Nel febbraio 2020 il mondo è stato catapultato in una realtà fantascientifica: la diffusione repentina e ampia del virus Covid-19 si è riversata con effetti dirompenti sul tessuto economico e sociale, mettendo le organizzazioni di fronte a una serie impressionante di nuove sfide.
Se da un lato la contingenza ha sicuramente accelerato processi di innovazione già in atto nel mondo del lavoro e ha forzato alcune convinzioni consolidate, dall’altro il cambiamento innescato ad alcuni è parso “momentaneo e precario”, alimentando l’illusione di una inversione di tendenza che possa condurre alla “normalità” pre-pandemica.
Ma un ritorno ai precedenti modelli non è ipotizzabile: occorre inquadrare le azioni che le aziende intraprenderanno nei prossimi mesi come parte di un processo a lungo termine, che difficilmente approderà ad un “new normal” quanto piuttosto ad alternarsi di “next normal” a cui adeguarsi rapidamente.
Questo assunto fa da guida alle conversazioni #PeopleCaring, che si pongono l’obiettivo di identificare gli ambiti prioritari di intervento affinché l’evoluzione diventi sistemica, trasformandosi in un turning point strategico.
Per far fronte ai cambiamenti imposti dalla diffusione del Covid-19, le aziende devono affrontare una trasformazione che non può essere indirizzata solo da una prospettiva tecnologico-ingegneristica: è oggi ineludibile quel riorientamento sistemico in grado di rimodellare anche i processi interni e la leadership che già descrivevo nel volume L’Intelligenza Collaborativa. Verso la social organization (Egea, 2013. Edizione inglese Cambridge Scholars, 2014).
Il concetto di Intelligenza Collaborativa può contribuire al superamento/integrazione di concetti ormai abusati come intelligenza collettiva (si vedano: P. Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, Paris, La Découverte, 1994; P. Lévy, Collective Intelligence: Mankind’s Emerging World in Cyberspace, New York, Plenum Presse, 1997) e intelligenza connettiva (con cui de Kerckhove ha adattato la definizione di Levy al contesto tecnologico delle reti, mirando alla connessione delle intelligenze quale approccio e incontro sinergico dei singoli soggetti per il raggiungimento di un obiettivo). Nella prospettiva dell’Intelligenza Collaborativa le priorità potenzialmente conflittuali dei soggetti interessati e l’intreccio di interpretazioni differenti dei fenomeni scaturenti da approcci disciplinari diversi (metadisciplinarietà nel linguaggio dello humanistic management) sono fondamentali per la soluzione dei problemi.
Il concetto di Intelligenza Collaborativa, nell’accezione proposta nel libro, ingloba anche quello golemaniano di intelligenza emotiva, data la fondamentale importanza dell’empatia – si vedano i Capitoli 12 e 14, rispettivamente dedicati a engagement e convocazione – nei processi di lavoro collaborativo. Processi che, in coerenza con il modello organizzativo dello smart working e con quello sociologico del sensemaking (Weick), si possono svolgere solo in un ambiente abilitante adeguato sia online sia offline: un ambiente quindi fatto di spazi fisici e virtuali, di valori condivisi, di logiche e processi orizzontali e non verticali, eccetera.
In questo quadro il Business Process Redesign è un intervento fondamentale di performance improvement che, agendo sul processo operativo, supporta le componenti collaborative evitando che queste si articolino lungo canali e prassi inefficienti e dispersivi.
Approfondiamo oggi il tema con il contributo di Roberto Battaglia, Head of HR Corporate & Investment Banking presso Intesa Sanpaolo; Paola Vezzaro, Chief Human Resources and Health & Safety Officer North, South and Eastern Europe presso ENGIE, Massimo Begelle, Regional Manager presso Top Employers Institute e Sara Zona, Group Talent Acquisition & Development Director presso De’Longhi Group.
Poiché “le parole sono importanti”, comincerei la riflessione partendo da una definizione di Social Organization o Enterprise 2.0. Il termine è stato coniato da Andrew McAfee, professore della Harvard Business School, nel paper seminale Enterprise 2.0: The Dawn of Emergent Collaboration (MIT Sloan Management Review, 2006). La definizione puntuale di Enterprise 2.0 secondo McAfee è legata all’uso in modalità emergente di piattaforme di social software all’interno delle aziende o tra le aziende ed i propri partner e clienti. Successivamente, con il termine Social Organization si è andati indicando una visione più ampia di evoluzione del modello organizzativo e tecnologico dell’impresa che si fonda comunque sull’applicazione di strumenti collaborativi 2.0 e l’utilizzo della tecnologia come piattaforma abilitante dei processi e delle relazioni.
