Quando il manager è protagonista dell’innovazione. Una Conversazione con Sergio Bonalumi (Gruppo Hager), Elio Borgonovi (Università Bocconi), Luca Catellani (Lovemark SPA), Valerio Iossa (Dipartimento della Funzione pubblica), Angelo Tanese (Asl Roma1)

La ricerca Open Mood, che abbiamo presentato e cominciato a sviscerare nelle precedenti Conversazioni dedicate, ha identificato e descritto l’Open Manager. L’Open Manager è una figura che favorisce e sviluppa l’Innovazione Aperta in azienda. Adotta uno stile che coniuga due dimensioni. All’interno dell’azienda lavora in modo agile, facilita la trasparenza, la collaborazione, la sperimentazione e la leadership diffusa. All’esterno è pronto a cogliere opportunità, contribuisce al disegno di soluzioni innovative e si impegna per la loro implementazione in azienda. L’Open Manager favorisce la vitalità e la crescita armonica dell’Organizzazione.

Lo studio ha messo a fuoco 5 fattori dell’Open Manager, intendendo per fattori un insieme originale di competenze, comportamenti e atteggiamenti che definiscono le caratteristiche del nuovo approccio manageriale. Oggi approfondiamo la conoscenza  del fattore definito “Pro Agonism”.

Questo fattore inquadra il comportamento di un manager orientato all’innovazione che si focalizza sia sulla competenza tecnologica che sulla comprensione dei processi organizzativi.

Non potrebbe essere altrimenti perché la sua missione è fare scouting delle innovazioni maturate all’esterno. Impiega le sue risorse per ricercare nuove tecnologie oppure prodotti complementari a quelli della propria azienda. Per integrarli deve conoscere molto bene il quadro di riferimento in cui vanno inseriti. Deve riuscire a comprendere il mercato e la modalità specifica dell’azienda di produrre valore.

Parlare di AGONISM(O), significa anche saper affrontare i conflitti con coloro che si oppongono al progetto di miglioramento. Si tratta della capacità, di chi si occupa di innovazione, di farsi carico delle resistenze dell’organizzazione e gestirle. L’innovazione è una turbativa. Attacca i meccanismi consolidati, richiede uno spostamento dalle posizioni previste e molto più spesso un’interpretazione del tutto nuova. Inevitabilmente si configurano dubbi, fatiche, ansie. A segnalarle sono le cosiddette resistenze, i sintomi di un disagio che chiede di essere alleviato attraverso il ripristino dello status quo. Diverse sono le strategie che si possono adottare: alcune più integrative/gentili, altre più robuste.

In questo senso, la componente PRO AGONISM porta l’Open Manager a muoversi da primattore con modalità imprenditoriali. Dunque, la denominazione stessa PRO AGONISM svela qualcosa di ulteriore: aggiungere la lettera “t” ci porterebbe a comporre la parola “PROTAGONISM”. Protagonismo di un manager che si comporta come se l’azienda fosse propria e, forte del suo sapere e della sua determinazione, identifica delle soluzioni innovative. A completamento della riflessione, un manager di questo tipo, con il baricentro all’esterno, non cura più di tanto le sue persone. Adotta, invece, le categorie dell’autoorganizzazione, dando per scontato che i collaboratori si autogestiscano, probabilmente con l’obiettivo di avere le mani libere e la mente sgombra per occuparsi d’altro.

Parliamo di tutto questo con Sergio Bonalumi, General Manager, Managing Director at Bocchiotti e Gruppo Hager, Elio Borgonovi, Docente senior Università Bocconi e presidente di APAFORM, Luca Catellani, CEO di Lovemark SPA, Valerio Iossa, Direttore generale della Unità di missione per l’attuazione del PNRR presso il Dipartimento della Funzione pubblica, Angelo Tanese, Direttore Generale ASL Roma 1 e Vice Presidente FIASO (Federazione Italiana delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere).

Marco Minghetti. Il terzo fattore dell’Open Manager è il Pro Agonism. Questo manager è un PRO, cioè un professionista esperto che ha una conoscenza profonda della tecnologia e dei processi dell’organizzazione. La specializzazione sui temi tecnici/ verticali o sui temi manageriali/orizzontali è un dilemma classico di chi ha un ruolo di gestione. Negli ultimi anni si è molto lavorato specie nelle Business School per favorire un sapere più orizzontale e dunque diffondere la cultura manageriale. Quale impatto potrebbe avere la crescente importanza della dimensione tecnologica e di processo sull’identità del manager del futuro?

Elio Borgonovi. Il futuro richiede anche ai manager di superare le contrapposizioni che hanno caratterizzato la cultura del passato. In questo senso il dilemma tra specializzazione verticale e sviluppo orizzontale delle conoscenze deve essere rivisitato evidenziandone la tensione positiva. Ciò significa che il manager dovrà avere conoscenze sempre più approfondite sul tipo di attività che caratterizza la propria impresa, sulle tecnologie, sui processi, ma al tempo stesso dovrà essere in grado di diventare ponte tra gli “specialisti”.

Dovrà avere competenze tecniche abbastanza approfondite e comunque sufficienti per poter valutare l’impatto sull’azienda derivanti dalle soluzioni proposte dagli specialisti. In altre parole non deve diventare “vittima” delle nuove tecnocrazie. Al tempo stesso dovrà avere la capacità di capire le interdipendenze per garantire un orientamento unitario dell’azienda.

