Eccoci arrivati al terzo appuntamento con la ricerca Open Mood, che ha identificato e descritto l’Open Manager. L’Open Manager è una figura che favorisce e sviluppa l’Innovazione Aperta in azienda. Adotta uno stile che coniuga due dimensioni. All’interno dell’azienda lavora in modo agile, facilita la trasparenza, la collaborazione, la sperimentazione e la leadership diffusa. All’esterno è pronto a cogliere opportunità, contribuisce al disegno di soluzioni innovative e si impegna per la loro implementazione in azienda. L’Open Manager favorisce la vitalità e la crescita armonica dell’Organizzazione.
La ricerca Open Mood ha messo a fuoco 5 fattori dell’Open Manager, intendendo per fattori un insieme originale di competenze, comportamenti e atteggiamenti che definiscono le caratteristiche del nuovo approccio manageriale. Oggi ragioniamo sul fattore Peer to Peer Leadership insieme a: Andrea Attanà, Growth LinkedIn Learning and Glint – Italy; Cristiano Boscato, Owner & EVP di Injenia; Paolo Bruttini, presidente Forma del tempo; Miriam Cresta CEO Junior Achievement Italia; Raffaele Sessa, Responsabile governance IT presso Coop Alleanza 3.0.
Minghetti: Una concezione evoluta della leadership che definiamo Peer to Peer si sviluppa nello spirito della Rete, dà particolare valore al contributo dei collaboratori, allo sviluppo delle loro potenzialità di crescita in azienda. Ciò comporta anche l’instaurarsi di relazioni tra pari rispettose, non basate sulla dominanza, ma sulla collaborazione e sull’attitudine a influenzare l’altro in modo “gentile”. Molte ricerche dimostrano che l’adozione di questa leadership “di servizio” rende i capi più performanti nel lungo periodo, perché i loro collaboratori sono in grado di crescere di più e meglio. Queste dimensioni sono anche collegate ad un positivo orientamento a valutare l’impatto delle proprie ed altrui decisioni.
Pensare ad un “leadership tra pari” introduce quindi in prima battuta il tema dell’orizzontalità nelle relazioni di potere, laddove solitamente queste sono caratterizzate da dinamiche top/down e bottom/up. In che misura a suo parere questa prospettiva è applicabile nel mondo contemporaneo, in quali situazioni e tra quali soggetti?
Bruttini: Pensare a relazioni orizzontali nei contesti economici ed organizzativi non è certo un tema nuovo. La rivoluzione dell’apprendimento attraverso i gruppi (i t group) portata in Italia dagli Stati Uniti tra i primi da Mirella Ducceschi negli anni ’60 e successivamente da Enzo Spaltro, Guido Contessa e altri Maestri come Trentini, Ancona, Fornari ha originato una cultura del tutto nuova. Negli anni ’60 e ’70 si sperimentava il gruppo come un dispositivo psicosociale in grado di generare il cambiamento, come diceva Enzo Spaltro “una cinghia di trasmissione tra il micro e il macro”. Le relazioni orizzontali all’insegna del codice dei fratelli, seguendo la lezione di Franco Fornari della fine degli anni ’70, si comprese che avevano una funzione potentemente trasformativa. Il gruppo è un contenitore della trasformazione individuale, ma anche uno strumento per il cambiamento delle organizzazioni e della società.
Quelle potenti concezioni mantengono intatta la loro validità, ma oggi vi è, in più, un cambiamento degli strumenti e delle modalità di stare in relazione. La rivoluzione tecnologica ha messo nelle nostre mani potenti strumenti di connessione e i social network ci hanno abituato a nuovi modi di comunicare. Questa abitudine alle connessioni sociali, stratificata ormai da più di un decennio, ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo di ragionare. L’essenza della Rete è la connessione da nodo a nodo. Si chiama relazione Peer to Peer, relazione tra pari. La lezione di Michael Bawuens e della P2P Foundation ha illustrato tra i primi proprio questa nuova prospettiva.
Ho cominciato ad occuparmi di questi temi del 2008 con il blog Leadelessorg per arrivare poi a scrivere il manifesto della Open Leadership nel 2014. Più ancora che della trasformazione tecnologica, ho sentito che mi dovevo occupare del cambiamento della concezione del potere, perché stavano emergendo nuove sensibilità nella società e dunque anche in azienda. Oggi quando parlo di questi temi nelle conferenze o nei corsi non registro più sguardi attoniti oppure silenzi imbarazzati. Piuttosto vi è molto interesse sul come fare queste cose concretamente. Ecco, vi è richiesta di buone pratiche.
Una cosa mi è abbastanza chiara. Che i modelli P2P non si applicano ovunque. Sono opportuni quando si sviluppa e si condivide la conoscenza, oppure quando bisogna risolvere i problemi dei clienti. Nel primo caso le comunità auto-organizzate che condividono la passione per una professione, trovano naturale scambiare le conoscenze. Sono in primo piano il desiderio spontaneo di fare le cose bene, la cultura di servizio, la generatività. Nel secondo caso i processi auto-organizzativi funzionano poiché si è più veloci, reattivi, responsabili e motivati a dare il meglio. Ma vi è un terzo contesto in cui i modelli P2P sono fondamentali: l’innovazione, in particolare l’innovazione aperta. Questo è proprio l’obiettivo della ricerca che abbiamo fatto con CIS e SFC e a cui questa serie di post su Aziende Invisibili è dedicata. Quando si tratta di innovare bisogna aprirsi, confrontarsi, scambiare e creare partnership con chi, per primo e meglio di noi, ha creato qualcosa di originale e innovativo e che rende l’impresa più competitiva. Rendere permeabili i confini dell’azienda e portare il cuore e il cervello in periferia. Questo mi sembra un elemento decisivo nel nuovo mondo.
Attanà: L’applicabilità del fattore P2P Leadership dipende, credo, quasi esclusivamente dalla cultura che muove l’azienda: occorrono contesti dove la relazione tra chi guida e chi è guidato è una relazione sana, che ha l’obiettivo di far crescere colui che viene guidato e di permettere a colui che guida di farlo sempre meglio. Ho trovato contesti in cui il manager è espressamente riconosciuto (sia a livello economico che sociale) quando le sue persone crescono. Se si vuole andare in questa direzione, quindi, è necessario creare momenti di sviluppo, in cui non dico solo al mio collaboratore cosa fare, ma pongo domande e cerco di capire quali sono i suoi bisogni. In questo scenario persone che lavorano bene e si trovano allo stesso livello non devono essere messe in competizione, generando da una parte uno scarso rendimento e dall’altro soddisfazione per l’insuccesso altrui.
Al contrario, bisogna mettere insieme le persone, per fare ancora meglio. In quanto manager, rivesto il ruolo di arbitro. Se lo faccio bene scompaio e di me si parla solo per sottolineare quante persone sto perdendo come manager, proprio perché le faccio crescere, evolvere, sviluppare. Capisco però, che questo non sia possibile in ogni contesto e lo vedo quando organizzo call con manager che parlano esclusivamente di numeri. È un po’ il tema che emerge quando parliamo dell’educazione dei nostri ragazzi, di quanto andrebbero annaffiati e nutriti come una pianta. Quando ti accorgi che questo metodo funziona, che non è solo una forma, allora lo fai tuo.
Secondo me, poi, ci sono due aspetti da considerare: o c’è l’azienda che crea attorno a sé la cultura, o è esattamente il contrario. Il tema di cui parliamo può funzionare solo nel secondo caso, in cui la cultura è talmente forte da creare intorno a sé l’azienda.
A questo proposito, vi porto un’analogia fra la cultura organizzativa e il profumo della casa. Il profumo di una casa non lo cambi. Quando vai a far visita alla nonna o allo zio che vedi poco spesso tu riconosci che quello è un profumo diverso da casa tua, è il profumo di quel posto e non puoi cambiarlo. Rientrando a casa poi, riconosci per un attimo anche il profumo di casa tua. Puoi mettere deodoranti per ambienti ma non puoi cambiarne il profumo. Parallelamente, se il top management non crede a questo tenderà a dare sempre più valore ad uno stile direttivo, top-down perché, in fondo, è quello che gli porta i numeri. Questo io lo vedo come un rischio.
Rimane il fatto che come collaboratore al manager delle cose gliele chiedo, non siamo pari, così come posso essere un padre può essere amico del figlio, ma rimane comunque suo padre. Io ho bisogno del mio capo e ho bisogno che faccia il capo. Se ci sono dei pezzi che mi sto perdendo ho bisogno che lui me lo faccia notare e che me lo dica da capo, magari mettendoci il peso della sua autorità quando occorre, per aiutarmi a capire quanto è rilevante quello di cui stiamo parlando. In questo senso, rifletterei sull’autorità tornando indietro al mondo dell’educazione. Ci sono culture, come quella olandese, in cui la relazione tra studente e maestro andrebbe davvero studiata, per comprendere quali dinamiche si creano. Se arrivi in azienda e provieni da un’esperienza scolastica in cui il professore sa tutto, non si mette in dubbio e continua a spiegarti le cose come fa da 40 anni è normale crearsi quell’idea di autorità.