Nel contesto pandemico il termine “social” si è ulteriormente arricchito: Rosario Sica nel suo volume Dall’employee experience all’employee caring. Le organizzazioni nell’era post Covid-19, mette in evidenza come la Social Organization oggi è fondata sul valore del “caring”, del “prendersi cura“. Siete d’accordo? Cosa rende “sociale” un’organizzazione e quali sono gli elementi che ne decretano il successo o l’insuccesso?
Le organizzazioni nell’ultimo anno sono state soggette ad una grande quantità di cambiamenti, resi ancora più impattanti dalla velocità con cui si sono presentati. Covid-19 ha infatti imposto alle aziende una serie di sfide che hanno modificato tutti gli assetti del lavoro e richiesto un ripensamento dell’intera struttura organizzativa. Ad esempio, è venuta meno la vita d’ufficio che offriva agli employee occasioni di interazione e scambio sociale con colleghe e colleghi: per questo bisogna pensare a come valorizzare tutte le iniziative “social”, dove per social si intende una dimensione connessa al concetto di “employee caring” individuato da Rosario Sica nel suo ultimo libro.
Come conseguenza di un incremento incessante dei processi digitali, il mondo del lavoro diventerà più umano: se tutto ciò che esula dalla dimensione umana verrà digitalizzato, si porrà enfasi su tutto ciò che non si può ricondurre alle macchine come l’intuizione, la creatività o l’innovazione. Un esempio concreto è relativo al mondo dei trader del mondo bancario, i quali, a seguito dell’incessante evoluzione del digitale, corrono il rischio di perdere parte del loro lavoro poiché sostituiti dalla precisione degli algoritmi: l’intelligenza aumentata della tecnologia potrà sostituire la velocità e il calcolo del trader, ma non potrà di certo sostituire la sua intuizione o nel leggere le analisi.
L’impossibilità di fondere la tecnologia con le competenze strettamente umane è l’elemento che ad oggi enfatizza il ruolo delle soft skills -elementi imprescindibili per il successo di un’organizzazione- che vanno coltivate e valorizzate. Dunque, per concludere, più che di “social” io parlerei di “umano”, poiché la parte umana non può essere sostituita o digitalizzata.
La messa in discussione dell’ufficio, come luogo principale del lavoro, era un tema in parte già presente nell’era ante Covid.
Ciò che sta accadendo da un anno a questa parte non ha fatto altro che accelerare drammaticamente una tendenza già in atto e oggi tutto questo rappresenta una preziosa opportunità avvolta, tuttavia, da molte preoccupazioni ed effetti collaterali.
La remotizzazione forzata delle attività (che è difficilmente classificabile come smartworking) ha infatti aumentato enormemente l’utilizzo dei canali digitali.
Pur accanto a degli indubbi risultati positivi, ciò sta comportando una serie di conseguenze indesiderate come l’iperconnessione, la dilatazione dei tempi, una scarsa educazione digitale che comporta costanti “attentati all’attenzione”, una ridotta efficacia nello scambio di informazioni e nella presa di decisione e, infine, la perdita di occasioni di produzione di pensiero nuovo che si alimenta spesso da collisioni imprevedibili alimentate dalla forza dei legami deboli.
Tutto questo rappresenta comunque una base, a mio avviso promettente, per far tesoro delle lezioni apprese e tendere a una nuova impostazione in cui, oltre a una nuova funzione d’uso degli spazi, si possano combinare tecnologie e processi in modo più coerente.
Quando si parla di Social Enterprise si possono fare due distinzioni: la prima è relativa ai processi bottom-up di cui un’azienda si dota per coinvolgere le persone nella costruzione delle dinamiche interne all’azienda stessa, la seconda è, riprendendo il titolo del libro di Rosario Sica, la cura della persona.