Dovrà avere una sufficiente conoscenza di tipo specialistica per poter scegliere i propri collaboratori, ma dovrà avere competenze orizzontali per farli lavorare in team. Dovrà avere competenze di tipo verticale sufficienti per capire cosa e a chi delegare, ma dovrà avere anche competenze orizzontali per poter valutare i risultati complessivi e per superare la logica dei silos. Le competenze orizzontali saranno sempre più rilevanti per gestire al meglio le naturali “tensioni” organizzative che nascono tra le diverse funzioni. Infine si può dire che un certo livello di competenze verticali riguardanti il proprio business sono necessarie per analizzare e scegliere il tipo di innovazione in grado di generare opportunità per la propria azienda, dall’innovazione che non genera valore aggiunto o genera un valore aggiunto limitato rispetto all’investimento.

Luca Catellani. Penso che la dimensione tecnologica sia un tema fondamentale e, al contempo, sfidante per il manager del futuro. Oggi viviamo in un contesto in cui non si è ancora intuita a pieno la necessità di dover lavorare su più piani dal punto di vista manageriale. Spesso il manager ha un background molto verticale su un ambito specifico mentre, nella mia esperienza, ho osservato come ci stiamo muovendo verso un modello sempre più ibrido, nel quale sono necessarie competenze trasversali e in cui la componente tecnologica diventa un elemento fondante del know-how. In questo senso, parlerei proprio di matrimonio fra la dimensione tecnologica e le competenze specifiche del manager, rispetto al ruolo che esercita all’interno dell’azienda. Questo poi, è un tema trasversale, che non interessa solo il manager, ma tutte le risorse che il manager stesso dovrà gestire.

Oggi, quando entro in un’azienda, misuro anche l’evoluzione e le competenze tecnologiche delle persone con le quali vado ad interagire. Questo perché il modello che propongo loro è un modello che include un benchmark di riferimento nel contesto nel quale sto lavorando. Se mi interfaccio con un interlocutore che ha una competenza digitale di base, dovrò proporre un modello di sviluppo sul marketing digitale che parta da questa, per poter essere in linea con una crescita per step.

Tale modello ibrido è davvero un modello nuovo e trasversale, perché anche chi è all’interno di un ufficio marketing deve avere una conoscenza sì di marketing, ma al contempo anche tecnologica. Ciò implica che è necessario conoscere i software, pur non avendo il tecnicismo di chi riesce a governarli. Magari si potrà avere un programmatore, una figura tecnica che aiuterà, ma è necessario avere la capacità di poter governare lo strumento, in modo da poterlo interpretare in funzione dei propri obiettivi. L’Open Manager del futuro deve “mettere le mani in pasta”, anche dal punto di vista tecnologico, altrimenti il rischio è quello di avere una visione parziale degli strumenti e dei processi. Se, invece, si conoscono le caratteristiche di un determinato software, sarà possibile governare meglio anche la capacità di chi, poi, tecnicamente accede, estrapola i dati e customizza un pannello in funzione degli obiettivi che sono stati definiti. Finché non si approfondiscono le caratteristiche di un determinato software non è possibile nemmeno cogliere cosa quella tecnologia è potenzialmente in grado di fare. Si tratta di un passo nuovo, che non tutti forse sono pronti a fare ma che, sicuramente, va nella direzione del futuro.

Ecco perché l’Open Manager deve avere la capacità di valutare, di fare un benchmark fra più tecnologie, di ascoltare quali strumenti propongono i fornitori ma, soprattutto, di essere un driver dell’innovazione tecnologica.

Angelo Tanese. L’impatto della dimensione tecnologica oggi può essere significativo e rilevante in una maniera diversa rispetto a come lo abbiamo vissuto negli ultimi decenni.

Io non ho vissuto professionalmente gli anni ’70, quando la rivoluzione informatica cambiò l’organizzazione del lavoro, ma ho letto molto di quello che in quegli anni avvenne. Credo che probabilmente stiamo conoscendo una fase di ulteriore progresso, in cui diventa impossibile pensare l’organizzazione a prescindere da una dimensione tecnologica molto forte, che ha nuove prospettive.

Detto questo, sono dell’idea che sempre di più il manager abbia bisogno di un’identità fortemente orizzontale: proprio perché è necessario conoscere le possibilità, le potenzialità legate alle tecnologie, il manager non può rischiare di non “transitare digitalmente”, cioè di rimanere indietro nella conoscenza di nuovi linguaggi, nuove logiche sottese alla tecnologia, non soltanto come fattore abilitante, ma proprio come elemento che rivoluziona il modo di pensare i processi organizzativi. Se guardo al modo in cui sto approcciando questo fenomeno, osservo che c’è una maggiore cura nella selezione delle competenze che oggi diventano importanti all’interno dell’organizzazione. La specializzazione è quindi fondamentale, ma considero ancora di più il ruolo del manager nella capacità di avvalersi di nuove competenze in modo orizzontale, non tanto quello di diventare lui stesso più specializzato verticalmente. Quindi, dal momento che la tecnologia apre alla possibilità di ampliare le competenze e le possibilità di intervento dell’azienda su nuovi terreni di sperimentazione sinora in buona parte inesplorati, il compito del manager è proprio quello di spingere l’organizzazione su quei terreni. Non è necessariamente quello che materialmente “scava”, ma deve comunque saperci  andare. Avere visione, capacità di connettere tra di loro ambiti apparentemente molto lontani, diventa fondamentale. Per essere più esplicito, nell’ambito sanitario ci sono sia tecnologie che consentono di specializzare l’ambito delle cure, dell’assistenza, della personalizzazione, ma anche competenze specialistiche che assumono un ruolo centrale dal punto di vista strettamente tecnologico, come l’ingegnere gestionale, l’esperto di logistica, l’ingegnere clinico. Queste figure 20-30 anni fa non esistevano nelle aziende sanitarie. Più si specializzano le competenze, più c’è bisogno di integrarle all’interno di percorsi di cambiamento e di innovazione complessivi.