Questo significa anche cambiare la cultura del potere. Ho concluso oggi un meeting con una persona che si occupa di sviluppo interno. Mi ha detto che fa fatica a convincere i suoi manager a prendere parte a training sulla gestione del conflitto, percorsi incentrati sulle soft skill. La loro direzione gli chiede dei numeri, per cui questo cambio di traiettoria lo fanno solo se sono costretti. Però, perché lei me lo dicesse in questi termini, occupandosi di direzione sviluppo, mi ha fatto capire che c’è un interesse a muoversi in questa direzione ed è fondamentale che le persone abbiano questo mindset. Mi è stato chiesto un aiuto in termini di strumenti a disposizione per accompagnare questo cambio di traiettoria, un cambio di traiettoria possibile nella misura in cui uno rischia e scommette di portare sul lavoro una modalità diversa di relazione.
Io non ho mai creduto nella suddivisione fra vita privata e professionale, trovo vada cercato più un equilibrio. In molti hanno lavorato per fare di sì di diventare Dr.Jekyll e Mr.Hyde, entrare in ufficio ed essere uno, uscire ed essere l’altro. Questa suddivisione ha iniziato a sparire quando abbiamo iniziato a lavorare nelle nostre cucine durante la Pandemia. Le persone hanno capito che separare personale e professionale non ha più senso.
Cresta: Lavoro da molti anni in un’organizzazione di volontariato internazionale impegnata ad assicurare un’istruzione di qualità. Le realtà del terzo settore – operando con un ruolo di intermediario tra mondo privato e pubblico – hanno al proprio interno una complessità di competenze e di linguaggi importante dovendo interloquire con pubblici molto differenti tra loro, definiti come stakeholder, cioè portatori d’interesse; tutti tesi a contribuire alla mission dell’associazione attraverso relazioni di “parità”, prevalentemente partenariati e reti.
Chi gestisce le risorse umane si trova per esempio a far convivere due diversi tipi di collaboratori: i dipendenti e i volontari, nei confronti dei quali è molto più funzionale la scelta di una leadership tra pari. Seppure le leve di “carriera” e di “sviluppo” siano differenti, non lo sono invece quelle di ingaggio, di condivisione delle modalità con cui raggiungere comuni obiettivi e di ridefinizione dei processi organizzativi grazie alla cultura dello spirito di collaborazione.
Sono a stretto contatto con team di giovani di talento che hanno appreso le logiche manageriali del terzo settore attraverso master universitari ed esperienze all’estero, oltre che vocati alla cooperazione, con l’ambizione di crescere professionalmente assicurando il massimo impatto verso i beneficiari destinatari dell’attività. Con questi collaboratori ho sempre operato in una logica di peer to peer anche nella definizione dei valori del team e nell’impostazione del framework del piano di attività annuale che definiamo insieme per quanto riguarda gli obiettivi delle singole aree nel corso di una settimana intensa di lavoro istituzionalizzata nel mese di luglio e che portiamo avanti con un’intensa attività dell’ITC Manager tesa a individuare tools altrettanto collaborativi e capaci di creare una comunicazione trasparente e il più possibile trasversale. L’integrazione con la strategia complessiva dell’associazione definita dal Board avviene con un processo collaborativo dove la cultura del feedback e del lavorare per obiettivi sono due elementi cardine dopo che, come CEO, ho assicurato un continuo dialogo tra queste due parti tesi a definire gli obiettivi all’interno di un processo graduale e che tiene conto della congruenza tra valori e azioni di queste due parti entrambe vitali dell’associazione. Ogni collaboratore in questo contesto ha spazi dati e circoscritti, ma con un margine di pro attività e di esercizio della propria leadership, oltre che la consapevolezza e responsabilità degli effetti del proprio agire individuale per gli esiti complessivi dell’organizzazione in cui lavora. Questa scelta organizzativa ci ha consentito di gestire con efficacia anche la fase più critica della gestione delle attività con la scuola italiana sin dalla prima fase del lockdown 2020.
Sessa: Il caso di Junior Achievement dimostra come la P2P Leadership sia applicabile ad un ampio spettro di realtà organizzative, perché fa riferimento al concetto che sono le differenze a generare energia. Il governo delle differenze, intese come diversità in competenze soft e hard, la loro gestione, la ricerca di un equilibrio nel coinvolgimento, nella condivisione di obiettivi e agende, consente di mettere a fattor comune le differenze di tutti e di mettere in moto una sorta di generatore di energie. È quello che vivo e cerco di vivere tutti i giorni. Partendo da questo presupposto, quando si parla di gestione, di ricerca e sviluppo, quando ci si mette attorno ad un tavolo per migliorare processi e procedure, la gestione delle differenze può offrire punti di vista che aiutano.
Se ti guardi intorno tutto è così, è lo sfruttamento delle differenze che genera le cose, dal magnetismo al funzionamento di una diga che raccoglie e contiene l’acqua grazie all’altezza e alla forza di gravità. Allora mi chiedo, perché il resto dovrebbe essere diverso? Perché nelle relazioni si deve andare nella direzione contraria alle leggi della fisica? Cerco di capire se l’Universo agisce secondo le stesse forze e parla le stesse lingue. Nella mia esperienza ho osservato che quando dai a tutti l’opportunità di mettersi allo stesso livello, di donarsi, allora è lì che nascono cose interessanti: dal miglioramento del processo di gestione degli ordini d’acquisto beni e servizi, fino alla progettazione del design della nuova app Scan & Go per fare la spesa in negozio. L’obiettivo è diverso, ma le forze che vengono messe in atto sono le stesse.
Questo è anche il presupposto per lo sviluppo dei sistemi eterarchici in azienda. Ma a una condizione: che la dimensione della P2P leadership sia pervasiva all’interno dell’azienda, e non applicata a macchia di leopardo. Io, nella mia area, posso approcciarmi al P2P, ma quando esco dal mio gruppo questo espone me e i colleghi a delle possibili frizioni, se non è un approccio condiviso nella cultura aziendale. Quando parliamo di fratellanza, di condivisione dell’agenda, automaticamente parliamo anche di opportunità di crescita: se faccio partecipare un mio collaboratore ad un processo decisionale, se gli faccio gestire in toto un progetto, questo vuol dire anche esporsi come capi perché nonostante la delega la responsabilità come capi rimane a noi. Ecco perché, se voglio far crescere i miei collaboratori e farli emergere, questo deve essere percepito in maniera chiara da tutto il resto dell’azienda. In caso contrario, si rischiano fraintendimenti e si viene percepiti come capi sotto una cattiva luce, boss al posto di leader, con la vertigine del mancato controllo (“non conosco bene il lavoro che ha fatto il mio collaboratore; oggi è in quella riunione in cui io non sono presente, chissà cosa sta dicendo”). Insomma: deve realizzarsi un’evoluzione culturale, passando dal micro al macro, in cui i soggetti concepiscono la propria azione come un tema di responsabilità diffusa.
Ho visto questa evoluzione sul lavoro negli ultimi anni: si è passati dal “cosa fai a lavoro” e cioè al mansionario a “cosa sei a lavoro”. Se consideriamo i nostri collaboratori, se li coinvolgiamo in processi decisionali e creativi, non pensiamo più tanto ad un fare, ma ad un essere. Si tratta di andare al lavoro e contribuire, darsi all’azienda. Allora questo passaggio ti dà entusiasmo, ti dà l’opportunità di raggiungere più in fretta gli obiettivi. Lo vedo nel mio gruppo, in cui siamo 8 persone, ma produciamo come se fossimo un gruppo di 15. Il tema organizzativo che si può sollevare è: se una persona si limita al cosa fa, può crescere all’infinito? Probabilmente no, se invece si ragiona sul il cosa è a lavoro, cosa prende e cosa dà, allora la crescita può andare sempre oltre e può essere slegata dal concetto della retribuzione. Non si parla necessariamente di carriera, ma dei bisogni di ognuno.
Anche se dai qualcosa in più, se l’azienda è etica, puoi essere ripagato in termini di opportunità, di visibilità e partecipazione. Io vedo nei miei collaboratori che la chiarezza degli obiettivi dell’agenda è fondamentale, non solo, ma anche il contesto da cui nasce. Questo è ciò che aumenta realmente il coinvolgimento, perché vengono condivise anche le riflessioni che ti hanno portato alla definizione degli obiettivi. In quel momento ti apri alla critica, nel senso buono del termine, ti apri alla possibilità di poter cambiare l’obiettivo e parte di esso. In questo senso, mettersi continuamente al pari dei collaboratori porta un’enorme e continua ricchezza. D’altro canto, rinunciare all’autorità in certi casi, dal punto di vista emotivo, conduce all’idea di essere sottoposto ad una sorta di giudizio ed espone al confronto continuo. Devi essere in grado di gestirla e metterti effettivamente in gioco, essere disposto a imparare e disimparare, a fare spazio.
Minghetti: In un articolo pubblicato su Harvard Business Review di febbraio, Paul Leiward sottolinea la necessità di sviluppare nuove forme di leadership collaborativa per “passare dalla competizione con i rivali alla cooperazione con i partner nell’ambito di reti ed ecosistemi, creando valore in modi che nessuna azienda può gestire da sola”. Per ottenere questo obiettivo, occorre “demolire i vecchi sistemi di credenze e definire nuove e più coraggiose proposte di valore”.