Partendo dalla prima accezione, la smaterializzazione degli uffici ha impattato molteplici aspetti interni come, ad esempio, le modalità di valutazione delle performance; questo ha portato le organizzazioni a riflettere sul concetto di responsabilizzazione e sull’evoluzione delle modalità con cui mantenere ingaggiate e focalizzate le persone sul raggiungimento degli obiettivi di business. La situazione emergenziale e la necessità di mantenere motivate le persone hanno posto le aziende nella condizione di dover implementare molti processi bottom-up. L’esigenza è consentire alle persone di continuare a riconoscersi nei valori dell’organizzazione e, per tale ragione, le organizzazioni si sono adoperate per rielaborare il loro employer branding, i loro valori e la loro mission con l’obiettivo di far sentire i propri dipendenti parte integrante dell’azienda.
Quando invece si parla di employee caring credo sia importante non riferirsi solamente alla gestione dell’employee experience, ma estendere la prospettiva anche alla gestione dell’employee life experience: oggi il dipendente non si reca più in ufficio e i confini tra vita privata e lavorativa sono sempre più labili; con questa consapevolezza le aziende hanno focalizzato la loro attenzione sul benessere e sulla salute del dipendente e del suo nucleo familiare.
Il tema del caring, oltre che al benessere e alla cura delle proprie persone, si estende anche al contesto sociale, questo perché le aziende sono inserite e operano all’interno di un tessuto sociale complesso. A tal proposito un ulteriore elemento di riflessione riguarda quello che le organizzazioni propongono di sé all’esterno attraverso le attività di corporate social responsability: tutte le azioni, attività e iniziative attuate dalle aziende nel corso del 2020 erano certamente rivolte al benessere della comunità, ma hanno anche rappresentato uno strumento di implementazione dell’immagine aziendale agli occhi dei molteplici stakeholders. Durante la gestione dell’emergenza molte organizzazioni appartenenti a settori diversi hanno implementato i loro programmi sociali, un’iniziativa vista sì come un’opportunità da restituire alla comunità, ma anche come una strategia legata ad un ritorno di immagine e di employer branding.
Queste due dimensioni della social enterprise (processi bottom up e attività di CSR) individuano nella comunicazione un punto di congiunzione: il successo di un’organizzazione è determinato dalla sua capacità di comunicare, la quale ha assunto, durante la pandemia, un ruolo chiave su cui le organizzazioni hanno investito e continueranno ad investire. Tutti i processi comunicativi interni alle aziende mostrano, nel 2020, una crescita a doppia cifra rispetto alle percentuali dell’anno precedente e ciò conferma la forte crescita della Comunicazione Interna; ma anche la Comunicazione Esterna ha creato maggiore spazio per i processi di employer branding, determinando anche in questo caso una crescita positiva.
Top Employers Institute opera in 120 Paesi del mondo, perciò abbiamo una visione sia regionale sia globale di quel che accade nei contesti aziendali e per quanto concerne il contesto italiano mi sento di fare una precisazione: le aziende italiane che analizziamo sono per la maggior parte multinazionali o nazionali e, nonostante questo, l’Italia nel 2019 registrava investimenti sui processi comunicativi con percentuali più basse rispetto al resto d’Europa. Oggi ci stiamo avvicinando al livello europeo e questo grazie alla crescita vissuta nell’ultimo anno a seguito dello scoppio della pandemia. Nell’ultimo anno sono cambiate le dinamiche generali, abbiamo osservato questa tendenza in tutti i paesi e in particolare abbiamo osservato quanto stava accadendo nel contesto italiano, un contesto che ha saputo rispondere positivamente anche raggiungendo in alcune aree (wellbeing e welfare) risultati brillanti.
Alla fine, è importante capire come nell’ultimo anno le aziende siano state una linea di frontiera per la società e per le persone. Si ritorna dunque all’importanza del ruolo sociale delle organizzazioni che non si sono limitate al supporto delle persone nelle dinamiche lavorative, ma hanno saputo fornire loro risposte allargate.