L’identità del manager del futuro è un’identità che si basa sulla costruzione del contesto all’interno del quale lasciare che gli esperti lavorino in un clima di collaborazione e scambio. È un manager che accetta la complessità, senza volerla ridurre. Da qui questo modello, con il termine “Open”, mi sembra colga bene l’elemento centrale. Essere aperto per me significa accettare che ci siano cose che non so, che non conosco, che non avevo previsto e che, quindi, non posso nemmeno programmare del tutto. Tuttavia, nel momento in cui sono capace di creare un contesto proattivo, riesco ad intercettare nuove potenzialità, quindi non perché sono esperto di quella cosa specifica, ma perché fiuto che c’è un terreno sul quale è possibile andare ad esplorare nuove soluzioni.

Penso al tema della transizione ecologica, oltre che a quella digitale. Siamo davanti alla possibilità di ripensare il modo di concepire gli investimenti, anche in termini di sostenibilità, che ha a che fare però con la complessità dei contesti in cui operiamo Oggi vedo molti rischi di equivoco, di semplificazione, perché chi opera in settori di punta dal punto di vista tecnologico cerca (dal suo punto di vista giustamente) di dire: “questa è la soluzione”, che si tratti di telemedicina o di energie rinnovabili. Le tecnologie tendono a proporsi spesso come soluzioni, mentre il manager dovrebbe diffidare delle soluzioni semplici senza essere sordo o lento nell’accogliere la possibilità che le cose che fino a ieri ha fatto in un certo modo possono essere fatte in maniera diversa. Insomma, bisogna essere molto rapidi, senza mai pensare che una tecnologia sia di per sé “La Soluzione” a un problema.

Valerio Iossa. Anch’io vedo questo tema in una dimensione evolutiva. La conoscenza tecnica, che non vuol dire la conoscenza del singolo processo, ma la conoscenza organizzativa nell’ambito di dominio della propria responsabilità o della propria organizzazione, è un asset qualificante per tutta la tua carriera e che si sviluppa nel percorso di formazione professionale. Questo avviene normalmente in un primo ciclo della tua vita professionale, dove puoi maturare e sviluppare conoscenze di contesto, organizzative, di processo. Il passaggio a ruoli di maggiore responsabilità, il passaggio da un ruolo di specialista a un ruolo di manager, ti porta fatalmente a dover sviluppare altre competenze e conoscenze, molto diverse da quelle di dominio, e che sono la prerogativa nell’esercizio della nuova funzione.

Trovo però molto importante che ci sia un’evoluzione di conoscenze e competenze che, consolidatesi in ambito specialistico, arrivino a dimensioni più trasversali. Se conosci quello di cui stai trattando, anche se te ne sei distaccato da un po’ di tempo, hai l’istinto, hai il fiuto e il colpo d’occhio che ti consente di curare qualità ed efficienza del processo. Quest’ultimo, poi, lo puoi governare utilizzando altre leve, che sono quelle della programmazione, del controllo, del coordinamento, dello sviluppo dei collaboratori, della visione strategica, tutto quello che diventa l’asset di un manager. Io pongo su una linea evolutiva competenze tecniche, specialistiche e competenze manageriali. Penso ci debba essere un percorso di crescita che ti porta da un’esperienza inizialmente orientata alla conoscenza della tua organizzazione o alla conoscenza dei processi, all’assunzione di ruoli di responsabilità, in cui ti stacchi dal processo, ma ne possiedi le chiavi di decriptazione. Quindi, secondo me, non ci può essere un tecnico che sia un manager, ma non ci può essere un manager che non abbia, quanto meno, un bagaglio di conoscenze anche tecniche, magari non più agite, ma che ti lasciano il “fiuto”. Io mi sono sempre accreditato nelle strutture in cui sono entrato proprio per l’aspetto della competenza professionale ed è sempre stato veicolo di grande riconoscimento.

Per quanto riguarda la dimensione tecnologica, credo che questa sia un’amplificazione della dimensione manageriale. Se a livello tecnologico, attraverso un’informatizzazione dei processi, risolvo l’aspetto del presidio della quotidianità, dell’ordinario, quindi metto tutto sotto controllo, metto sotto flusso informatizzato il processo, allora avrò molto più tempo e molto più spazio per ripensare il processo, ripensare il servizio e fare quello che nel Pro Agonism è un elemento distintivo: avere tempo, modo e spazio di mettere fuori il naso, per cercare le migliori prassi e le migliori esperienze. In poche parole, la dimensione tecnologica è una dimensione che standardizzando la gestione ordinaria dei processi e delle attività, libera spazi, energie e tempo per l’esercizio delle leve manageriali, per la proattività, il protagonismo, l’imprenditorialità del manager e in definitiva per l’innovazione. Quando il mio tempo è assorbito dal presidio della struttura è evidente che questo non è utilizzabile per fare fino in fondo innovazione, per fare fino in fondo sviluppo.

L’Intelligenza Artificiale, poi, è un fattore che può consentirti di fare economia di tempo. Fino ad oggi l’informatizzazione è sempre stata vissuta con un orientamento all’efficienza e alla riduzione dei costi. Io penso che l’IA e in generale le nuove tecnologie siano un fattore per liberare energie della tua forza lavoro, che potranno essere investite su aspetti più qualificanti. Banalmente, nella gestione di una procedura concorsuale, il 40% del tempo viene assorbito dalla valutazione dei curricula dei candidati. Se ho un sistema di IA che effettua, attraverso degli algoritmi, una discreta pre-selezione, prima dell’intervento umano, io posso liberare tempo per pensare alla qualità del mio processo selettivo a monte, nella fase di progettazione della selezione o a valle nella fase di valutazione del candidato.

Sergio Bonalumi. La capacità fondamentale è quella di arrivare velocemente ad una sintesi accurata:  saper cogliere i principi fondamentali (es. di un processo o dell’impatto sul modello di business di una nuova tecnologia), in modo preciso, ovvero già con l’identificazione di un primo livello di priorità.