Boscato: Credo che si debba analizzare a fondo la parola leadership per poter ragionare compiutamente sul tema, altrimenti si rischia di fare confusione e di essere fuorvianti. L’accezione comune ci porta a identificare il leader con il ruolo del “capo”, inteso come il superiore gerarchico, responsabile esclusivo di scelte, visioni, mission e valori. Nelle aziende e nelle organizzazioni, è colui che imprime l’impronta specifica. Esiste poi una seconda tipologia di leadership che non viene calata gerarchicamente ma viene guadagnata sul campo e attribuita di fatto dal gruppo. Si tratta di una forma di leadership più fluida e dinamica poiché si basa sulle capacità espresse dalla specifica persona di volta in volta, in base al contesto e alle opportunità.
Pertanto, in una leadership sistemica, tra pari, il leader può essere di volta in volta diverso e potrebbe essere anche esterno all’azienda. Non è infatti colui che decide sempre, ma colui che emerge, in quel determinato frangente, per competenze, conoscenze, skill e capacità. E’ colui che è più competente a decidere per quello scopo. Parlerei quindi di leadership di scopo: si diventa leader, ad un certo momento, perché capaci di guidare il team nell’affrontare una specifica sfida, di prendere quelle decisioni, per poi tornare a essere “follower” di un altro leader.
Il punto chiave è che si tratta di una leadership che si basa sulle competenze, dove il livello di partenza è uguale per tutti, a patto che ognuno venga debitamente formato e sia in possesso dei dati necessari per decidere. Ognuno diventa responsabile sulla base del valore espresso nel percorso che porta l’intero team a raggiungere l’obiettivo. E ognuno non deve dimenticare che il risultato finale – la decisione – sarà sempre una somma delle competenze e dei contributi di tutti. Pensiamo, ad esempio, ad una squadra di basket in cui lo schema di gioco, la scelta delle risorse e il monitoraggio dei risultati vengono gestiti a monte dal presidente della squadra o dell’allenatore che ne sono i leader gerarchici. Sul campo, però, avremo anche altri leader, come il capitano della squadra, eletto solitamente grazie alle sue soft skills, o il leader d’attacco o di difesa. Tuttavia, nessuno di questi leader può portare da solo la vittoria senza la squadra intera che si passa la palla ed esegue gli schemi. Senza cioè le persone che decidono di condividere, di collaborare e di portare il proprio miglior contributo.
L’esistenza della leadership di scopo non elimina né depotenzia la leadership gerarchica che, al contrario, resta fondamentale e funzionale allo sviluppo del sistema più ampio di leadership tra pari. Il leader gerarchico ha, infatti, la responsabilità di mettere i collaboratori in condizione di diventare leader di scopo. Diventa primus inter pares, consapevole che il contesto in cui opera non ha più la forma di una piramide ma di una tavola rotonda a cui sedere insieme.
Chiarita questa differenza, possiamo concentrarci sulla possibilità che questa prospettiva sia applicabile ai contesti contemporanei. Si tratta evidentemente di un tema culturale, di forma mentis, e, come tutti i cambiamenti, richiede tempo e pazienza. Questa maturazione è già in atto, derivante dalle necessità di affrontare il business ma, allo stesso tempo, dall’entrata nel mercato del lavoro delle nuove generazioni, per le quali questo è l’approccio culturale di riferimento. Le generazioni in entrata nel mondo del lavoro adottano naturalmente o sono addirittura cresciuti con tecnologie sociali, di per sé peer to peer. Sono abituati a fruire dei network di competenze a cui possono accedere sul web. Sono contemporaneamente follower e influencer (leader). Sono naturalmente portati a reti di relazione temporanea, fluide, che si creano e si sciolgono in base alle opportunità.
Oltre al fattore generazionale, ci sono già contesti in cui la leadership peer to peer è in atto, come, ad esempio, il mondo delle startup o aziende in cui il leader gerarchico sta imprimendo questa svolta. E’ evidente che – per il mondo contemporaneo – non è solo un modello applicabile, pur con tutte le difficoltà e disruption del cambiamento, ma è l’unico modello che possa reggere la sfida organizzativa del futuro. La mole di dati da analizzare e il numero di decisioni di valore che ogni giorno un’azienda deve prendere non possono essere delegate più solo al capo, ma hanno bisogno della forza della rete di relazioni, interne ed esterne, che, di volta in volta, vedrà emergere il leader di scopo e i conseguenti follower, ognuno con il proprio livello di contribuzione.
La nuova leadership e la struttura organizzativa che ne deriva mette tutti alla pari, dando voce a ognuno e stesso accesso ai dati. La singola opportunità e la capacità e volontà dei singoli determinerà l’affermazione dei leader e dei follower. Credo quindi che sia importante riuscire a imprimere questa svolta culturale in tutta l’impresa, svolta che deve sì dare la possibilità a tutti di essere leader, debba formarli per poterlo essere, ma contemporaneamente debba formare le persone anche a essere dei buoni follower. Solo allora, avremo quella dinamicità necessaria all’azienda per le sfide del futuro.
Minghetti: Per il futuro i sistemi di intelligenza artificiale andranno sempre di più svolgendo un ruolo importante e favoriranno un ripensamento delle relazioni: da un lato l’interazione con le macchine potrebbe condurre a una “disumanizzazione” dell’esperienza organizzativa, dall’altro, grazie all’efficacia crescente di tali sistemi, sarà possibile un ascolto più diffuso e la costruzione di un’organizzazione a misura di persone.
Boscato: Mi occupo da diversi anni di sistemi di intelligenza artificiale e di machine learning e credo sia importante, prima di tutto, partire da un concetto: quello che faranno le macchine nel prossimo futuro sarà solo frutto delle decisioni che verranno prese dagli esseri umani.
Siamo ancora distanti dalla General AI, cioè quella possibilità che le macchine replichino il comportamento umano a 360°, mentre già oggi è possibile approcciarsi al mondo del Narrow AI, cioè la possibilità di specializzare le macchine a imitare alcuni comportamenti umani, mediante un’attività di addestramento e di somministrazione di dati. Ci sono, evidentemente, vari livelli di automazione possibile: andiamo da strumenti di RPA – Robot Process Automation, che permettono di automatizzare interamente alcuni processi (es. un sistema di OCR per la lettura di fatture cartacee) a strumenti come chatbot, assistenti virtuali, sistemi di image recognition che possono automatizzare parti più o meno importanti di un processo di lavoro.
È proprio su queste capacità che va fondata la relazione essere umano/macchina del prossimo futuro. Le macchine sono algoritmi stupidi, sono strumenti, tool che le persone addestrano per compiti specifici: sta quindi agli esseri umani capire quale sia la relazione migliore possibile. Mi pare dunque evidente che la relazione debba essere creata a favore delle persone. L’obiettivo delle organizzazioni è quindi quello di dotarsi di sistemi di AI in grado di rendere le persone delle super persone, cioè dotarle di super poteri derivanti dall’utilizzo integrato di tecnologie di AI. I sistemi devono aiutare le persone ad analizzare velocemente enormi quantità di dati, automatizzare tutto il lavoro ripetitivo a scarso valore aggiunto. Devono essere assistenti/colleghi/aiutanti nel lavoro che le persone svolgono ogni giorno. Ma soprattutto, devono far recuperare tempo, quel tempo che le persone possono utilizzare per quello che oggi si serve di più: creatività, capacità di innovazione, capacità di creare network e relazioni, gli elementi che sono e saranno il vero vantaggio competitivo delle organizzazioni del prossimo futuro.
Quindi, per concludere, la mia posizione è favorevole all’utilizzo di questi tool all’interno delle organizzazioni per il miglioramento delle stesse. C’è un tema culturale e di competenza di fondo: serve la conoscenza delle potenzialità e dei limiti di queste tecnologie e serve una visione chiara che faciliti la relazione fra persona e macchina, mettendo l’accento sulla prima. Serve preoccuparsi di offrire alle persone la possibilità di fare dei percorsi di upskill e reskill, invece di porre l’accento sulla perdita del lavoro a favore delle macchine. Più o meno tutte le aziende si doteranno di sistemi di AI: il vantaggio competitivo sarà come usarle, e quello sarà appannaggio della creatività e della capacità umana.
Attanà: Quello che vedo quotidianamente nel mio lavoro è un utilizzo positivo dell’IA. Masi ha fatto una riflessione molto utile sul tema delle survey. Ecco, proprio ieri ho ricevuto dall’azienda una richiesta a compilare un sondaggio. È un’attività che facciamo mensilmente, utilizzando un sistema che vendiamo. Questo sistema ti permettere di rispondere a 10 domande attribuendo un punteggio da 1 a 5 e potendo aggiungere, per ogni domanda, un commento. Il motore di lettura del linguaggio naturale che analizza i commenti non solo ha la capacità di leggere il mio commento, dividerlo e dichiararne una polarità (neutra, negativa, positiva), ma anche di identificare se si tratta di un commento prescriptive, ovvero se sto consigliando qualcosa: “io preferirei che…”, “secondo me si potrebbe fare…”, “io avrei bisogno di…”. I report generati viaggiano fino al vertice dell’organizzazione, che può leggerli tutti. Trovo si tratti di un utilizzo straordinario dell’IA, che offre la possibilità di “bucare” un’organizzazione e arrivare anche molto in alto a far sentire la propria voce o ad avere l’evidenza che la propria parola viene recepita e ascoltata. Senza tecnologia non so come questo sarebbe possibile.