“Tutto ciò che di meglio una persona può offrire ci è offerta liberamente.” (cit. C. Favini, Kill Skill 2019) È una citazione che mi piace condividere perché molto vera: sono le persone stesse, non l’organizzazione, a decidere di dare il proprio meglio, l’azienda può “solo” creare il contesto perché ciò avvenga. Per questo essere un’organizzazione sociale a mio modo di vedere significa creare il contesto nel quale ognuno possa rendere al meglio e raggiungere gli obiettivi concordati. Questo per noi in De’ Longhi è mettere la persona al centro, tenendo in considerazione tutte le componenti della vita dei nostri dipendenti, seguendo, tra gli altri, l’approccio proposto da Lifeed (un’organizzazione che si occupa di promuovere l’integrazione tra vita privata e lavorativa, trasformando le esperienze di vita in competenze soft). Recenti ricerche e teorie sull’argomento, sostengono infatti che i diversi ruoli che le persone ricoprono nella loro vita personale e professionale non siano in conflitto tra loro, ma al contrario, si arricchiscano l’un l’altro.
Forti di questa consapevolezza, abbiamo intrapreso in azienda un percorso per accompagnare le nostre persone, in particolar modo i genitori, nella comprensione del valore aggiunto della genitorialità: leadership, negoziazione, time management e organizzazione sono solo alcuni esempi di competenze che si allenano nel privato e che, se traslate nel mondo lavorativo, ci possono rendere professionisti e manager più efficaci e completi.
Il principio che ci guida è legato alla consapevolezza che occuparci delle nostre persone nella loro interezza è di valore per l’azienda e rende le persone molto più “committed” e disposte a dare il proprio meglio nella loro vita professionale, oltre che in quella privata.
Questa permeabilità tra i due mondi è stata resa ancora più evidente dalla pandemia, quando anche gli ambienti fisici (lavorativi e privati) si sono mischiati e dove il benessere delle nostre persone è stato messo al primo posto.
Nel bel mezzo del lockdown dell’anno scorso, infatti, mettere le persone al centro e occuparsi del loro benessere ha significato focalizzare il nostro sforzo oltre che sul tutelare la loro salute anche sul far sentire le persone connesse tra di loro e con l’azienda nonostante la lontananza fisica.
E proprio per rispondere alle nuove esigenze dei colleghi in tutto il mondo, è nato il progetto “Stay Safe, Stay Active, Stay Together”, con l’obiettivo di tenere i dipendenti costantemente aggiornati sulle decisioni prese, sulle misure di contenimento del contagio e far sentire alle persone la vicinanza dell’azienda in un momento di grande incertezza ed isolamento. Il progetto si è concretizzato in un mini sito: la sezione “Stay Safe” ha raccolto dei brevi video girati dai nostri Chief e da tutti i Country Managers che hanno raccontato come l’azienda stava affrontando la pandemia, condividendo best practices e progetti messi in campo; lo “Stay Active” ha racchiuso una serie di iniziative e spunti formativi, sia relativi al contesto lavorativo che inerenti la sfera personale, quali ad esempio attività sportive, culinarie o iniziative che coinvolgessero anche i bambini; lo “Stay Together” infine ha raccolto strumenti, suggerimenti e spazi all’interno di workshop strutturati dove le persone potessero condividere le loro esperienze ed esplorare nuovi modi di lavorare assieme e di gestire la complessità e l’incertezza del momento.
Questo progetto ha sicuramente determinato una nuova modalità di comunicare all’interno della nostra azienda: la comunicazione è diventata più interattiva, rapida, ingaggiante, frequente e le persone hanno apprezzato molto questa nuova modalità di interazione. Per questo, tra le priorità emerse per il prossimo futuro c’è sicuramente quella di sviluppare e riprogettare la comunicazione interna rendendola più in linea con i tempi e con i bisogni mutati delle persone.
Covid-19 ha modificato le organizzazioni nella loro logica di funzionamento interno, nelle loro relazioni col territorio e nei loro rapporti con tutti gli stakeholder (interni ed esterni) che chiedono e si aspettano dalle organizzazioni una maggiore responsabilità sociale e ambientale. Le organizzazioni hanno quindi operato nell’ottica di rispondere a queste aspettative e di restituire benessere alla comunità, cercando di coniugare il profitto con l’attenzione all’ambiente e alla comunità stessa.
Ma se, prima del Covid, la collaborazione tra colleghi poteva nascere anche da scambi informali e da momenti di confronto “non programmati”, con il remote working la spontaneità della collaborazione si è piegata alla necessità di pianificare momenti strutturati per potersi parlare. Pensate che questo stravolgimento delle dinamiche collaborative possa influire o modificare i processi di lavoro? Secondo voi anche il ruolo del leader verrà impattato?
