette in moto un profondo processo di riorganizzazione delle reti neuronali, disfando alcune connessioni e promuovendo la formazione di nuove, nel suo complesso noto come neuroplasticità. E’ questo processo che ci rende adattabili alla moltitudine di situazioni in cui ci imbattiamo, che ci aiuta a trarre il meglio da ogni opportunità e a minimizzare rischi e pericoli. La lettura va intesa proprio come esperienza, un’attività che mette in moto il cervello richiedendo di interpretare simboli astratti e sintetizzarli in idee complesse, e nel farlo il cervello cambia.
Leggere un libro stimola una grande varietà di aree cerebrali, da quelle coinvolte nell’elaborazione di vista e udito, a quelle deputate all’associazione e comprensione. Sfogliando le sue pagine e frasi, un libro stimola la nostra capacità di ragionare in maniera fluida e risolvere problemi, promuove l’intelligenza emotiva e l’abilità di empatizzare con i nostri simili, migliora la concentrazione e ci aiuta a riconoscere e decodificare pattern permettendoci di approcciare la complessità della realtà.
Oggi, l’avvento delle nuove tecnologie ha cambiato profondamente il nostro modo di leggere, non solo il libro ma qualsiasi tipologia di testo. Grazie ai dispositivi mobili, possiamo leggere sempre e dovunque ci troviamo. Questo presuppone che il tempo dedicato in esclusiva all’atto della lettura acquista un carattere sempre più ibrido con le altre attività svolte in mezzo a stimoli sensoriali più ricchi provenienti dal contesto circostante. Dedichiamo meno tempo alla vera lettura, con conseguente impoverimento delle capacità cognitive che la lettura ha da sempre promosso nel nostro cervello: focus, visione d’insieme ed empatia.
Ma una minore fruizione del libro non è legata al digitale in sé, quanto piuttosto al fatto che tendiamo a vivere le nuove tecnologie in maniera alquanto passiva, e il nostro tempo (le modalità e la qualità con cui lo viviamo) viene regolato non tanto da noi quanto dai ritmi della società e dei servizi che ne fanno parte. Passiamo tempi sempre più lunghi fruendo di contenuti digitali che competono per la nostra attenzione, qualcosa che rappresenta tanto un ostacolo alla fruizione della lettura tradizionale quanto un’opportunità per ripensarla, estendendo le sue possibilità e coinvolgendo le nuove generazioni attraverso il processo di narrazione. Che rimane sempre un canale di comunicazione e condivisione di esperienze tra menti, nello spazio e nel tempo.
Le tecnologie digitali nascono per ottimizzare comunicazione e informazione, e si evolvono nativamente per coinvolgere i nostri sensi e processi cognitivi, più la nostra mente che il nostro corpo. Inoltre, il nostro stile di vita ci porta a dedicare tempi più lunghi entro la dimensione digitale, con un impatto significativo sulla nostra personalità, le nostre relazioni e le modalità con cui esprimiamo noi stessi e rispondiamo alle nostre necessità e ambizioni. Paradossalmente, pur passandoci molto tempo, c’è ancora una vaga comprensione di come funziona la tecnologia in relazione a come funziona la nostra mente.
Per affrontare questo scenario in maniera ottimale, in equilibrio tanto con gli sviluppi futuri quanto con tutto il patrimonio fornitoci dal passato, serve più che mai maturare una cultura della mente e del cervello. Quest’ultima, non da intendersi in contrapposizione a quella del corpo, ma a completamento, anzi ad arricchimento reciproco di quest’ultimo. Grazie alla maggiore evidenza e immediatezza dello stato di salute del corpo, siamo più consapevoli di quali fattori ne promuovono il benessere e lo sviluppo. Serve parallelamente comprendere come funziona la nostra mente e come questa interagisce e viene influenzata dal mondo circostante e dagli strumenti che quotidianamente utilizziamo.