C’è ovviamente anche un tema etico, di bilancio e bias legato a questi algoritmi, ma è un tema largamente affrontato e che si tenta quotidianamente di gestire. Ad esempio, noi in Linkedin abbiamo una licenza che usano i recruiter per il reclutamento e la sezione del personale. Il sistema ti permette di effettuare una ricerca e di recuperare i 10 migliori profili per una determinata posizione lavorativa. Tuttavia, abbiamo scoperto che la maggior parte dei profili suggeriti erano maschili. Siamo, quindi, intervenuti sull’algoritmo che ora “pesa” anche questo parametro e ti restituisce 5 profili maschili e 5 femminili. Ecco perché il legame fra tecnologia e possibilità di sviluppo io lo vedo altissimo, non lo percepisco come un pericolo.
Minghetti: Su tali questioni c’è una grande divergenza di opinioni. Ad esempio, nel corso della Conversazione Se il libro è un divenire, (sviluppata nell’ambito del progetto Librare) Luca Formenton, Presidente Fondazione Mondadori, ha affermato: “Trovo l’idea di un mondo completamente immerso nella Rete piuttosto inquietante. E pare che anche alcuni operatori del settore se ne stiano accorgendo. Il documentario Netflix “The Social dilemma” è abbastanza indicativo di questa tendenza. Rimando anche al libro di Jerome Lanier: 10 ragioni per cancellare subito i tuoi account social. Riporto qui un brano dell’introduzione:“Google e Facebook, insieme a Instagram, WhatsApp – cioè di nuovo Facebook –, Twitter e gli altri social, costituiscono l’impero della modificazione comportamentale di massa. Tirano fuori il peggio di te, spingendoti a manifestazioni d’odio di cui non ti pensavi neppure capace; ti ingannano con una popolarità puramente illusoria; ti spacciano dopamina a suon di like, intrappolandoti nella schiavitù della dipendenza. Distorcono il tuo rapporto con la verità e degradano la tua capacità di empatia, disconnettendoti dagli altri esseri umani anche se ti senti più connesso che mai. Corrompono qualsiasi politica che ambisca a dirsi democratica e devastano qualsiasi modello economico che non sia fondato sul lavoro gratuito. Inoltre – e questa è la cosa che ti scoccia di più, se ci pensi – si arricchiscono infinitamente vendendo tutti questi dati agli inserzionisti (che sarebbe più corretto chiamare manipolatori attivi della società e della natura umana), plasmando la tua volontà attraverso pubblicità targettizzate; e lo fanno attraverso algoritmi che spiano e registrano qualunque cosa tu faccia. I benefici che ti danno i social media non controbilanceranno mai le perdite che subisci in termini di dignità personale, felicità e libertà di scelta.” Affermazioni forse un po’ radicali ma sostanzialmente, a mio parere, corrette”.
A proposito di”The Social Dilemma”, per par condicio credo sia corretto ricordare che Facebook ha pubblicato un’articolata risposta agli autori della produzione Netflix, peraltro molto criticata per la banalità con cui tratta l’argomento: vedi ad esempio The Social Dilemma: il grossolano documentario Netflix sui social network o The Social Dilemma solleva domande ma non dà soluzioni. Per parte mia, in tempi non sospetti ho pubblicato una serie di articoli intitolata I neoluddisti non muoiono mai, dove mi permettevo di scherzare un po’ su quella linea di ostinata avversione al digitale cui molti aderiscono, ma che pare l’estrema Maginot di chi ha difficoltà a comprendere la contemporaneità: e che del resto fa il paio con quel tecnoentusiasmo quasi fanatico di chi vede in Internet una sorta di deus (letteralmente) ex machina che aprirà all’umanità nuovi orizzonti di libertà e progresso. Il fatto è che il cyber-utopismo e, in generale, l’ideologia internet-centrica, sono sistemi di pensiero densi di motivazioni costruttive, ma se presi alla lettera si rivelano illusori come ogni semplificazione idealista. E sono stati usati come leva della straordinaria diffusione di internet nei primi tempi dell’esplosione del suo utilizzo in Occidente. I tecnoentusiasti rivoluzionari sono insomma il contraltare dei neoluddisti reazionari. Fra i due tipi umani tuttavia ritengo i secondi di gran lunga più pericolosi, perché unicamente regressivi e distruttivi: i primi al massimo sono ingenui, anche se non va mai dimenticato che i confini fra utopia immaginata e distopia reale sono spesso labili (vedi il romanzo di Dave Eggers, divenuto film con Tom Hanks, The Circle).
Attanà: L’unico timore che ho mi è sorto dopo aver visto “The Social Dilemma” riguarda il fatto che posso pensare, dire o giudicare qualcosa perché un algoritmo me lo ha fatto pensare, dire, giudicare. Mi rimane sempre il dubbio che il mio pensiero sia autentico, incondizionato. In particolare, considero lo screentime delle nuove generazioni, tra cui i miei figli. Si nutrono continuamente di informazioni, non riposano mai e questo non può non avere un effetto anche sulla loro lettura della realtà, un effetto che non è quello che vorrebbe loro padre, ma il loro padre tecnologico, che non sono io.
Microsoft Teams, se possiedi la licenza Office 365, ti invia dei warning sul fatto che stai troppo al computer, non dedichi tempo per riposarti, hai organizzato troppe riunioni. È un’attenzione sempre più orientata al benessere, sia personale che in funzione della tua produttività. Le analytics di Viva, per esempio, potrebbero osservare se durante una riunione pianificata invii una mail e, in tal caso, ti potrebbe segnalare che ti sei distratto. Se programmi due riunioni in parallelo e ad una non presenzi, ti potrebbero mandare una notifica segnalandoti che potresti avere qualche difficoltà nell’auto-organizzazione e ti potrebbero invitare a partecipare ad un corso dedicato, magari su LinkedIn Learning. Questa è solo la superficie. Immaginate quello che questa IA potrebbe dire rispetto a questa intervista, rispetto al tempo in cui sto parlando rispetto a quello in cui stai parlando tu. A tal proposito, segnalo “Gong.io”, una piattaforma molto popolare che misura le performance dei venditori in chiamata, quanto parlano rispetto a quanto lasciano parlare il cliente. L’algoritmo, volta per volta, impara a riconoscere quello che dici e ti suggerisce come potevi dirlo in un altro modo e questo ti aiuta.
Cresta: Per indole tendo a riporre sempre un portato di ottimismo e di fiducia nei confronti delle nostre potenzialità ritengo pertanto che l’intelligenza artificiale ci dia la possibilità di innovare in modo importante molti campi della nostra vita e delle nostre relazioni. Come sempre anche su questo punto siamo noi con le nostre istituzioni e i modi in cui orientiamo le nostre ricerche e i nostri investimenti a decidere in che direzione vogliamo andare. Pensiamo, per stare in un’area lontana dalle organizzazioni e dai luoghi di lavoro produttivi e di servizi, a come l’intelligenza artificiale consente di esprimersi per esempio a un musicista che per la prima volta può interagire grazie alla tecnologia interattiva con un computer che compone musica in risposta alla sua esibizione dal vivo.
Nella mia organizzazione stiamo cercando di affrontare questo tema con un duplice approccio: da un lato offrendo alle scuole superiori l’opportunità di affrontarlo durante le ore di informatica come contenuto esperienziale per gli studenti e dall’altro creare occasioni di confronto con i professionisti che operano in questo settore avendo fatto percorsi formativi e di carriera non ancora codificati. Le sfide su questo tema per la nostra organizzazione sono: raggiungere le scuole con minore frammentarietà (si arriva solo dove ci sono insegnanti di informatica già sensibilizzati) e contribuire a superare il divario di genere avvicinando sempre più studentesse a queste professioni. Ci siamo riusciti con successo nel percorso IA4Y sviluppato in piena pandemia con Intel e una scuola pugliese le cui studentesse hanno vinto una competizione europea. La sfida per i professionisti dell’istruzione e per le famiglie è di comprendere quali siano le competenze e gli orientamenti formativi futuri per avvicinarsi a queste nuove frontiere, che portano sempre con sè anche nuove professionalità che tendenzialmente si sviluppano ibridando contenuti e conoscenze proveniente da settori differenti. I movimenti recenti legislativi per avviare nel nostro Paese la possibilità di svolgere in contemporanea la doppia laurea vanno anche nella direzione di consentire più facilmente queste commistioni. Occuparsi di intelligenza artificiale in un’azienda spesso significa integrare il background in computing science con quello di diritto.
Bruttini: Sono di base un tecno entusiasta alla Virilio. Sono appassionato dalle infinite sorti progressive rese possibili dalla tecnologia, che oggi veramente evolve molto velocemente. Sono sempre stato molto informato ad attento alle innovazioni, ma mai come oggi ho avuto l’impressione di non riuscire a vedere tutti i nuovi concept che vanno nascendo, in un mercanto brulicante di nuove opportunità in cui solo “uno su mille ce la fa”. Quella dell’intelligenza artificiale poi è una tecnologia “matura” che sta influenzando molto chiaramente le attività professionali e non solo. Mi ha molto colpito per esempio lo storia cinese di Xiaoice la fidanzatina virtuale di 660 milioni di maschi cinesi, abitanti nelle zone rurali ai margini delle grandi opportunità e apparentemente rassegnati a non trovare una compagna nella vita. La fidanzata AI interagisce come se fosse una persona vera ed essendo un software “intelligente“ impara i gusti dei suoi interlocutori e interagisce con loro, andandoli a cercare magari se non si fanno più vivi.