Citando Rosario Sica, un’organizzazione comprende relazioni formali, rappresentate dall’organigramma e dalla gerarchia esplicita, e relazioni informali, date dai flussi informativi e dalle reti collaborative che collegano gli employee tra di loro. Chiaramente il venir meno di questi momenti spontanei di scambio e collaborazione ha modificato i processi di lavoro e le dinamiche collaborative.
Il tema della collaborazione assume un ruolo fondamentale poiché i tempi con cui si verifica il cambiamento dei sistemi economici, sociali e di mercato sono sicuramente più rapidi dei tempi con cui si programmano, si adattano e si verificano i cambiamenti organizzativi.
Un’azienda è in grado di rispondere alle esigenze di un cliente oppure a un’esigenza del proprio business solamente se è in grado di garantire una solida collaborazione all’interno del proprio sistema e il modello lavorativo attuale (ovvero digitale), richiede una capacità di collaborazione maggiore. La collaborazione avviene ed è possibile mediante strumenti nuovi, diversi e soprattutto unicamente digitali, per tale ragione vanno rafforzate le regole e le modalità di collaborazione tra colleghi.
Con la distanza che si frappone fra i vari interlocutori una collaborazione funzionale e proficua non è sempre garantita, ma non è impossibile; io stessa, mi sono cimentata in un’avventure complessa in cui la collaborazione tramite il digitale è stata fondamentale. L’anno scorso abbiamo acquisito sei centrali idroelettriche in Portogallo: un progetto molto grande che ha visto protagonisti 17 professionisti di cui 3 della mia squadra e tutti gli altri appartenenti a diverse funzioni e stanziati in diversi luoghi. Un progetto complesso, che nonostante le difficoltà del caso è giunto alla sua piena realizzazione. Questo per sottolineare come il digitale si sia dimostrato funzionale e indispensabile per il processo collaborativo; nonostante ciò l’incontro fisico tra gli attori coinvolti ha rappresentato la chiave di volta per instaurare un sentimento di fiducia reciproco.
Detto ciò, è doveroso sottolineare che la pandemia ha consentito la digitalizzazione di quei processi che altrimenti non si sarebbero digitalizzati e ha stravolto in maniera irreversibile tutti i processi lavorativi. Il prossimo scenario del quale saremo spettatori non vedrà una netta evoluzione dei processi o tutti digitali o tutti “analogici”: si verificherà piuttosto un’analisi volta a comprendere quali fasi dei processi avrà senso mantenere in forma digitale anche post pandemia e quali invece avrà senso riconvertire in analogico in quanto forzatamente digitalizzati. L’adozione di queste analisi sarà naturalmente un continuum poiché la tecnologia avanza inesorabilmente: basti pensare all’evoluzione degli strumenti che adoperiamo ormai quotidianamente da marzo dell’anno scorso ad oggi.
Chiaramente tutto dipenderà dalla risposta del sistema del mondo lavoro e dalla cultura aziendale che detterà particolari esigenze di business, dipenderà da come agiranno i competitor, da come si muoverà la popolazione, dalle preferenze personali, poiché è chiaro che c’è chi massimizza la propria performance tramite l’incontro fisico e chi predilige la digitalizzazione. Bisognerà trovare un equilibrio e cercare di aiutare le persone che hanno trovato nel lavoro in digitale la propria autonomia a ritrovare la socialità e la condizione informale tipica dell’ufficio.
Un altro aspetto da considerare è la tematica manageriale: i manager dovranno imparare a gestire le preferenze e la diversità delle proprie persone. Ed è in riferimento a ciò che la formazione manageriale diventa fondamentale per la gestione della nuova organizzazione aziendale: la managerialità e la leadership, infatti, hanno subito delle grandi modifiche legate al sorgere di questa nuova impresa “liberata”, di questo empowerment più allargato, della collective intelligence o della sub serialità; movimenti – come diceva prima Roberto – già in essere prima dello scoppio della pandemia che hanno richiesto e richiedono altre forme di cambiamento manageriale.
No, il ruolo della leadership non è cambiato e questo è il motivo principale dei problemi che ho evidenziato nella risposta precedente. Continuiamo infatti ad applicare lo stesso schema di gioco in un contesto radicalmente diverso.