Tornando al libro, la contrapposizione tra strumento tradizionale e nuove tecnologie diventa semplicistico e sterile. Dietro la difesa del libro come baluardo della tradizione, andrebbe compreso anche il razionale cognitivo dell’uso del libro. In poche parole, leggere un libro serve a prescindere che siamo innamorati o meno del romantico profumo delle sue pagine di carta. Essere consapevoli di questi aspetti ci porta a considerare il libro oltre che uno svago opzionale, ma come attività utile a promuovere la salute della persona e a sviluppare capacità profondamente umane. Un libro è carburante per la nostra umanità, sia a livello del singolo che della comunità, e come tale troverà sempre la sua ragion d’essere.
La comparsa di nuove tecnologie, come le tecnologie immersive, aiuta ad estenderne gli orizzonti offrendo nuovi modi per esplorare (e narrare) la propria intimità, cultura e società. L’aspetto promosso con forza dalle tecnologie immersive (quali la realtà virtuale e la realtà aumentata) è l’interazione immersiva, ossia la possibilità di entrare in rapporto con i contenuti multimediali non come spettatore esterno ma come parte integrante dei contenuti stessi. La XR è pensata per simulare la nostra presenza entro i suoi contenuti digitali e superare la separazione normalmente vissuta dalla presenza di uno schermo.
Rispetto alla realtà aumentata progettata per estendere ciò che già vediamo con i nostri occhi e per la quale l’applicazione al libro è particolarmente intuitiva, la realtà virtuale pone prima di tutto una limitazione meramente logistica: indossare un visore separa sensorialmente l’utente dal contesto circostante e impedisce di accedere al libro in maniera tradizionale, ossia leggendolo. Questo ci spinge a rivalutare la linearità dell’esperienza della lettura e soffermarci piuttosto sul processo che la lettura abilita, ossia la narrazione. Quest’ultima può avvalersi di diversi mezzi e modalità e finisce per configurarsi come un percorso strutturato in quale, più del singolo strumento, serve prestare attenzione alla combinazione ottimale dei vari mezzi per raggiungere il risultato desiderato.
Già nel libro tradizionale, il testo scritto è stato spesso accompagnato nel tempo da raffigurazioni o fotografie, il cui scopo non era solo replicare in immagine quel che era descritto a parole, ma anche aggiungere un ulteriore tassello di coinvolgimento e relazione con il lettore. Il testo finisce per essere sintetizzato in alcune immagini chiave, utili a consolidare nella memoria del lettore le scene fondamentali attraverso la forza cognitiva e culturale della simbologia. Testo e immagine si completano, rendendo la narrazione più efficace e multisensoriale, ossia ancora più vicina a come viviamo quotidianamente la storia per eccellenza, la percezione della realtà circostante.
La relazione tra libro e realtà virtuale potrebbe essere intrapresa proprio in questa ottica, due strumenti non antagonisti nè necessariamente alternativi l’uno all’altro, quanto invece capaci di porsi in continuità e completarsi a vicenda per raggiungere uno scopo comune. Non potendo condividere lo stesso spazio di interazione, libro e VR devono potersi alternare nel tempo, richiedendo la cura professionale di come questi si alternano e si collegano nell’ambito di uno stesso percorso narrativo.
Gli esempi che hai citato fanno presagire le potenzialità di questo rapporto. Fra questi, il romanzo per bambini Wolves in the Walls dell’autore inglese Neil Gaiman, già vincitore di numerosi premi come quello per il Miglior Libro Illustrato per Bambini nel 2003 da parte del New York Times, è stato trasposto in esperienza VR, disponibile per l’ecosistema Oculus.
Il contenuto offre la possibilità di rivivere la narrazione in prima persona e soprattutto come parte attiva della storia, senza stravolgere quest’ultima ma partecipando con la giovane protagonista Lucy alle avventure descritte nel romanzo di Gaiman. Senza distrazioni dal mondo circostante, l’ambiente vissuto con le sue luci, effetti sonori, sorprese sensoriali finisce per regalare emozioni e ricordi di elevato realismo percettivo. Non solo si assiste alla storia, ma si entra a farne parte, una sensazione spesso vissuta anche attraverso la lettura di un libro, ma che risulta potenziata grazie all’immersività e interattività della VR.