Bisogna evitare l’errore di appassionarsi ai dettagli, mantenendo sempre una visione olistica (sul business e sull’organizzazione).  Ci sarà sempre modo di trovare lo specialista in grado di fornire la soluzione operativa adeguata per un processo o per una nuova tecnologia; ma per interagire e valutare questo specialista, e il contributo che può portare, serve sempre una visione d’insieme. Credo quindi, per rispondere alla domanda, che un manager tendenzialmente Open sia già in grado di affrontare con il giusto approccio il fenomeno citato.

Marco Minghetti. Il concetto di AGONISM rimanda ad una propensione di questo manager ad affrontare in modo deciso, diremmo “robusto”, le relazioni critiche che ostacolano il raggiungimento degli obiettivi. Eppure, nello scenario pandemico e post pandemico è andata crescendo l’attenzione verso il tema della “gentilezza” in azienda, della “leadership gentile” come modello che include, è empatico, esprime vicinanza ai collaboratori. Quanto sono conciliabili queste due dimensioni? Quale scenario prevarrà in futuro?

Angelo Tanese. Tendenzialmente sono necessarie entrambe le capacità. Dobbiamo essere molto determinati e forti, perché altrimenti quell’apparente debolezza può diventare una delegittimazione. D’altra parte, il tema della gentilezza in azienda interpreta oggi un’esigenza reale, quella di garantire il raggiungimento degli obiettivi senza forzare, non andando contro qualcosa, ma in primo luogo con le persone.

Ci troviamo davanti a organizzazioni che sono diventate necessariamente più duttili: Il Covid-19 ha obbligato a superare di slancio diverse resistenze e, come spesso succede quando qualcosa si flette, arrivati ad un certo punto si scopre che ha un margine di flessibilità superiore a quello iniziale. Allora, rispetto a questa duttilità, legata anche alla necessità di doversi adattare a situazione impreviste, credo che un comportamento più “gentile” interpreti un bisogno di sicurezza e di rassicurazione che emerge nelle persone in una condizione di maggiore incertezza. Il leader genera sempre stress, perché ad un certo punto deve poter dire: “dobbiamo fare queste cose e le dobbiamo fare adesso, le dobbiamo fare in questo modo”. In tale scenario, in cui si è “costretti” ad affrontare l’incertezza e continui cambiamenti, si rende necessario anche riconoscere questo stress delle persone, rassicurarle, riconoscere il fatto che tutto questo che si chiede loro è faticoso.

L’ho vissuto sulla mia pelle in questi 2 anni di emergenza. Ho sottoposto l’organizzazione a situazioni estremamente faticose, per il singolo, per i gruppi, nella consapevolezza che non potevamo non farlo, ma anche con la cura e l’attenzione di riconoscere alle persone che stavamo soffrendo. Che questa transizione sia dura, faticosa, glielo devi in qualche modo riconoscere, così come devi potergli dire “anche per me lo è”. Quindi, il leader è gentile non in una maniera quasi paternalistica, ma anche verso sé stesso. È importante che fra di noi ci diciamo quanto siamo bravi, ma anche a volte quanto siamo in difficoltà, o quanto siamo stati capaci di affrontare situazioni estremamente critiche. La gentilezza può diventare determinante nella costruzione della comunità, che in ambito aziendale riacquista un significato vero in termini di mettere insieme e provare a stare dalla stessa parte. Il leader gentile è il leader che, senza perdere l’autorevolezza, la posizione, il ruolo, il potere che ha di decidere cose, senza delegittimare la sua fonte di potere, sa portare le persone dalla stessa parte, sa ridurre le distanze.

La gentilezza è come la fiducia: quella che si dà poi la si riceve. Dal mio punto di vista, essere gentile significa anche poter consentire agli altri di esserlo nei tuoi confronti. Sempre, però, con quella consapevolezza e distanza che il manager deve mantenere, non tanto in termini di controllo, quanto in termini di capacità di leggere le dinamiche dell’organizzazione. Un leader che vuole fare l’amico di tutti è un leader che perde consenso. Non deve compiacere, ma comprendere e costruire quella comunità in cui non si è tutti uguali, ma si sta facendo la stessa strada insieme. E in quella strada ci può essere qualcuno che cade, qualcuno che va più veloce, qualcuno che va più lento. In alcuni momenti ti devi fermare, cercare di capire perché un collega è caduto, riconoscergli che, anche se è un po’ più lento degli altri, è comunque una risorsa importante e che ha fatto un ottimo lavoro.

Valerio Iossa. Il mio paradigma manageriale è situazionale. Seguendo la saggezza dei proverbi: “se sei martello batti, se sei incudine statti”. In realtà questa è una semplificazione, io sono molto più vicino ad un modello di leadership gentile, nel senso che credo sempre che la qualità del rapporto con i collaboratori, l’inclusione, l’approccio anche generativo alle scelte, sia un fattore di coesione e di spinta delle organizzazioni. Personalmente, lavoro molto meglio e sono molto più performante con capi che hanno nei miei confronti un approccio inclusivo, piuttosto che autoritario. Detto ciò, però, se noi cerchiamo di leggere questo paradigma verso la promozione del cambiamento c’è da aggiungere questo: ci sono dei contesti in cui, quando tu sei incudine, il cambiamento ti richiede necessariamente di costruire delle alleanze professionali, perché è l’unico modo per superare delle resistenze che altrimenti non sono sostenibili con le tue sole forze. Diversamente, quando il cambiamento è necessario, quando è necessario fare il salto e hai l’autorevolezza per poterlo imporre, senza per questo sottrarsi ad un momento di discussione e ascolto, ad un certo punto la linea è quella di imporre fermezza: si va avanti, si gestisce il momento di caos, di conflitto che quella scelta determina, poi normalmente, nella mia esperienza, tutto si ricompone e riparti dal gradino più alto. In definitiva, il mio stile manageriale è molto vicino ad una leadership gentile, una leadership inclusiva, ad un modello di condivisione di scelte e di responsabilità.