In azienda queste tecnologie hanno degli impatti molto più concreti e rappresentano un supporto fondamentale nelle attività di analisi dei dati. Ricordo il racconto fatto da un manager di un’azienda cliente che ha usato la AI per migliorare l’efficienza di uno stabilimento da lui gestito. Nonostante la capogruppo non finanziasse all’inizio analisi con AI, il manager ha chiesto a uno dei suoi ingegneri di seguire su LinkedIn un corso di Phyton e successivamente scrivere del codice per raccogliere e modellizzare i rendimenti delle macchine dello stabilimento. Attraverso l’analisi dei dati è stato possibile comprendere come ottimizzare le performance e intercettare i segnali che annunciano le rotture. Quindi, con la manutenzione preventiva, anticipare i fermo macchina e aumentare la produttività.
Come sempre la tecnologia non né buone né cattiva, ma è fondamentale l’etica di chi la utilizza. La potenza cinese ha lavorato nel 2019 alla stesura delle “Specifiche etiche per l’intelligenza artificiale di nuova generazione”. Nel documento si indica che all’utente si deve garantire un maggiore controllo sulle interazioni con i sistemi di intelligenza artificiale online. Questo significa attenzione alla sicurezza dei dati, la privacy personale. A questo si aggiunge il diritto dell’utente di rinunciare al processo decisionale guidato dall’intelligenza artificiale. AI inoltre non può impegnarsi in attività illegali e danneggiare l’interesse pubblico, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Questo approccio è coerente con la cultura confuciana e cerca la coerenza e l’armonia tra individuo, interessi delle Big tech e lo Stato. Mi sembra molto interessante questa svolta cinese di limitare su un piano legislativo ed istituzionale gli interessi delle grandi organizzazioni tecnologiche, che in Occidente vivono un ruolo decisamente debordante, non solo sul piano economico, ma anche su quella dimensione che la Zuboff chiama “Capitalismo della sorveglianza”.
Sessa: Non so se posso dichiararmi anche io “tecnoentusiasta”, ma di certo, se penso alla tecnologia, all’IA, come ad uno strumento che aiuta la gestione degli aspetti più operativi, normativi, di gestione degli standard, di attività a basso valore umano, allora sono assolutamente ottimista, perché consente di sgravare la persona da delle azioni che sono ancora relegate al cosa fai in azienda, dandoti la possibilità di guadagnare tempo e energia, di eliminare anche un po’ di cortisolo. Apprezzo il fatto che Microsoft mi invii il report delle persone con cui ho parlato di più, persone con cui possono avere attività in sospeso. È una macchina che guarda quello che faccio, ma con l’obiettivo di aiutarmi.
La disumanizzazione si rischia quando viene passato il limite, quando l’IA entra nella dimensione relazionale. Però, ad oggi, non vedo quel rischio. Per la selezione del personale so che le colleghe e i colleghi delle Risorse Umane usano dei software per evidenziare delle parole chiave fra i curriculum. È disumanizzazione? Secondo me no. Si sono risparmiati giornate e giornate di lavoro per leggere 82 curriculum dei quali 70 probabilmente scartabili. Nel momento in cui, invece, la relazione è delicata, l’argomento è delicato allora lì è necessaria la “pelle”, l’etica e la responsabilità che deve appartenere a coloro le cui decisioni hanno un forte impatto sulle vite degli altri.
Minghetti: Oggi molte grandi organizzazioni come Facebook e Microsoft stanno investendo sulla dimensione del Metaverso in cui attraverso degli speciali occhiali si possono vivere delle esperienze professionali in uno spazio virtuale. Potremmo trovarci tra breve, ad esempio, a fare una riunione con i collaboratori in uno spazio virtuale tridimensionale, oppure essere accanto ai nostri collaboratori da un cliente, a guardare la realtà con i loro stessi occhi. Quali rischi e quali opportunità comporta questa prospettiva da un punto di vista manageriale? Questa tecnologia aumenterà le dinamiche peer oppure i processi di comando e controllo?
Cresta: Il Metaverso è il futuro di internet, ma soprattutto è un futuro inevitabile e certamente cambierà il modo di lavorare perciò diventa centrale comprenderne il potenziale e farlo comprendere anche ai professionisti dell’educazione e ai giovani che si stanno orientando verso percorsi di formazione per avvicinarsi al mondo del lavoro tra qualche anno. Giovani che tra l’altro ne sono già fruitori con i videogiochi. La realtà virtuale in cui si entra con un avatar e si interagisce come se si fosse nella stessa stanza lo scorso anno Junior Achievement l’ha implementata in modo molto parziale (è mancata la parte immersiva) per offrire a 6000 mila studenti italiani impegnati in un laboratorio d’imprenditorialità la possibilità di ritrovarsi tutti insieme per un giorno impegnati in una competizione nazionale per selezionare la migliore impresa studentesca che avrebbe rappresentato l’Italia alla manifestazione europea. Un’Eurovision dell’imprenditorialità invece che della musica. Mentre non potevamo uscire dalle nostre case, abbiamo riunito 6000 ragazzi dalla Valle d’Aosta alla Sicilia in un evento didattico onlife.
Per avere senso queste esperienze credo però che debbano essere integrate con il mondo reale. Nel nostro caso abbiamo per esempio avviato una call to action con gli ecosistemi delle Camere di commercio, degli USR e delle Fondazioni bancarie che sui territori hanno interpretato con approcci personalizzati e vicini alla vita degli studenti l’iniziativa. L’iniziativa per avere ancora più impatto dal punto di vista didattico – per noi è imprescindibile che una competizione d’imprenditorialità sia vissuta come uno step di apprendimento in cui gli studenti allenano e auto verificano lo stato dell’arte dello sviluppo di competenze quali il parlare in pubblico, negoziare, pensiero critico, collaborazione con i compagni, risoluzione di problemi, analisi degli insuccessi – necessita di essere sempre più interattiva. Il vissuto emotivo e il mood complessivo di tutti i soggetti coinvolti nell’esperienza sono mancati in alcune fasi: penso ad esempio all’entusiasmo incontenibile dei ragazzi che vincevano e andavano in Europa che caratterizzava le precedenti competizioni. Del resto questo è ciò che anche noi adulti auspichiamo dai nostri meeting di Zoom quando l’oggetto è la celebrazione di un successo o la consegna di un Award e ci dobbiamo accontentare solo dei cuori e degli applausi delle chat. Ritengo che logiche ibride di lavoro saranno sempre più frequenti anche per rispondere sempre più alle richieste di efficientamento economico e di nuovi modi di vivere il lavoro proprio della Generazione Z (che ha anche sperimentato la DaD). Un meeting con maggiore interazione e una percezione migliore dello spazio ci consentirà di esperire anche esperienze virtuali in città e building in cui non siamo mai stati. Questa direzione è già stata intrapresa, va realizzata con convinzione e tenacia per garantire le corrette infrastrutture a tutta la popolazione attiva italiana.
Sessa: Se immagino di poter vedere con gli stessi occhi dei miei collaboratori e collaboratrici allora reputo questo scenario assolutamente in linea con la P2P in termini di ascolto, anzi, fa esplodere questa dimensione. D’altra parte, mi sono sforzato di fare una riflessione che richiami il tema delle differenze, delle diverse seniority. Partendo dal presupposto che le competenze di ognuno sono le variabili che possono mettere in moto le persone, il poter vedere con gli stessi occhi la realtà può comportare una perdita di valore, perché si perde la differenza dettata dal diverso sguardo di ognuno. Generalmente, io posso analizzare un fenomeno dal mio angolo, tu dal tuo, ci confrontiamo e vediamo di costruire una visione allargata. Se invece entrambi lo osserviamo dallo stesso punto di vista, allora bisognerà vedere da che lato pende la bilancia. Mi sono posto questa criticità, pur pensando che il potersi trovare in un ambiente virtuale, creativo e tridimensionale rappresenti uno scenario assolutamente allettante e di valore. La differenza la fa sempre un po’ il “manico”: se penso ad un boss che si possa inserire nella stessa realtà dei propri collaboratori vedo il rischio di un corto circuito sul piano del potere.
Minghetti: Giuseppe Riva, su La Lettura del 26 febbraio 2022, osserva che “nei prossimi cinque anni le principali società tecnologiche — da Facebook (anzi Meta) a Microsoft, da Google a Nvidia e Qualcomm — e non conosciamo ancora che cosa sta facendo Apple, investiranno nel Metaverso una cifra enorme, dell’ordine delle decine di miliardi di euro. Perché? A parlare per la prima volta di «Metaverso» è stato un autore di fantascienza, Neal Stephenson. Nel romanzo Snow Crash, pubblicato nel 1992, lo descrive come un mondo digitale tridimensionale — un’esperienza di realtà virtuale condivisa — che permetteva agli utilizzatori di fuggire da un mondo fisico diventato poco interessante. In realtà, dopo due anni in cui la pandemia ci ha costretto a sostituire le nostre attività quotidiane con il telelavoro o la formazione a distanza, la prospettiva di passare tutta la nostra vita in un mondo digitale non sembra particolarmente stimolante. E come sottolineano molte ricerche, l’utilizzo continuativo di queste piattaforme genera un disagio fisico e psicologico che è comunemente chiamato Zoom Fatigue (la fatica da Zoom).