L’impatto della realtà virtuale diventa significativo anche per la sua capacità di trasferire e spiegare determinati contenuti senza l’utilizzo delle parole, ma principalmente grazie al coinvolgimento sensoriale trasmesso dalla scena virtuale, illusoriamente confermata come realistica dal cervello (chiaramente se il contenuto viene progettato e fornito rispettando determinati standard tecnici). Si tratta di una proprietà approfondita dalle ricerche scientifiche di studiosi come il Dr. Mel Slater, che da anni impiegano la VR per sensibilizzare gli utenti su situazioni di discriminazione derivanti da bias razziali o abusi sessuali, presupposti dove la spiegazione razionale sortisce spesso deboli effetti, mentre l’immedesimazione con la vittima in VR aiuta l’utente a elaborare i propri bias, ed in alcuni casi anche superarli.
La VR offre la possibilità di condividere un vissuto coinvolgendo la dimensione più profonda della persona, riuscendo a trasmettere emozioni difficilmente comprensibili ad uno spettatore esterno senza l’esperienza diretta. Un aspetto particolarmente utile lì dove la narrazione punta anche a sensibilizzare e promuovere una reazione specifica da parte dell’utente. E’ questo il caso di un altro contenuto in VR chiamato “The Key”, narrazione immersiva magistrale a sfondo umanitario capace di comunicare stati emotivi profondi difficili da spiegare a parole, ma che rappresentano un motore importante della nostra motivazione e conseguenti azioni sociali.
Un ulteriore valore aggiunto della VR è scardinare in maniera semplice una verità che riteniamo scontata: l’esperienza che facciamo della realtà non è immutabile e dipende da una moltitudine di processi concatenati, potenzialmente soggetti ad alterazione. La VR ci mostra la relatività della nostra esperienza sensoriale e ci offre la possibilità di sperimentare con la nostra percezione della realtà, emergendo come uno strumento utile a valorizzare la diversità dell’esperienza umana, dove possiamo intraprendere percorsi inattesi per scoprire qualcosa di nuovo di noi e del mondo in cui viviamo. Un mezzo digitale, insomma, per percepire da nuove prospettive.
Quale sarà il futuro della relazione tra libro e VR è ancora tutto da scoprire. Alcune realtà stanno già sperimentando sul mercato il connubio tra narrazione testuale ed esperienza immersiva, come la casa editrice Penguin Random House che sta investendo in progetti VR a supporto di libri tradizionali.
Fatto sta che stanno nascendo i presupposti di una relazione fruttuosa che potrebbe andare a vantaggio di entrambi, mentre per chi ama la narrazione i confini tra il mondo fisico e quello virtuale si stanno facendo sempre più labili aprendosi a nuove esplorazioni della mente.
Va da sé che dopo aver studiato a lungo gli effetti della scrittura alfabetica sulla cognizione e sul cervello, ho davvero apprezzato e imparato molto dalla prima metà di questo commento. Vorrei però riprendere un argomento su cui non sono del tutto d’accordo: “la contrapposizione tra strumento tradizionale e nuove tecnologie diventa semplicistico e sterile”. Ciò che dice è vero per la banalità generale delle argomentazioni sentimentali che vengono invocate a proposito del libro di carta, del suo odore, del suo peso nella mano, della sua immediata e non assistita leggibilità.
Ma ciò che sembra sempre sfuggire a questi difensori, così come ai loro avversari, inoltre, è il ruolo capitale della fissità del testo che ho già menzionato sopra. Perché è proprio il fatto che la lettura porta a un’elaborazione interna da parte del lettore senza la possibilità di una modificazione spontanea del testo, né di un ritorno sull’argomento come nel testo elettronico, né di un’interpretazione visualizzata come nel cinema o nella televisione. Ogni interazione nella lettura del testo fisso è opera del lettore che, sì, è ovvio, interagisce con il significato delle parole che legge, ma questa interazione avviene solo dentro di sé e la profondità che porta alla lettura dipende solo da lui. Né si è costantemente interrotti nella lettura di un libro da eventi interni al testo. Il testo rimane impassibile.