C’è da dire, poi, che le organizzazioni non devono essere sempre in equilibrio, ma tornare in equilibrio. Nel primo caso, essere sempre in equilibrio significherebbe avere paura di un’evoluzione, di un disequilibrio, del cambiamento. Le organizzazioni devono, invece, ritornare ad un equilibrio, dove il punto di equilibrio è il punto di riconciliazione, il punto in cui torna il clima coeso, positivo. Non si deve avere l’ossessione di mantenerlo sempre, perché questa è la maggiore resistenza che posso opporre al cambiamento. Tuttavia, devo sempre avere cura di far ritornare l’equilibrio dopo la rottura.

Elio Borgonovi. L’aumento della complessità delle aziende richiede di elaborare una visione chiara e una strategia coerente. In questo senso il manager deve dimostrare la capacità di far convergere e di amalgamare in una visione unitaria i vari stimoli che vengono dai vari livelli organizzativi. Costruire una strategia che valorizzi le diversità richiede innanzitutto di comprenderle e valorizzarle. Gestire le diversità richiede di essere decisi perché molte volte esistono resistenze di vario tipo al cambiamento. A parole molti si dichiarano favorevoli al riconoscimento delle diversità, ma nel concreto si manifestano vari ostacoli.

Vi sono ostacoli di tipo psicologico poiché le persone temono di uscire dalla propria comfort zone. Altri ostacoli sono di tipo culturale e prevalgono nei Paesi e nelle realtà che storicamente o per collocazione geografica sono state o sono meno esposte a flussi di mobilità. Infine vi sono ostacoli collegati ai ruoli e al potere organizzativo acquisito. Per superare questi ed altri ostacoli è necessario essere decisi, ma non è più possibile usare il modello di comando e controllo. Occorre quella che viene definita la “spinta gentile” che si basa su questi fattori:

  • rispetto delle persone in quanto tali
  • capacità di ascolto
  • comprensione degli ostacoli che si frappongono al cambiamento e all’innovazione
  • individuazione dei fattori motivanti che possono favorire il cambiamento
  • accompagnamento e rassicurazione rispetto ai rischi connessi al cambiamento

Personalmente ritengo che essere gentili non vuol dire essere deboli e cercare di dare ragione a tutti, spesso solo a parole. Essere gentili non vuol dire essere allegri e dispensare sorrisi ed elogi a tutti. Vuol dire invece stabilire relazioni di mutuo rispetto, non far pesare i ruoli organizzativi, accettare il confronto e avere la capacità di convincere e non di imporre.

Sergio Bonalumi. Anche io non vedo una contrapposizione così forte fra “robusto” e “gentile”.  Imporre scelte o decisioni non è mai una modalità efficace in un’organizzazione complessa.   Le persone vanno coinvolte e convinte, processo che peraltro aiuta a selezionare le persone più adatte, a motivarle e responsabilizzarle, oltre che a raccogliere importanti contributi.  Quello che cambia è il senso di urgenza, la dimensione temporale: il mondo corre veloce e tutta l’organizzazione deve essere allineata su una linea temporale comune.

Luca Catellani. Come risulta evidente dagli interventi di chi mi ha preceduto, stiamo parlando di  un tema complesso, perché, in realtà, è una sfida quotidiana per cercare un equilibrio tra due poli opposti: uno più normativo e uno più empatico, e ogni giorno ci sono le occasioni per trovarsi su entrambi i versanti. Questa, in particolare, è una mia grande sfida, perché ognuno ha un’identità più gentile o più normativa ma, in qualche modo, deve riuscire a colmare questo gap, attraverso una serie di strumenti che possono aiutare ad andare nella direzione che non è parte della propria natura. Il rischio che vedo, altrimenti, è quello di rimanere fuori dallo scenario attuale che, di fatto, necessita di entrambi i poli.

Se pensiamo oggi al rapporto con le risorse e con le persone in azienda, ci immaginiamo un contesto dinamico, virtuoso, bottom-up, nel quale ci si aspetta che il proprio team risolva le criticità, decida come agire, come rispondere alle esigenze del cliente e del mercato. La soluzione, quindi, non può che essere una: la squadra, la capacità di lavorare in un team. Se non si adotta un approccio di squadra che valorizza le risorse, la squadra per sua natura non c’è. Noi oggi vinciamo se riusciamo a lavorare per costruire delle squadre che abbiano al proprio interno rapporti virtuosi, basati sulla fiducia.

Una volta c’era la tendenza allo scaricabarile all’interno dei team. Questa logica oggi non può più funzionare, perché dobbiamo lavorare come una squadra e avere la capacità di colmare eventuali limiti ed errori di una risorsa. Tutti facciamo errori, tutti siamo sulla stessa barca. Questo è un tema fondamentale per me, perché nel momento in cui creo delle squadre forti, virtuose, queste possono dare vita a dinamiche positive, quindi innovazione, nuovi prodotti, servizi. C’è uno spirito di crescita che si riflette sui progetti.

Per far sì che le mie persone lavorino come una squadra, la cultura aziendale è fondamentale. È la cultura il motore della crescita. Questo è un aspetto sul quale noi oggi stiamo lavorando tanto e che ci premia. Oggi si cercano circa 5 milioni di programmatori in Europa e se ne formano solamente 1 milione. Se come azienda vuoi mantenere il programmatore che hai assunto o crei un contesto di questo tipo, dove il tema della gentilezza e del virtuosismo collaborativo è un mantra, o le persone vanno da un’altra parte e non hanno alcuna difficoltà a farlo.