Le scoperte più recenti delle neuroscienze hanno permesso di capire la principale causa di questo disagio. All’interno del nostro cervello c’è una serie di neuroni specifici — le place cell e le border cell (chiamati anche «neuroni Gps» visto che funzionano in modo simile al Gps delle nostre auto) — che si attivano quando occupiamo una posizione nell’ambiente, permettendo di orientarci nello spazio. Recentemente i coniugi Moser, neuroscienziati norvegesi che hanno vinto nel 2014 il premio Nobel per la Medicina, hanno scoperto che questi neuroni giocano un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra memoria autobiografica: noi costruiamo la nostra identità attraverso il ricordo delle persone e degli eventi che sono avvenuti all’interno dei diversi luoghi che frequentiamo. Siamo lavoratori perché andiamo in azienda, siamo tifosi perché andiamo allo stadio, siamo studenti perché andiamo a scuola o in università, e così via. Cosa succede ai neuroni Gps quando invece di andare in ufficio o a scuola svolgiamo le nostre attività in una piattaforma di videoconferenza?
Come è stato da poco dimostrato, quando sperimentiamo luoghi multipli (siamo in una stanza, ma contemporaneamente stiamo in videoconferenza sullo schermo del computer), il nostro luogo è lo spazio in cui possiamo muoverci, non quello che stiamo vedendo. In sintesi, per il nostro cervello i sistemi di videoconferenza e le altre piattaforme di socialità digitale non sono luoghi, e quindi non collegano direttamente le esperienze che abbiamo al loro interno con la nostra memoria autobiografica. Per questo le piattaforme di videoconferenza possono essere definite «non luoghi» in continuità con la definizione dell’antropologo Marc Augé: spazi di transito, focalizzati solo sul presente, in cui è molto più difficile costruire un’identità condivisa.
Le giornate passate nei «non luoghi» sono caratterizzate da un eterno presente digitale e non lasciano segni. Per questo sembrano tutte uguali e, arrivati alla sera, ci lasciano vuoti e senza fuoco. Se questi sono gli effetti di vivere nel metaverso, perché dovremmo entrarci? In realtà, sia la realtà virtuale che la realtà aumentata — le due tecnologie che sono il cuore del Metaverso — sono invece in grado di attivare i neuroni Gps e rendere il soggetto presente nei luoghi digitali.
Esiste però una differenza sostanziale tra il Metaverso descritto da Neal Stephenson e quello a cui stanno lavorando le grandi aziende tecnologiche. La caratteristica principale del nuovo Metaverso è la «realtà mista» ( mixed reality ), la fusione tra il mondo virtuale e quello fisico. In pratica, nella realtà mista quello che facciamo nel mondo fisico influenza l’esperienza nel mondo virtuale e viceversa. A fare dialogare i due mondi sono i «gemelli digitali» (digital twins), cloni virtuali degli oggetti reali, collegati direttamente con la loro controparte fisica. Grazie a essi, indossando tutto il giorno un paio di occhiali ibridi (Virtual Reality/Augmented Reality), potremo vedere e interagire nel nostro ambiente fisico con persone e oggetti digitali. Oppure, vedere e interagire con persone e oggetti reali all’interno di ambienti virtuali. Per esempio, se mi muovo nel mondo reale, anche il mio avatar virtuale si muove. Oppure, se l’avatar viene toccato nel mondo digitale, un feedback tattile viene fornito al corpo fisico. Infine, se in realtà virtuale faccio partire la lavatrice digitale, anche quella fisica presente nel mio appartamento inizia a funzionare”.
Attanà: Come dimostra questa lunga citazione, il concetto di Metaverso è infinitamente più grande e diverso da quello che abbiamo in mente noi da Second Life e Habbo in giù. Non si tratta solo di avere occhiali e due device fra le mani, stiamo parlando di esperienze molto più avanzate. Porto la testimonianza del nostro CEO che durante la Pandemia ha condotto una riunione utilizzando un Oculus Rift, device per la realtà virtuale. Quell’esperienza è stata scioccante, soprattutto perché organizzata dopo qualche mese di lavoro da remoto. Può stupire noi, stupirà sicuramente molto meno chi sarà nativo di questa tecnologia e la userà molto più semplicemente. Il tema della Realtà Virtuale e del Metaverso è un tema molto interessante e che toccherà sempre più sensi. Per il momento si limita a udito e la vista, ma si allargherà e diventerà sempre più una cosa normale.
Dobbiamo temere un ipercontrollo? Ma molte di queste tecnologie ci sono già! Ci sono sistemi che ti permettono di fare colloqui simulati e che ti restituiscono certe letture, evidenziano l’onda emotiva, lo sguardo in camera, il tono della voce. Il pezzo che stiamo lasciando indietro è quello dell’analisi del dato. Se questo tipo di analisi dell’experience viene fatta da un recruiter con scarse competenze e che si fida molto della sua sensibilità, allora le prospettive si riducono notevolmente. Io, ad esempio, ho partecipato a dei corsi per imparare a guardare in camera durante le riunioni su Teams. Sembra una cosa banalissima, ma immaginate che tipo di etichetta, che tipo di galateo ci verrà richiesto e di cui non sappiamo ancora nulla. O ancora, che tipo di cattiva emozione potremmo far vivere a qualcuno in una riunione virtuale nel Metaverso facendo una cosa che adesso ancora non ci immaginiamo cos’è. Si tratta di un cambiamento che richiederà tanta pazienza e tanta capacità di feedback.
Bruttini: E’ davvero molto presto per capire quale sarà l’impatto del Metaverso sulle nostre vite. Siamo ancora in una fase estremamente acerba e sono pochissime le applicazioni e le possibilità di interazione. Ricordo che a metà degli anni 90 avevo convolto una ventina di amici in un Think Tank destinato a intercettare i concept emergenti nei rispettivi contesti professionali. Tutto doveva muoversi attorno ad una piattaforma di interazione basata su BBS. All’epoca esisteva internet (si navigava con modem a 14.4) ma non i social. Ci si doveva collegare al mio computer sempre connesso in Rete. Tutti avevano dichiarato il loro interesse a partecipare, ma la barriera tecnologica era davvero molto alta. L’esperimento fallì in pochi mesi. Non so quanti di noi ha già un oculus. Io no, per il momento. Quanti hanno provato dicono che sia un’esperienza emozionante, potente. Certamente si andrà in questa direzione, magari con supporti meno ingombranti e immersivi. E’ evidente che andiamo nella direzione di coinvolgere i sensi maggiormente. Se temiamo che ci siano delle entità che controllano gli individui certamente il rischio è rilevante, con sfumature diverse tra oriente ed occidente. Il progetto del Citizen Score ha mostrato una capacità/volontà dello Stato cinese di proporsi come un’autorità totale, l’incarnazione allucinante del Grande Fratello Orwelliano, in cui i cittadini sono classificati sulla base dei loro acquisti, delle interazioni sui social che aumentano o penalizzano uno score che li rende poi capaci di fare carriera nelle imprese pubbliche, ottenere prestiti oppure andare all’estero.
In Occidente questa funzione di controllo è ancora più sottile e dalle pagine di Foucault abbiamo appreso che si definisce come un biopotere. E’ un dispositivo la tendenza ad asservire la nostra parte desiderante al processo produttivo predisposto dal capitalista. Noi desideriamo lavorare fuori dall’orario di lavoro, mandare le mail la sera o scrivere testi la domenica pomeriggio (come me in questo momento). Noi desideriamo fare questo per essere più potenti, acquisire più prestigio, diventare più bravi, guadagnare di più. Tuttavia, essendo un dispositivo, in realtà diventa un impulso, una coazione a ripetere che non si cura di valutare il ritorno dell’investimento. Si confonde il lavoro con la vita perché il lavoro è divertente, il che è una cosa interessante, senonché, magari, si sta meno con le persone che amiamo, si dedica meno tempo allo sport o agli amici, senza avere, a ben guardarci, un ritorno effettivo. Allora questa è una forma di controllo molto più sofisticata di quella cinese. Da noi non c’è un alibi paranoide: noi siamo buoni e lo Stato è cattivo (dinamica che peraltro è emersa prepotentemente durante la campagna vaccinale). Il biopotere è più sottile perché noi vogliamo quello che il sistema ci chiede. Ecco allora mi piacerebbe che il Metaverso fosse un luogo in cui noi andiamo se c’è qualcosa di interessante da fare, qualcosa che ci avvicini agli altri e a noi stessi. Per poi potere essere più veri quando ci togliamo gli occhiali e incontriamo il mondo reale.