Perché è importante? Perché è proprio questa mancanza di reazione da parte del testo stampato che obbliga il lettore a farsi carico sia dell’immaginario che delle altre operazioni cognitive di selezione, richiamo, classificazione, comprensione, ricostituzione della narrazione e di tante altre che diventano abitudini mentali e immagazzinano contenuti che, in larga misura, suscitano e sviluppano personalità. Non manco mai di far notare questa proprietà del libro agli educatori e soprattutto ai responsabili dell’educazione nazionale o locale. Ma quasi sempre le mie obiezioni cadono nel vuoto…
Vorrei infine sottolineare un aspetto ancora più fondativo del rapporto fra interazione e narrazione. Perché siamo chi siamo, ma anche chi raccontiamo di essere. Come recita il secondo dei dieci item che definiscono il profilo del Lettore ideale di Ariminum Circus “il Lettore Ideale sa che l’uomo è intriso dal desiderio di narrazioni. Platone nel Cratilo, ricorda Eco, suppone che le parole non rappresentino le cose, bensì l’origine o il risultato di un’azione. Sono delle microstorie. Duemilacinquecento anni dopo, Kelly individua nella mutazione degli oggetti in attività (il libro diventa un librare) l’essenza della trasformazione digitale in atto. Harari così sintetizza la questione: ‘Gli esseri umani preferiscono pensare in termini di storie piuttosto che di fatti, numeri o equazioni. E più semplice è la storia, tanto meglio è’. Anche quando si pensano: siamo storie per noi stessi. La risposta alla domanda E tu chi sei?, che il Brucaliffo rivolge ad Alice, può essere data solo nella forma di un racconto capace di definirci: i nostri valori, le nostre capacità, la nostra storia passata, i nostri successi, gli sbagli, le giustificazioni. Con tale consapevolezza, il Lettore sempre di più oppone tuttavia ‘una forma di resistenza, quasi eroica, a ciò che oggi s’impone con successo: la trama dai prevedibili colpi di scena e gli intrecci banali con i loro protagonisti inequivocabili’ (Paolo Di Stefano)”. Questo anche perché sempre più spinta è la ricerca di quella “identità molteplice”, ricercata anche da Alice. Riprendo un dialogo di Ariminum Circus per un vostro commento:
“«Fin dai primi passi in Wonderland, la bambina scopre che l’essere sprofondata nella tana del Bianconiglio la sta conducendo in un viaggio giocoso verso la superficie della sua “identità infinita”, che si sviluppa sempre, aveva visto Deleuze, in due direzioni opposte: sprofonda per risalire in superficie, rimpicciolisce per crescere, corre più veloce che può per stare ferma, cerca il senso nel non senso.
Qui alle Officine rincorriamo la singolarità molteplice, impermanente, metamorfica e metaforica di Alice. Che la rivendica all’inizio di Attraverso lo Specchio, contrapponendola all’identità esatta ma univoca, prescritta e monodimensionale della sorella più grande: “Alice aveva avuto il giorno prima una lunghissima discussione con la sorella, soltanto perché aveva cominciato: ‘Facciamo finta d’essere re e regine’: la sorella, alla quale piaceva essere molto esatta, aveva risposto che non potevano perché erano soltanto in due, e Alice era stata costretta a dire: ‘Allora tu puoi essere una, e io sarò tutti gli altri’”.
Concludo osservando che ambito di elezione per eccellenza di creazione ed evoluzione dell’identità molteplice è la Rete. I percorsi delle tecnologie virtuali, al netto degli esibizionismi e delle perversioni cui si prestano (lo accennavo prima), sono oggi legati a quelli della conoscenza, facendo dei nuovi computer (nelle loro varie declinazioni: pc, tablet, smartphone) specchi sociali nei quali vivere e far vivere i propri riflessi: creare, cioè, estensioni di sé che si disseminano in tutte le direzioni».
«Non consideri i rischi determinati dalla tendenza ad affidare agli algoritmi, che ne definiscono i caratteri e ne individuano le dinamiche future, la costruzione identitaria delle persone?».