Marco Minghetti. Il manager descritto da questo fattore si distingue per la sua extra-versione. Ovvero il suo baricentro è prevalentemente esposto all’esterno dell’azienda nella prospettiva della ricerca di nuove opportunità e connessioni utili per l’azienda. Per tale motivo questo manager tende a dare per scontato che il suo team si auto organizzi, ponendo in secondo piano le dimensioni di cura e di sviluppo delle persone. Che vantaggi o svantaggi avverte da questa prospettiva? Quali risultati produce nel lungo periodo?

Elio Borgonovi. Innanzitutto voglio sottolineare che in un’azienda nulla deve essere dato per scontato. Quindi anche il manager con questo orientamento verso l’esterno deve aver adottato all’interno un modello di direzione basato sul decentramento e l’empowerment. Solo manager che hanno saputo valorizzare, motivare e formare collaboratori disposti ad accettare responsabilità possono investire le proprie energie sulle relazioni esterne e sui rapporti con i molti stakeholder che costituiscono l’ambiente socio-economico.

Le due dimensioni non sono peraltro in alternativa quando si consideri che solo chi riesce a definire un chiaro posizionamento della propria azienda in un ambiente turbolento ed incerto è in grado di favorire una organizzazione nella quale prevalgono persone responsabili nei confronti dei risultati. Per rendere sinergiche le due dimensioni il manager deve essere guidato da un pensiero che considera la complessità come una condizione nella quale occorre decidere. Un pensiero molto diverso da quello razionale analogico basato su relazioni causa-effetto e retroazione.

La complessità può essere affrontata solo da chi ha un pensiero “sistemico” che gli consente di cogliere le dinamiche interne ed esterne. La combinazione di pensiero complesso e sistemico consente anche di avere un pensiero strategico innovativo che significa definire in un ambiente la cui evoluzione non è nota, gli obiettivi qualificanti dell’impresa.

Il combinato disposto di una visione prospettica, di una strategia che tenga conto del DNA dell’azienda (che viene dal passato), di obiettivi motivanti in termini di “senso” di identità e di appartenenza possono favorire una auto-organizzazione sinergica e non dispersiva. Si può dire che l’agonism del manager si gioca sia in termini di competizione e collaborazione con altri soggetti esterni, sia in termini di obiettivi sfidanti per i propri collaboratori.

Luca Catellani. Noi, da questo punto di vista, ci siamo immaginati un modello a loop, una sorta di cerchio virtuoso, in cui prevediamo una partenza, momenti di delega, di autonomia delle nostre persone secondo una logica bottom-up, momenti di verifica e un’analisi finale dei risultati. Abbiamo tantissimi consulenti che gravitano intorno alla nostra azienda e che ci forniscono quelle skill, quelle visioni e strumenti che ci possono essere utili per organizzare questo cerchio. Si tratta di un percorso aperto, che costruiamo giorno dopo giorno assieme alle nostre persone, che vengono coinvolte in una dinamica di vero e proprio storytelling interno.

Valerio Iossa. Penso che sia un grande errore dare per scontato le persone, che non vuol dire incombere e precludere spazio e esercizio di autonomia. Però, dare per scontato che si organizzino secondo me è un errore gravissimo, rischia di far passare un segnale di distanza e abbandono.

Assolutamente fondamentale l’orientamento verso l’esterno, perché quando guardi sempre la stessa scrivania neanche sai più che cosa c’è sopra. Guardare fuori ti incuriosisce sempre, ti permette di trarre nuove idee, trarre nuove suggestioni. Però una proiezione sistematicamente esterna del manager si traduce, secondo me, in un atteggiamento di trascuratezza verso l’organizzazione che è, invece, il tuo fattore di successo. Se ti allontani dalla tua organizzazione, ti allontani dalle tue persone, da coloro che fanno l’organizzazione. Dando per scontato che facciano il proprio meglio, stai omettendo di riconoscere alle persone il loro merito e corri il rischio di non presidiare uno degli elementi fondamentali di performance di un’organizzazione. Io avverto, quindi, il rischio di questa dimensione.

Sergio Bonalumi. Capisco quello che dici; tuttavia, costruire l’autonomia del proprio team genera una serie di vantaggi, fra cui quello fondamentale di potersi, almeno parzialmente, distaccare dall’operatività.  Questo è un requisito fondamentale per liberare la mente, pensare e mantenere, appunto una visione olistica. Nel lungo periodo permette di poter sempre giocare d’anticipo, avendo elaborato sempre più scenari.

Inoltre, autonomia del team significa liberare le potenzialità presenti, o in altri termini facilitare il clima interno ideale per l’evoluzione dell’organizzazione e l’identificazione di nuove leadership.

Ci sono sicuramente dei rischi, il principale è quello di rimanere, o apparire, troppo distaccato. Ma il rischio è ampiamente compensato dal continuo apprendimento che deriva dalla curiosità e dal confronto con l’esterno, e dalla positiva introduzione di questi stimoli nell’organizzazione.

Angelo Tanese. Secondo me le due cose sono collegate, ma i rapporti di causa-effetto a volte sono inversi o reciproci. La possibilità di dare per scontato che il team si auto-organizzi si acquisisce con il tempo, quando il team l’hai formato. In genere, all’inizio di un mandato si preferisce non essere troppo rivolti verso l’esterno, perché prima ti devi occupare di casa tua, devi costruire all’interno le condizioni per poterti fidare. Oggi nella mia azienda sono molto più orientato all’esterno, molto più in grado di non preoccuparmi di questioni dove so che c’è qualcuno che già lo fa. Quindi, sono passato dalla fase in cui dovevo occuparmi direttamente io di certe questioni o comunque portare le persone a farlo, alla fase in cui dovevo solo verificare che qualcuno se ne occupasse e, infine, alla fase attuale in cui do per scontato che qualcuno lo faccia e ne ho continua conferma.