Per utilizzare una metafora calcistica, è la stessa differenza che passa fra una partita fra ragazzi all’oratorio, in cui tutti corrono dietro al pallone, e il gioco di una squadra più professionale dove ognuno sa da quale parte del campo stare e soprattutto quale schema di gioco usare.
La metafora è utile perché evidenzia le due dimensioni rilevanti della questione di cui stiamo parlando: tecnica e sincronizzazione.
Parlando di tecnica mi riferisco alle conoscenze nell’uso intelligente degli strumenti di collaboration che spesso stanno già nel nostro laptop. Nella maggior parte dei casi ci si limita ad attivare una sessione video, dimenticando quello che strumenti come Slack o Teams offrono per aumentare l’efficacia.
Questo aspetto introduce la seconda e più complessa questione: la maggior parte delle interazioni continua ad avvenire in modo sostanzialmente sincrono (tutti dietro al pallone) generando un inevitabile rumore di fondo e di aumento della pressione lavorativa amplificati dalla proliferazione dei canali (chat, messaggistica, chiamate dirette ecc.)
Non si è quindi colta in pieno l’occasione offerta da una tecnologia che ha comunque un grande potenziale, ma che ha, almeno finora, reso ancora più netto il confine fra fisico e digitale.
A mio avviso il ruolo del manager ha subito un’evoluzione.
Ma prima è doveroso fare una premessa rispetto all’evoluzione della collaborazione tra colleghi e ai processi collaborativi pre e post Covid-19: le modifiche e le evoluzioni a cui sono stati sottoposti i processi di lavoro erano in atto da prima dello scoppio della pandemia e il processo di trasformazione digitale, seppur in Italia non fosse a livello così avanzato, era già in corso. Nel 2019 abbiamo tenuto al Politecnico di Milano una conferenza e raccolto alcuni dati sulla trasformazione digitale: da quanto emerso, circa il 60% degli HR manager ammetteva l’assenza di una strategia di trasformazione digitale chiara e avanzata all’interno della loro organizzazione, solo il 13% dichiarava di avere una strategia per adottare e implementare la trasformazione digitale e solamente il 3 % di applicarla in maniera avanzata. La base di partenza non era estremamente solida, ma molte aziende iniziavano a lavorarci.
In questi ultimi anni la tecnologia registrava già un trend di crescita, trend che nel 2020 è nettamente accelerato: questo impatto tecnologico ha coinvolto molti processi collaborativi, come ad esempio, la talent acquisition. Come sottolineato anche da Paola, il processo di assunzione dei nuovi assunti prevedeva, già in tempi non sospetti, dei processi virtuali: se negli anni scorsi questo processo prevedeva però solo alcuni elementi digitali, quest’anno tutto è stato spostato sul digitale e gestito con processi virtuali. Lo dimostrano i dati sull’aumento di chatbot per una prima scrematura dei curriculum e dei processi di Gamification per effettuare le selezioni, che hanno registrato percentuali in forte crescita. Nell’ultimo periodo alcune tra le aziende più avanzate hanno sfruttato persino la virtual reality per consentire ai dipendenti di fare visita alle sedi aziendali non più in persona, ma in virtuale: una grande opportunità per sfruttare la tecnologia come strumento per migliorare i processi.
Persino i processi “core” come quelli di performance management e i processi di leadership hanno subito un impatto e un cambiamento dall’accelerazione tecnologica che ha accentuato la differenza tra i vecchi modelli e i nuovi modelli collaborativi che si stanno instaurando. È importante sottolineare che molti dei nostri processi erano già in procinto di evolvere, un’evoluzione che quest’anno ha subito un boost in termini di sviluppo e tecnologia.
Conclusa questa premessa torno al focus della domanda: l’impatto della trasformazione digitale sulla leadership. Come dicevo, il ruolo del manager ha subito un’evoluzione, perché le dinamiche a cui la pandemia ha dato avvio -come, ad esempio, la dematerializzazione del posto di lavoro- hanno determinato un cambio nelle dinamiche legate all’esercizio della leadership.
Il leader post-Covid non deve più essere solamente presente, ma deve essere in grado di gestire virtualmente una comunità di persone: deve essere capace di ingaggiarle e di trovare una comunicazione che arrivi a tutti e deve diventare un abile motivatore.