«Lo capisco. Presto gli algoritmi sapranno prevedere il rischio di malattie cardiovascolari per i singoli individui: sarà giusto usarli? Se un algoritmo mi dicesse che andando alla cena cui sono stato invitato avrei un’altissima probabilità di ammalarmi di influenza, farei bene a restare a casa? E se a tavola avessi conosciuto la donna della mia vita?».
«Appunto, quindi tu cosa consigli?».
«Di non fidarsi troppo degli algoritmi e di non inginocchiarsi di fronte alle loro profezie come se fossero pronunciate dall’Oracolo di Delfi. I software riflettono i pregiudizi di chi li ha creati, perché sono scritti dagli esseri umani e si alimentano di big data forniti dagli esseri umani. Se fatti bene, però, sono strumenti che ci danno informazioni in più sulla realtà, sta a noi decidere come usarli».
«E qual è il modo migliore?».
«Metterli al servizio di un progetto che consenta all’identità riscritta sul computer di perdere la propria fissità e permanenza, per esprimere la sua molteplicità: perché non vi sia più un’identità singola, ma un’identità plurima; non più una persona sola, ma più persone che identificano il medesimo soggetto. Come accade ad Alice che è, di volta in volta, grande, piccola, un fiore, un “mostro favoloso”, una pedina, l’amica Mabel e, comunque, in ogni momento, se stessa; così la frammentazione identitaria messa in atto attraverso Internet non determina un sé alienato, ma un sé fluido e multiplo – un “Sé proteiforme”, è stato ben detto: capace, come il Dio greco Proteo, di mutare forma a piacere, di giocare trasformazioni fluide, rimanendo però saldo nella sua coerenza»”.
Questa è gloriosamente l’epoca delle identità multiple. La materia è fatta da onde o particelle? Una e l’altra. Siamo tutte le cose insieme senza escludere possibilità. Riflettere sulle implicazioni di una realtà nuova, senza punti fissi, può assomigliare a un’esperienza psichedelica e infatti Alice con le sue sostanze ed esperienze ce lo insegna. La visione moderna e quindi decrepita con i suoi ruoli, le sue gerarchie e le sue logiche di appartenenza (genere, luogo, religione, società) si sta sgretolando in favore di una visione sistemica e sincretica dove il soggetto si frange, rivendica l’autodeterminazione e rifiuta l’isolamento che un ruolo definito da un’autorità gli impone. Oggi si stanno riscrivendo le relazioni di potere e quelle affettive, la relazione con il nostro corpo e con il nostro pianeta. La rete è il modello principale ispira queste idee di rinascita, teorie di collegamenti che assomigliano a radici organizzate in senso modulare: se c’è un problema a ramo forse il ramo si seccherà, cadrà e poi si rigenererà senza un effetto sugli altri rami, diciamo che sarà il ramo a reagire senza aspettare ordini da un’autorità centralizzata che verrà a mancare.
L’identità delle nuove foglie sarà diversa ma dovrà dare lo stesso apporto vitale. Le creature arboree sono le nostre maestre per quanto riguarda la trasmissione dei segnali, l’approvvigionamento delle risorse e la cooperazione. La questione identitaria, chi sono io, fondativa per secoli, bussola nella notte di tanti pensatori si disgrega a favore di domande più virtuose come, chi siamo noi, dove trova forza una collettività? Si torna alle tribù, alle piccole comunità, ad organismi che possono autoregolarsi senza essere depredati e senza il bisogno di depredare. Comunità che hanno bisogno di nuove storie.
Ora che il chi sono io lascia il passo, o torna al lontano chi siamo noi, ci avviamo verso un’autoredifinizione della specie umana in termini evolutivi. Se vogliamo sopravvivere al millennio, si dice che ci stiamo estinguendo, l’immaginario collettivo dovrà essere sempre più collettivo. La danza cosmica infinita che è l’immagine più bella per rappresentare l’universo su cui concordano fisici artisti e uomini di fede adesso forse ha una data di scadenza. La realtà per molti nemmeno esiste, e dunque a maggior ragione c’è sempre più bisogno di scriverla. Per raccontare questa nuova realtà che rinasce dalle sue macerie dobbiamo mantenere i tracciati dei suoi movimenti, delle sue identità ma soprattutto dei disegni e delle traiettorie che lasciano le interazioni fra le sue identità. Se questi legami saranno stabiliti da algoritmi, da lontananza fisica o da nuovi innesti cerebrali lo scopriremo presto.