Essere progressivamente più orientati verso l’esterno produce vantaggi per l’organizzazione, perché ci si può occupare di questioni strategiche, di sviluppo, di opportunità e coltivare, quindi, le relazioni e gli scambi. Dall’altra parte, tuttavia, l’organizzazione ne risente, perché è come dire: “adesso siete svezzati, andate da soli!” Quando avviene, si tratta di un processo irreversibile: quando ad un certo punto l’organizzazione dà per scontato che le persone facciano da sole, se vuoi tornare indietro sbagli, non è una via più praticabile. È come avere un figlio che cresce, che esce di casa, magari ci sarà un momento in cui ti dovrai rioccupare di lui e accarezzarlo come quando aveva 5 anni, ma ormai ha iniziato la sua strada altrove, ed è giusto così. Bisogna che ci sia un percorso ben costruito prima di arrivare a permettere alle persone di auto-organizzarsi.

Marco Minghetti. In sintesi, la dimensione del Pro Agonism riconduce ad un tema molto noto nel management, ma anche nell’impresa contemporanea: la richiesta di imprenditorialità diffusa. Si chiede imprenditorialità diffusa perché vi è sempre più necessità di un approccio proattivo nel prevenire e gestire l’incertezza, che produce pericoli, ma anche opportunità nell’organizzazione. Tale richiesta si estende a volte ai livelli più operativi dell’azienda a cui si chiedono comportamenti orientati al rischio e alla sperimentazione. Nella sua opinione quali sono le condizioni per la quali la richiesta di imprenditorialità diventa sostenibile a tutti i livelli (condivisione degli utili dell’impresa, possibilità di auto determinare il contenuto del ruolo, di gestione del proprio tempo di lavoro, sistemi evoluti di performance management bottom up)? 

Elio Borgonovi. Qui occorre un chiarimento terminologico. Con riguardo al futuro, spesso le teorie di management hanno usato termini quali pre-vedere, pre-dire, pre-venire. Tutti termini che in qualche modo richiamano la possibilità di comprendere in anticipo elementi del futuro. Pre-vedere inteso come “vedere” prima di altri elementi del futuro come condizione per assumere il rischio. Pre-dire inteso come risultato di complessi sistemi di simulazione che consentano di formulare i vari scenari e di scegliere in modo razionale il migliore. Pre-venire spesso inteso come capacità di fare mosse e anticipare decisioni in grado di determinare un migliore posizionamento competitivo per la propria azienda.

Paradossalmente, questi termini hanno in un certo senso determinato la perdita delle capacità imprenditoriali. Infatti l’uso di strumenti sempre più sofisticati per prevedere, predire, prevenire hanno contribuito a diffondere l’idea che l’incertezza del futuro potesse in qualche modo essere dominata e controllata. Perciò si è perso dell’imprenditorialità soprattutto l’elemento del rischio, mentre è stata considerata più importante la componente di combinazione efficiente dei fattori produttivi, ossia il contenuto del management razionale. L’avvento dell’economia della rete, del digitale, delle emergenze di vario tipo (dalla crisi economico-finanziaria e dei debiti sovrani scoppiata nel 2007-2008, a Covid 19, alla guerra in Ucraina, all’economia delle sanzioni della guerra energetica) hanno rimesso al centro dell’attenzione il fattore “rischio”. Un fattore che riguarda non solo la sopravvivenza delle imprese a causa di “disruptive innovation”, ma che riguarda anche i lavori che diventano obsoleti in pochi anni.

Ma come noto le condizioni di rischio significano anche condizioni di opportunità in quanto difronte a imprese che muoiono altre nascono e si sviluppano rapidamente (si pensi alle grandi imprese dei social e delle piattaforme), difronte a lavori che muoiono si generano molti lavori, nuovi. In questo contesto è obsoleto anche il modello di imprenditore che si è formato nella seconda metà del diciannovesimo secolo, teorizzato da Schumpeter all’inizio del ventesimo secolo e che ha assunto varie forme nel ventesimo secolo. Oggi ognuno deve essere imprenditore di se stesso e della parte di ogni azienda che ricade nell’ambito delle sue responsabilità. Imprenditore è chi vive il presente preparandosi ad affrontare un futuro che sarà sicuramente diverso da ogni futuro che oggi possiamo prefigurare o immaginare. Essere imprenditore significa allenarsi ad essere attenti ai cambiamenti, preparati a cogliere i segnali deboli, agili e veloci nelle reazioni, resilienti difronte a shock ed eventi esterni.

Ciò vale per chi fonda startup, sviluppa aree di business all’interno di grandi imprese o gruppi multinazionali, gestisce la produzione, il marketing, la finanza e altre funzioni, esercita anche compiti e funzioni operative. Parlare di imprenditorialità diffusa significa in un certo senso anche avere una idea e contribuire a forme di democrazia sostanziale che va oltre i modelli di democrazia formale. Infatti quanto più diffusa è l’attitudine dell’orientamento imprenditoriale tanto più difendibili sono le libertà e l’autonomia di pensiero delle persone.