Boscato: È banale da dire, ma come tutte le tecnologie, l’utilizzo del Metaverso – sempre che prenda veramente piede – potrà essere un’opportunità o una minaccia. Già oggi le tecnologie di collaborazione più usate (Teams, Slack, Interacta etc) permettono – volendo – di tener traccia di ogni interazione, pertanto possono essere usate come strumenti di comando o di controllo. Oggi, queste tecnologie non sono utilizzate ancora né come un plus per favorire la leadership peer to peer, né come strumento di controllo. Manca una visione strategica rispetto all’utilizzo di queste tecnologie, manca ancora una profonda riflessione sul giusto utilizzo, mentre si lascia che le cose “vadano”. Ma già la timbratura di un cartellino, in un mondo dove è importante lavorare per obiettivi e non per slot temporali, può essere considerata come uno strumento di comando e controllo, come lo è stato in alcuni contesti per tanti anni. Pertanto, non vedo nel Metaverso un pericolo maggiore rispetto al passato. Solo un pericolo diverso.
Il periodo che abbiamo appena vissuto è stato sicuramente una palestra importante per ragionare e capire come affrontare l’utilizzo di tecnologie di remotizzazione, indipendentemente dalla loro sofisticazione sugli aspetti di realtà apparita. Credo sia emerso in maniera forte che queste tecnologie possano favorire il peer to peer, attraverso la velocità e lo scambio di relazione, anche cross team e cross funzionali. Pertanto lo stesso si può pensare del Metaverso, soprattutto se gli effetti di “realtà” e di “umanizzazione” saranno più efficaci della banale videoconferenza o della condivisione documentale o chat.
Allo stesso tempo abbiamo visto come sia importante anche la dimensione fisica nelle relazioni tra persone, e l’auto organizzazione del tempo personale e di team. Abbiamo poi capito come ciò abbia bisogno di essere indirizzato anche verso forme di socializzazione in presenza, ripensando gli spazi negli uffici, i momenti di lavoro comune, ragionando sulle opportunità che possono essere fornite dalla collaborazione in presenza.
Si parlava prima di “disumanizzazione”. Il rischio è andare verso una “disumanizzazione” molto forte, un’alienazione, che dal mio punto di vista, oggi è un pericolo maggiore della disumanizzazione che può derivare dall’utilizzo di macchine dotate di AI in azienda. Non sappiamo ancora come sarà l’ambiente ufficio nel Metaverso, ma di sicuro dobbiamo considerare questo aspetto e tenerlo in attenzione.
C’è un altro risvolto che deve essere considerato ed è, forse, quello che impatterà maggiormente sulle aziende del prossimo futuro: quello del mercato del lavoro.Nel momento in cui queste tecnologie permettono un anywhere, anytime, any device, e favoriscono una organizzazione peer to peer basata sul network relazionale e di competenze, allora il bacino di riferimento da cui attingere per le proprie risorse lavorative non è più la zona geografica vicina alla sede di lavoro, o la nazione, ma diventa l’intero mondo.
Anche qui si mischiano opportunità e minacce. Ho la possibilità, attraverso una rete efficace di relazioni, di attingere alle migliori capacità disponibili sul mercato, in qualunque momento, e anche con forme contrattuali dinamiche, legate al raggiungimento dell’obiettivo momentaneo.
Allo stesso tempo, le risorse già presenti in azienda possono decidere di lasciare l’organizzazione, attratti da realtà e offerte che possono provenire da qualsiasi parte del globo. In questo senso, il Metaverso e le tecnologie abilitanti aumenteranno in maniera importante la competizione sul mercato del lavoro. Vincerà chi riuscirà a trovare, attraverso una organizzazione peer to peer, le giuste leve motivazionali e di leadership per attrarre e trattenere i talenti. Ecco, infine, perchè serve una strategia chiara su queste tecnologie.
Minghetti: La P2P leadership promuove la cultura della leadership diffusa all’interno dell’impresa. Ma in che misura può caratterizzare, invece, le relazioni all’esterno nell’ecosistema, con soggetti con cui avviare e gestire, ad esempio, progetti di open innovation?
Sessa: Nell’ambito del mio lavoro è applicabile. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’informatica è estremamente creativa. Non ho fornitori di merci, di prodotto, ma di creatività. Nel momento in cui nasce un’esigenza in azienda, io non posso proprio immaginare di fare a meno di condividere questa esigenza “masticata” da me e dai miei collaboratori con i nostri fornitori.
Per prima cosa, ragiono assieme al mio team. Il passo successivo è chiamare allo stesso tavolo i fornitori e condividere con loro la roadmap. Di fatto, tratto i miei fornitori come fossero dei collaboratori. Sono più vicini ad essere partner di lavoro rispetto a fornitori in senso classico. Condivido con loro non solo le nostre esigenze, dove vogliamo arrivare, ma anche il contesto e le riflessioni che vengono fatte attorno ad esso. Se penso che sia un elemento che aiuti il fornitore, la carta del “perché” la scopro senza problemi. Penso che ci sia proprio questo alla base del miglioramento della propria rete.
Attanà: Faccio anche io riferimento all’esperienza concreta: in azienda è arrivato un nuovo CEO e le principali conversazioni a riguardo esprimono l’entusiasmo di avere qualcuno che mette davvero al centro le persone. Si sta andando in questa direzione, perché si è capito che l’attenzione alle persone è il vero punto di svolta, la base su cui puoi cementare tutta la fatica che farai in futuro. Citando gli 883 “stai tranquillo, siamo qui noi”, questo è quello che tutti vogliono, il belonging. Quando incontri una realtà che mette al centro le persone ti viene voglia di andare a lavorare proprio lì, è un trend che attrae, nessuno vuole sentirsi diversamente da questo al lavoro. Abbiamo visto persone disposte a licenziarsi per andare a lavorare in un posto in cui hanno un impatto, in cui anche se sei l’ultimo arrivato sai comunque che c’è qualcuno che ha interesse per farti crescere.
Cresta: Come organizzazione che promuove l’imprenditorialità nelle scuole abbiamo nel nostro DNA il paradigma dell’open innovation; creando di continuo scambi e piattaforme virtuali e presenziali capaci di abilitare il ricorso di idee provenienti dai giovani studenti a favore delle sfide delle aziende e delle istituzioni.
La visione e il sogno potrei aggiungere di Junior achievement, infatti, è la creazione di un modello di intervento sociale che grazie alle competenze trasversali e tecniche di cui dotiamo gli studenti faciliti un cambiamento non solo all’interno delle scuole, ma anche delle aziende e delle istituzioni oltre che delle loro persone. Giovani competenti, intraprendenti e creativi che favoriscano lo sviluppo sociale ed economico delle comunità in cui vivono. Pensiamo che questo concetto di scuola aperta, inclusiva ed agile possa contaminare le aziende e le istituzioni nell’adozione di un approccio sempre più aperto a sperimentare processi nuovi di produzione di valore, ma anche viceversa naturalmente. In termini di sperimentazioni innovative a livello ecostistemico durante il periodo più acuto dell’emergenza sanitaria abbiamo continuato a promuovere percorsi di PCTO nelle scuole italiane creando modalità ibride di formazione in cui grazie alla presenza di persone adulte prossime agli studenti – mi riferisco a insegnanti e volontari aziendali – abbiamo assicurato percorsi di qualità rivisitati con le modalità della DAD, proponendo un’esperienza di qualità e di alto gradimento negli studenti. La reattività frutto di un’organizzazione agile che ha saputo prendere scelte in tempi brevissimi e con focus mirato ai propri beneficiari grazie alla conoscenza dei territori e alla presenza di propri interlocutori che hanno una forte adesione alla missione. Non sono mancate azioni di rinforzo come per esempio più di 600 incontri con gli insegnanti e i volontari aziendali per garantire a 148 mila studenti partecipazione e project work fatti in team seppure a distanza.
I primi ad apprendere gli effetti della leadership peer to peer sono sempre gli insegnanti che attraverso un percorso formativo abbandonano la tradizionale metodologia di lezione frontale, per attivare un approccio di sostegno al processo di apprendimento invece che al contenuto, a fianco degli studenti e con il supporto dei volontari aziendali. Questo schema virtuoso è favorevole allo sviluppo dell’empowerment in tutti i soggetti coinvolti oltre che allo scambio di conoscenze ed esperienze intergenerazionali generative nel rispondere ai bisogni della comunità con un approccio da startupper e da innovatori.
La diversità dei soggetti coinvolti e le loro diverse culture organizzative, percorsi di vita professionale determinano il crearsi di un ecosistema educativo – imprenditoriale che è un unicum e il cui impatto sociale diventa rilevante. Una recente misurazione del ritorno dell’investimento dei partner sostenitori dei percorsi d’imprenditorialità ha rilevato che per ogni euro investiti in un programma di volontariato aziendale d’imprenditorialità nelle scuole superiori, ne ritornano alla comunità locale più di 3.
Boscato: Se è vero che le reti di relazioni sono importanti e che la p2p leadership è una leadership diffusa che attinge alle competenze ovunque esse siano, allora queste possono risiedere dentro l’azienda, ma anche fuori da essa. E’ quindi importante per l’impresa aprirsi all’esterno, sia in termini di relazione con stakeholder diversi, come consulenti, partner, competitor etc, che per l’acquisizione dei dati. I dati esterni contribuiscono a migliorare le analisi interne e ad affrontare le decisioni con maggiore cognizione di causa, rappresentando un vantaggio competitivo che l’azienda ha il dovere di perseguire.