Le interazioni sono le nuove identità e sono infinite come tutte le possibilità che gli atomi di cui siamo composti si siano già incontrati o si incontrino con altri atomi nello spazio e nel tempo. la prima lezione che si impara per stare su un palcoscenico è quella di lavorare sulle relazioni, quella con lo spazio, con il tempo, con il testo, con la storia, con il personaggio, con il tuo compagno, con il pubblico. Si vive di relazione sulla scena come sulla pagina. Si esiste solo quando siamo insieme e quando sia insieme siamo molte cose allo stesso tempo. Alice è grande, alice è piccola, Alice è perversa, innocente, sognante e sognata, vittoriana e contemporanea, morta e viva.
La nostra presenza quotidiana sui social ci ha indubbiamente messo a confronto con il concetto di autonarrazione. Ma secondo me è utile fare un passo indietro: spesso social media e social network si usano come sinonimi. In realtà, c’è una differenza sostanziale.
I social media non sono che un gruppo di applicazioni Internet basate sui presupposti ideologici e tecnologici del Web 2.0, che consentono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli utenti.
Social network è invece un concetto teorico che descrive relazioni tra persone, organizzazioni e gruppi. Rappresentano una rete di persone unite tra loro da interessi di varia natura, che costruiscono community spontanee proprio intorno agli interessi che hanno da condividere.
I primi concretamente sono dei software; i secondi sono una struttura sociale di persone, ovvero quanto ci sia di più lontano da qualcosa di tecnico. Per questo il web non è un altro da sé e non è più tempo di fare distinzioni nette tra reale e virtuale, perché sappiamo quanto sia importante esserci, sia per gli individui che per le aziende: non esserci vorrebbe dire infatti stare fuori dalle reti sociali, cioè lontani dalle persone con cui vogliamo avere una relazione, di qualunque tipo sia.
Ma se per ogni tipologia di canale ci deve essere una declinazione ad hoc del messaggio, non si può pensare di essere presenti ovunque, nello stesso modo. Ogni piattaforma social ha caratteristiche proprie che rispondono a esigenze diverse e per questo si configurano come adatte per il raggiungimento di certi obiettivi: conoscere la piattaforma, approfondirne le caratteristiche peculiari e differenziare la propria presenza e comunicazione in base al canale, sono i passi fondamentali che ogni azienda, reparto marketing e agenzia si ritrova a dover fare per sfruttare le potenzialità offerte dai singoli social.
Questo porta inevitabilmente a raccontare sé stessi o il proprio brand in maniera diversa, e quindi, in un certo modo, a essere diversi a seconda dell’arena nella quale si sta prendendo parola. Non c’è differenza tra azienda o persona; sempre di storytelling si tratta. Farlo bene vuol dire rendere un’informazione memorabile e coinvolgente, cioè capace di generare un’interazione perché, come dice Seth Godin, “le grandi storie sono tali e hanno successo perché in grado di catturare l’immaginazione”.
Il punto dunque non è non sapere cosa rispondere al Brucaliffo, ma consentirgli in ogni momento di farsi un’idea su quello che noi siamo, a seconda del punto di vista che ha scelto per entrare in contatto con noi. Essere editori di noi stessi comporta permettere alla persona che vogliamo raggiungere o con la quale vogliamo rimanere connessi di prendere parte alla nostra comunicazione, con la possibilità di essere integrata nell’universo narrativo che costruiamo.
Adattare il nostro tono di voce alle diverse piattaforme non stravolge la nostra identità così come non lo fa l’outfit anche molto diverso da quello indossato ieri in una circostanza diversa. Nello stesso modo il libro non deve cambiare identità, ma ha l’opportunità di sfruttare le opportunità che la maturità e la predisposizione del pubblico e lo sviluppo tecnologico mettono a disposizione dell’interpretazione del mondo che abitiamo.