Angelo Tanese. Chiedere di fare di più o di agire con un maggiore coinvolgimento, incorporando la mission aziendale nei propri comportamenti, quindi in senso imprenditoriale, è una necessità su cui costruire un percorso. È il motivo per il quale, ad un certo punto, una persona dà qualcosa in  più, non è sciatta in ciò che fa, ci mette del suo, ad esempio resta oltre l’orario di lavoro, oppure trova il modo di risolvere un problema senza scaricarlo su altri. Per fare questo, bisogna mettere mano a una serie di leve, interne, tipicamente organizzative. Me ne viene in mente una su tutte, basata sulla mia esperienza di questi ultimi anni, quella di valorizzare le persone più esperte, senza farle sentire risorse che non hanno più nulla da dare. La loro proattività non è solo quantità di lavoro in più, ma anche qualità di ciò che si può chiedere loro, basandosi sul fatto che hanno l’esperienza per farlo. Il più delle volte ho osservato che funziona affiancare ai senior delle figure junior, fa bene ad entrambi.

Il ricambio generazionale è oggi un elemento fondamentale per promuovere la proattività, perché i giovani possono dare una forte spinta, possono sostenere le figure senior e guidarle ad avere un approccio diverso, ma senza creare una sorta di conflitto tra generazioni. Io senior riconosco che tu giovane sei una risorsa per me, come io lo sono per te. Un secondo elemento ha a che fare con lo sviluppo di buoni sistemi di performance management in grado di misurare non la routine, ma la capacità di cambiamento. Sistemi di performance management più evoluti sono sicuramente di aiuto.

Sergio Bonalumi. Le basi per questa sostenibilità (Imprenditorialità diffusa) sono da costruire sulla chiarezza degli obiettivi, sulla comunicazione interna (chiara e coerente), sulla cultura dell’errore (errore misurato e corretto come occasione di crescita, e quindi eliminazione della cultura della paura), sullo stile di leadership (aperto e inclusivo), su una visione olistica per cui il tutto (l’organizzazione) può e deve essere qualcosa di superiore alla somma delle singole parti e sulla flessibilità (intesa come capacità dell’organizzazione di adeguarsi velocemente, superando blocchi culturali legati a consolidate strutture organizzative).

Luca Catellani. Sono profondamente convinto che la governance dell’azienda debba essere più ampia, diffusa a un gruppo di risorse qualificate, particolarmente virtuose, fidate e legate all’azienda, con la possibilità di prendere parte a decisioni che diventano scelte condivise. La complessità che vediamo oggi è quella di dare una visione all’azienda: “cosa venderemo tra 10 anni?” Questa è una domanda che pongo sempre ai miei collaboratori.

Abbiamo un advisory board, un insieme di figure che ci aiuta a decidere quale direzione dare al timone e verso il quale abbiamo introdotto tutta una serie di riconoscimenti, sia economici che legati al welfare aziendale. Sugli altri colleghi c’è un sistema di performance management che incide sui servizi, sul welfare, buoni pasto, orario flessibile. Noi cerchiamo di incentivare l’incontro fisico frequente, almeno una volta a settimana, affinché le persone si vedano, si parlino, si mettano attorno ad un tavolo. In questo senso stiamo lavorando sul tema della cura delle persone, del loro riconoscimento e dei loro bisogni, di una comunità che pensa e si pensa.

Cambia talmente tanto il mercato che anche noi come azienda dobbiamo pensare a come cambiare, dobbiamo pensarci come organizzazione in continua evoluzione. Banalmente anche il ruolo dell’HR deve cambiare. Oggi abbiamo bisogno di un modello ibrido, nuovo, di un HR che abbia anche una competenza di marketing, altrimenti difficilmente riesce a creare un funnel e prendere decisioni. Oggi un responsabile HR ha le necessità di avere strumenti nuovi, di cui fino a ieri non aveva bisogno. Lo sviluppatore non è più lo sviluppatore di ieri, che doveva conoscere solo il linguaggio, ma deve avere conoscenze più ampie, deve conoscere più tecnologie. Quindi, questo melting continuo di competenze, questa nuova visione, cambia completamente il paradigma dei silos. Questo è proprio un tema aperto che riguarda anche le mie persone e quindi lo chiedo a loro, lo chiedo ai ragazzi, perché devono immaginarsi un’evoluzione, un futuro.

Valerio Iossa. Io penso che sia giusto, opportuno e doveroso chiedere alle persone di rischiare, sperimentare, perché la sperimentazione, che porta sempre con sé un rischio, è la precondizione di un cambiamento. La moneta che io posso dare in cambio è la condivisione della responsabilità o l’assunzione della responsabilità che deriva dalla sperimentazione e, quindi, dal rischio: “ti copro io.  Se questa scelta si rivelerà un fallimento, me ne assumo io la responsabilità, ma tu vai, vai libero e fai”. Nelle mie organizzazioni il fattore maggiormente frenante l’innovazione è l’assunzione di responsabilità e non trovo giusto che, a fronte di una committenza forte di cambiamento, si schiacci poi verso il basso la responsabilità. Alle mie persone devo chiedere un comportamento proattivo, imprenditoriale, e un’assunzione del rischio, mentre l’assunzione di responsabilità è mia, o quantomeno la condivido con loro. Se invece parliamo di imprenditorialità, intesa nel senso di assunzione di un atteggiamento propositivo, di occupazione di spazi di autonomia, trovo un bilanciamento in un sistema piuttosto rigoroso di controllo del risultato che il collaboratore produce nell’esercizio della sua autonomia e della sua imprenditorialità.

Verso le mie persone, per converso, io ho leve di incentivazione molto scarse. Non voglio parlare delle gratificazioni morali, perché ci devono essere, le do per scontate, ma sicuramente posso lavorare sulla conciliazione lavoro-vita privata. A me non interessa che le mie persone facciano le loro 7 ore e 12 minuti di lavoro. L’importante è che vadano, si muovano proattivamente, concilino le proprie esigenze come meglio credono, mentre io posso valutarli sul comportamento e sul risultato. In questo senso, trovo una grande occasione nel lavoro agile, ove ovviamente siano maturate le precondizioni organizzative per sostenere il lavoro da remoto.

L’immagine di copertina  è di  Silvia Castagnoli.