C’è un tema di fondo, però, che mi preme trattare. Parlare di open manager al singolare, è fuorviante. Credo, infatti, che se ne debba parlare al plurale, gli/le open manager, considerando in questa accezione tutte le persone che lavorano in una impresa. La P2P leadership è tale solo se ogni persona in azienda adotta l’atteggiamento del leader di scopo di cui parlavo prima e, di conseguenza, diventa un open manager.
L’impresa deve organizzarsi in modo tale che tutti possano arrivare ad avere uno spirito “imprenditoriale”, consapevoli del business, dei dati e della tecnologia. In quest’ottica, ogni open manager deve portare con sé lo spirito di innovazione, che è fondamentale per il futuro aziendale. Ecco allora che risulta più importante porre le basi e le condizioni affinché ogni persona, ogni open manager, sviluppi una rete di relazioni interna ed esterna, per poter portare l’innovazione necessaria in azienda.
L’innovazione, però, deve essere sistemica all’azienda, in modo che sia un processo naturale di evoluzione. L’Open manager, allora, deve essere un leader all’interno dell’azienda, ma deve saper anche rivolgere lo sguardo all’esterno, riconoscere le opportunità, le innovazioni e le best practices da fare entrare all’interno dell’azienda stessa, che siano risorse umane e talenti, nuovi fornitori o modalità diverse di conduzione del business. Non credo, pertanto, siano efficaci i processi di innovazione in cui si delegano queste responsabilità a poche persone all’interno dell’azienda. I progetti, i modelli, gli strumenti proposti dagli innovation manager o l’innesto di start up portatrici di innovazione all’interno dell’impresa, rischiano di venir rigettate dal resto dell’azienda.
Allo stesso modo, la struttura aziendale in cui alcune aree di staff, come il recruitment o l’IT selection, vengono appaltate unicamente a singole funzioni interne che prendono decisioni e compiono scelte per tutta l’azienda, portano, di fatto, a un ingessamento e limitare le possibilità e le opportunità di innovazione che possono arrivare da altri canali e da altre fonti, specialmente se queste figure decisionali non hanno maturato una cultura dell’open management. In una struttura open, le scelte tecnologiche, ad esempio, non sempre devono essere solamente portate avanti dall’IT, ma possono e devono passare anche nelle mani dell’open manager di business che, per la determinata circostanza e opportunità, hanno saputo guidare al meglio e in modo innovativo la situazione, attingendo a risorse proprie o, altresì, sapendo indirizzare lo sguardo nel modo giusto, oltre i confini aziendali.
Ecco perché è necessario porre le condizioni affinché la cultura di innovazione sia pervasiva in tutte le persone dell’azienda: solo allora risulterà naturale innestare meccanismi osmotici di innovazione che mettano in collegamento costante sia interno ed esterno dell’organizzazione, sia parti diverse all’interno della stessa realtà. Chi lo può fare? È un paradosso: il processo deve partire dall’alto, dal “leader gerarchico” che, grazie alla posizione apicale ricoperta, può dare il via e costruire le condizioni affinché si attui questa responsabilizzazione di ognuno. Il rovescio della medaglia è che il leader gerarchico dovrà essere il primo ad avere la consapevolezza che in alcune situazioni dovrà essere lui a rispettare e seguire le decisioni che altri leader porteranno in azienda. In quel momento, l’azienda avrà gli anticorpi per le sfide del domani.
Minghetti: Per raggiungere questa conapevolezza il governo dei dati mi sembra decisivo. In particolare, l’ascolto diffuso attraverso i sistemi i sistemi intelligenti è raccolta di dati, che vanno interpretati e sfruttati per prendere decisioni e organizzarsi, e qui entra la P2P leadership: 1) bisogna creare un contesto per l’open feedback 2) con una valutazione equilibrata e la capacità di dialogo ed empatia, creando un meccanismo positivo nel quale le survey sono usate per scelte corrette perché si basano su risposte aperte e sincere. Molto spesso le persone insoddisfatte del proprio lavoro, che si sento poco valorizzare, riversano la frustrazione ad esempio sulle survey aziendali, che ci fanno sentire meno unici e più cavie da laboratorio. Una survey che riceva risposte non trasparenti, a volte guidate da pressioni top/down, innescherà loop negativi, e la analisi dei dati con un algoritmo porterà a risposte sbagliate e un manager non aperto al P2P non sarà in grado di creare questo canale di comunicazione trasparente.
Più in generale, il concetto di data-driven company è senza dubbio destinato a divenire sempre più importante in aziende che vanno configurandosi come “plat-firm”, aziende piattaforma, se non come abbiamo detto, veri e proprio Metaversi, e dunque “social organization”; una crescita di importanza che va di pari passo con l’affermazione di una leadership collaborativa a scapito della tradizionale leadership “eroica” che tanti danni ha prodotti nella storia, non solo delle aziende. Come spiego nel libro dedicato a questo tema, “il concetto di intelligenza collaborativa si presta particolarmente bene a descrivere l’essenza del lavoro nelle social organization ispirate ai principi dello Humanistic Management 2.0 (si veda per esempio J.R.Hackman, Collaborative Intelligence: Using Teams to Solve Hard Problems, San Francisco, Berrett-Koehler Publishers, 2011) e può contribuire al superamento/integrazione di concetti ormai abusati come intelligenza collettiva (si vedano: P. Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, Paris, La Découverte, 1994; P. Lévy, Collective Intelligence: Mankind’s Emerging World in Cyberspace, New York, Plenum Presse, 1997) e intelligenza connettiva (con cui de Kerckhove ha adattato la definizione di Levy al contesto tecnologico delle reti, mirando alla connessione delle intelligenze quale approccio e incontro sinergico dei singoli soggetti per il raggiungimento di un obiettivo). L’approccio incentrato sul concetto di intelligenza collaborativa nelle scienze sociali valorizza l’esperienza e la specificità individuale. Nella prospettiva dell’intelligenza collaborativa le priorità potenzialmente conflittuali dei soggetti interessati e l’intreccio di interpretazioni differenti dei fenomeni scaturenti da approcci disciplinari diversi («metadisciplinarietà» nel linguaggio dello humanistic management) sono fondamentali per la soluzione dei problemi.
In questo quadro aggiungo che il concetto di intelligenza collaborativa, nell’accezione proposta nel libro, ingloba anche quello golemaniano di intelligenza emotiva, data la fondamentale importanza dell’empatia – si vedano i Capitoli 12 e 14, rispettivamente dedicati a engagement e convocazione – nei processi di lavoro collaborativo. Processi che, in coerenza con il modello organizzativo dello smart working e con quello sociologico del sensemaking (Weick), si possono svolgere solo in un ambiente abilitante adeguato sia online sia offline: un ambiente quindi fatto di spazi fisici e virtuali, di valori condivisi, di logiche e processi orizzontali e non verticali ecc.”.
Bruttini: Vorrei concludere sottolineando che la grande sfida di Open Mood è proprio quella di coniugare l’approccio democratico implicito nel P2P all’interno dell’organizzazione, con quello più imprenditoriale di chi si dedica all’innovazione al di fuori dei confini dell’azienda. L’ipotesi di lavoro che abbiamo verificato in questa ricerca riguarda la possibilità di conciliare queste due culture, generandone una nuova che sia più coerente con il mondo che viene.
Mi ha ispirato nell’immaginare questa possibilità il Prof. Burt dell’Università di Chicago. I suoi studi antesignani su Raytheon di cui per due anni è stato un Vice President, hanno dimostrato che i manager con alto capitale sociale sono più performanti di quelli con minor capitale sociale. Per capitale sociale si intendono il patrimonio relazionale che un soggetto sviluppa e conseguentemente la reputazione di cui gode presso i suoi interlocutori. Burt ha dimostrato che i manager che curano il loro capitale sociale sono più efficaci, guadagnano di più e rimangono più a lungo nelle aziende.
Burt ha dimostrato anche un’altra cosa in particolare studiando l’innovazione. In un suo scritto dal titolo “Social Origin of good ideas” ha individuato nella figura dei broker l’origine di molte idee che possono generare innovazione. Infatti, se noi consideriamo la struttura informale di un’organizzazione e mappiamo con una network analysis i rapporti tra vari soggetti, notiamo che molto spesso vi sono delle reti informali prevalenti tra soggetti che fanno lo stesso mestiere oppure operano nello stesso territorio. E poi vi sono delle figure che hanno posizioni intermedie, che spesso connettono tra di loro i network essendo riconosciuti dagli uni e dagli altri. Queste figure sono i broker, soggetti in grado di stare in periferia, parlare lingue diverse e comprendere prima degli altri i bisogni ma anche le opportunità. Il suggerimento di Burt è che questi soggetti sono in grado di influenzare l’innovazione in azienda.
Lo scopo della ricerca Open Mood è proprio quello di fotografare le caratteristiche di questi manager, individuarne le competenze e la cultura. Abbiamo visto che non sono molto numerosi, ma certamente si tratta di profili che vanno sostenuti e possibilmente promossi in un Paese alla disperata ricerca del suo posto nel futuro.
L’immagine di copertina è di Silvia Castagnoli.