Attorno all’algoritmo, divinità laica capricciosa e apparentemente onnipotente che può essere sfruttata da oscuri stregoni, proliferano infinite leggende che alimentano la sensazione di pericolosità: se il web non è altro da noi stessi, però, l’algoritmo dei social non fa molto di più che manifestarci quello che noi stiamo scegliendo di essere.
La finalità pubblicitaria dell’algoritmo ci propone di seguire quello che noi abbiamo indicato come rilevante con le nostre azioni durante la navigazione della piattaforma, non è vero che ci induce a seguire qualcosa che noi non vogliamo o ci fa diventare qualcuno che non vogliamo essere.
Quello che è vero, invece, è che noi raccontiamo sui social solo quello che vogliamo far vedere, e come tutte le catene di mezze verità o verità ritoccate, il risultato può discostarsi anche molto da quello che siamo veramente. Ma amplificando quello che noi facciamo, raccontiamo, pubblichiamo e con il quale interagiamo sui social, l’algoritmo ci restituisce la nostra immagine specchiata, consentendoci di correggere la rotta ogni volta che vogliamo.
L’algoritmo restituisce la nostra verità, la fotografia esatta delle nostre azioni online. Nessuno dice che questa immagine rispecchia perfettamente la nostra essenza, ma sicuramente riflette quello che noi scegliamo di essere sul web. Attraverso lo specchio dell’algoritmo noi abbiamo il potere di cambiare quell’immagine semplicemente allargando i nostri interessi, cambiando i nostri contenuti, differenziando le nostre interazioni. L’algoritmo governa le nostre vite solo nella misura in cui noi ne abbiamo perso il controllo.
Ma ogni banner pubblicitario, che sentiamo affine o meno ai nostri interessi e alla nostra identità, ci ricorda che cosa stiamo facendo online, come un Brucaliffo che non fa una domanda, ma azzarda un identikit sulla base degli indizi che gli abbiamo dato. Click dopo click.
Ricordo un post di Marco intitolato Alice la Barbara, in cui scrive fra l’altro: “Alice, come i Barbari di Baricco, stufa marcia (very tired) fugge via dal mondo statico e libresco della sorella maggiore, una fuga mentale in un mondo alternativo dove figure e conversazioni sono centrali. nati dopo il 2006 fanno parte di quella parte di umanità che abita contemporaneamente il mondo fisico e il mondo della rete, vivendo immersi in più di una realtà, anche se non ne hanno una chiara percezione. La rete per questi nativi digitali è sia un luogo di scambio che di azione, siano esse individuali o collettive; l’utente ha la possibilità di compiere un numero sempre più esteso di attività che comportano, da parte sua, l’assunzione di diversi ruoli, a seconda delle diverse circostanze e alle tipologie di utenti con cui si trova a interagire.
Questo fenomeno è molto comune ed automatico per molti dei giovanissimi che quotidianamente si trova a switchare da un dispositivo all’altro, da una piattaforma ad un’altra. Il loro muoversi nella rete è finalizzato alla condivisione di contenuti, alla comunicazione, o al reperimento di informazioni di varia natura (dallo sport al meteo, dai social alle comunicazioni scolastiche o di lavoro). Pensiamo infatti alle modalità estremamente connesse, partecipative e multitasking che gli under 30 sono abituati a mettere in pratica per comunicare, informarsi, darsi appuntamenti.
Attraverso uno schermo numerose applicazioni, schermate e barre di ricerca diventano finestre che possono essere aperte simultaneamente e consultate una per volta o tutte insieme. Puoi trascinare dei contenuti, copiarli, inviarli, condividerli, e mentre agisci sei già immerso in una sorta di dimensione conversazionale aperta, costantemente abitata e aggiornata, in cui gli utenti non sono altro che miliardi di pollici di una grande e immensa rete che si muove alla loro stessa velocità e che non dorme mai.