Per rispondere a queste esigenze esordienti e al grande smarrimento all’interno delle aziende, le organizzazioni hanno reindirizzato il proprio budget su processi di coaching, mentoring e di supporto per i leader e per le loro persone: secondo i dati i programmi di coaching rivolti ai leader sono cresciuti del 7%. Quel che si afferma è il ruolo del “leader as a coach” ovvero un leader che deve avere e incrementare skills che prima erano meno richieste.
Le strategie generali attuate dalle aziende rispetto ai processi di apprendimento e formazione si strutturavano sulla base del modello 70,20,10: 70% esperienza, 20% scambi con i colleghi e 10% apprendimento strutturato e formale. Oggi questi modelli non hanno più senso, così come lo spazio e le tempistiche del lavoro devono essere rivisti.
La tecnologia e gli strumenti digitali hanno aiutato le aziende a non abbandonare i processi di formazione durante la crisi pandemica: la formazione online ha funzionato e si è rivelata una valida opzione, ma questa metodologia non potrà essere la prassi futura. Le aziende devono lavorare sui nuovi processi di apprendimento e credo che le piattaforme di learning informale possano essere un buon punto di partenza. Ma se crediamo che la tecnologia sia la soluzione, sbagliamo prospettiva: la tecnologia è il mezzo, un grande aiuto per mantenere il senso della comunità; il suo fine è permettere alle persone di avere più tempo per fare lavori ad alto valore aggiunto. Per fare un esempio: uno dei vantaggi dell’onboarding digitale è permettere al nuovo assunto di svolgere le attività burocratiche e amministrative in maniera digitale e di permettere ai manager o agli HR business partner più scambi diretti e personali con la risorsa e dunque guadagnare tempo.
Il vero senso dello smart working, perché si parli di lavoro intelligente, è che consenta una gestione positiva del tempo dentro e fuori l’ufficio. L’opportunità da cogliere è la possibilità di sviluppare questo equilibrio (vita dentro e fuori l’ufficio) in futuro e ricondurre alcuni processi collaborativi a momenti di condivisione in presenza.
Sono d’accordo con Massimo, a seguito dei cambiamenti posti in essere dalla pandemia anche il ruolo della leadership ha subito un’evoluzione. Nel momento del lockdown, il leader ha rischiato di essere l’unico anello di congiunzione tra le persone e l’azienda e per questo ha assunto un ruolo determinante.
Il ruolo della leadership è stato fin da subito un nostro argomento di riflessione: come aiutare il management a gestire questo periodo di incertezza? Come consentirgli una corretta e serena gestione delle proprie persone nonostante il remote working? La nostra risposta è stata la riprogettazione del programma di leadership globale (che era partito poco prima della pandemia) in chiave totalmente digitale, soluzione che ci ha consentito tra l’altro la delivery del programma senza interruzioni a seguito dei lockdown nazionali che si sono purtroppo susseguiti.
La chiave del successo è stata creare workshop con grandi spazi di interazione, sfruttando al massimo gli strumenti che la tecnologia ci offre, dove i leader si sono potuti confrontare, osservando quello che stavano vivendo tramite una “helicopter view” per individuare assieme strade nuove di accelerazione delle loro performance. In questo caso la tecnologia ha aiutato e abilitato, ma come sempre da sola non può fare la differenza; è il processo che abbiamo costruito che si è rivelato molto solido ed efficace e ha consentito ai manager di dialogare su sfide di business concrete, connettendosi tra di loro e con i propri team, scambiandosi best practices, costruendo pezzi di futuro assieme.
Il modo di essere leader cambia ed oggi significa anche saper accogliere e integrare punti di vista diversi, che arrivano non solo dall’alto ma anche dai propri collaboratori e dai propri pari, nonché saper cogliere e interpretare i segnali informali che arrivano dall’organizzazione.
Noi abbiamo cercato di rispondere a questa nuova esigenza tramite un processo di scambio continuo di feedback e di conversazioni strategiche tra leader che appartengono a diverse funzioni aziendali e geografie e al tempo stesso tra il leader e i propri collaboratori, che non può far altro che arricchire la visione del leader e renderlo più pronto a gestire le nuove sfide che ha di fronte.