Un mondo pieno di porte e di finestre in cui entrare o sprofondare, da cui fuoriuscire cambiati, altri, vestendo sempre panni diversi e sperimentando una libertà di scelta che ci è possibile solo nei sogni. Molti sono i punti di contatto tra l’esperienza della rete e quella di Alice che si tuffa nella tana del Bianconiglio alla ricerca del suo amato compagno, d’avventura o ...di se stessa. Durante il viaggio, la caduta, o addirittura la salita, dipende dal punto di vista, interagisce con creature sempre diverse, viene messa alla prova e scopre a poco a poco pezzetti di sé che la porteranno a ripensare a chi fosse l’Alice caduta nella tana e a chi sia l’Alice appena fuoriuscita. L’identità di Alice muta al mutare degli ambienti, dei personaggi e delle sfide, in un viaggio appassionante che azzera il tempo e lo spazio e che lascia posto soltanto alla potente esperienza della narrazione.
Se è vero che il nostro modo di rappresentarci contribuisce a definire ciò che noi siamo, le storie che ci raccontiamo o che amiamo ascoltare dipingono altrettanto bene ciò che desideriamo, ciò che rifuggiamo o ciò che ci auguriamo. Per questo amiamo tanto libri come Alice nel Paese delle Meraviglie. Quale libro ci parla contemporaneamente di libertà, di scoperta, di avventura, di giovinezza e di infanzia portandoci in una dimensione altra senza coordinate di alcuna sorta? Le potenzialità di questo racconto sono chiaramente infinite, soprattutto se realizzate con una tecnologia come la VR.
All’interno di questa riflessione sull’identità come scoperta e come confronto con gli altri non possiamo non evidenziare le similitudini tra il mondo di Alice e quello della rete che quotidianamente abitiamo.
La costruzione di un’identità virtuale sempre diversa è un processo simile a quello di cui fa esperienza il lettore quando si immedesima nei personaggi della storia che sta leggendo. L’identità non è più fissa nè singola, ma diviene plurima, frammentata ma senza mai essere scissa, così come quella di Alice che piuttosto che perdersi ritrova una se stessa più adulta. Attraverso internet il Sé si trasforma in un fluido in continua espansione che trova nelle varie declinazioni e nelle varie piattaforme la sua ragion d’essere: la rete permette all’uomo e alla donna di oltrepassare il proprio dato biologico, fisico, esistenziale e divenire liberi creatori di sé stessi sperimentando una libertà fino ad oggi solo immaginata.
Il rapporto tra letteratura, libri, media e identità è fondamentale. Mi piace ricordare le parole di La Rochefoucauld sull’effetto formativo del romanzo: “Molte persone non saprebbero assolutamente nulla dell’amore se non ne avessero letto la descrizione in qualche romanzo” (parafrasando a memoria).
Forse non c’è bisogno di insistere di più sulla stretta relazione tra la formazione della persona, in quanto tale, e le sue letture. Quella che viene ancora chiamata (ma per quanto tempo?) “privacy” è la nozione di una coscienza privata che contiene tutto ciò che fa la scelta o la resistenza dell’individuo alle esigenze della sua vita. Questo contenuto dipende tanto dalla solidità delle pareti della propria coscienza, cioè dalla loro inviolabilità, quanto dalla ricchezza della propria memoria e dalla flessibilità della propria intelligenza, due facoltà che oggi sempre più ci affidiamo ai nostri smartphone. “La privacy è finita”, ha detto Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook.
E ha aggiunto “fattene una ragione! Yuval Noah Harari, già citato, ha osservato sul Financial Post che su Kindle o Cobo la lettura stessa non era più al sicuro dallo spionaggio perché il tracciamento elettronico era ormai in grado di seguire, interpretare e classificare i movimenti degli occhi, la respirazione, il ritmo di lettura, il battito cardiaco, insomma tutto ciò che, integrato automaticamente, poteva rivelare sui pensieri e le sensazioni del lettore. Per il momento, pochi non sospettano la portata di questa decervellazione (per usare l’espressione profetica di Alfred Jarry), ma è in aumento. Il mio consiglio è quello che do agli educatori: “Continuate a leggere e fate in modo che la gente legga sulla carta”.
Immagine di Marcello Minghetti.