La crisi conseguente alla diffusione di Covid-19 ha trasformato in profondità il modello organizzativo delle aziende e questa trasformazione è partita proprio dagli executive al vertice di queste organizzazioni. I leader aziendali devono essere in grado di evolvere tanto quanto il resto dell’organizzazione facendo dell’autorevolezza la base su cui operare; il leader di oggi deve saper stare vicino agli employee, comunicare con loro, appassionarli, coinvolgerli e soprattutto motivarli. I nuovi leader devono sì guidare le proprie persone, ma guidarle a distanza attribuendo loro maggiore fiducia, autonomia e responsabilità.
In questa ottica, quali sono i processi organizzativi che ad oggi necessitano di un cambiamento strutturale e come attuarli? Ha senso oggi investire su trasformazioni dei processi in chiave Agile / Learn o c’è necessità di formulare nuove strategie che tengano conto dell’assetto odierno?
Come già sottolineato, la pandemia di Covid-19 ha da una parte potenziato e accelerato dei processi e dei fenomeni che erano già in corso, dall’altra ha consentito un apprendimento a livello globale circa l’importanza, la complessità e la funzionalità di alcune situazioni.
Ora l’azione più importante è unire questi due aspetti nel periodo successivo alla crisi che, secondo le previsioni odierne, non si appresta a finire in tempistiche rapide. L’utilizzo del digitale per lavorare proseguirà e di nuovo saremo sottoposti a un continuum evolutivo di queste tecnologie.
Rosario nel suo testo cita Frederic Laloux, autore che ha sviluppato le sue tesi considerando gli effetti degli sviluppi delle moderne tecnologie digitali e social sulla trasformazione del modello organizzativo e del lavoro. Io ho avuto la fortuna di incontrare Laloux e di sperimentare, ancora prima della crisi, alcuni meccanismi tra cui i meccanismi di compensation collettivi. Riporto un esempio che mostrerà quali cambiamenti sono subentrati in questa dinamica come conseguenza delle spinte al cambiamento derivanti dalle tecnologie e dalla crisi. Il processo standard di definizione della parte variabile prevede che il manager faccia una proposta per le persone che gestisce, proposta normalmente validata dai livelli gerarchici superiori e dalla funzione HR. Un meccanismo collettivo nell’impresa liberata può invece prevedere che siano i colleghi a identificare collaboratori meritevoli.
Saranno quindi i colleghi, sulla base del lavoro svolto, a proporre un collega virtuoso di cui considerano eccellenti le performance lavorative e in seguito, questo collega, attraverso una piattaforma o modalità scelta dall’azienda, raccoglie consensi o dissensi. In base al risultato potrà essergli riconosciuto con un bonus connesso ad una performance specifica oppure no.
Questo accadrebbe in una condizione di piena normalità, ma nella fase successiva al lockdown, come avverrà questo meccanismo di compensazione? In un contesto in cui prevale il lavoro in modalità digitale, con conseguente assenza del contatto face to face, è evidente che sia l’approccio che la metodologia saranno oggetto di cambiamento: l’enfasi sarà sempre convogliata verso la performance dei colleghi, ma questa volta dando spazio anche a coloro che hanno una minore estroversione e che dunque trovano il Distance Learning una modalità di espressione più in linea con la propria predisposizione caratteriale.
Questo meccanismo consentirà di comprendere nell’assegnazione di eventuali riconoscimenti non solo coloro che si espongono in maniera più plateale, ma anche coloro che esprimendosi di meno contribuiscono comunque alla generazione di valore di un progetto.
All’interno delle organizzazioni attualmente ci sono due prospettive possibili: la prima appartiene principalmente all’era pre-Covid cioè il colloquio “umano” face to face, la seconda, subentrata a seguito del Covid, è il colloquio digitale face to face. In entrambi i casi, possiamo identificare dei pro e dei contro.
Il colloquio digitale consente uno scambio verbale all’80% minimizzando alcune distorsioni legate ai bias, mentre il colloquio face to face, supportato dal linguaggio non verbale, consente di raccogliere informazioni aggiuntive introducendo maggiori bias.
Il processo di selezione sarà differente nel prossimo futuro: differente perché il lavoro, così come l’ufficio, è in continua evoluzione e il candidato che vedrà l’ufficio di oggi non vedrà l’azienda di domani. Comunque sia, ci sarà ancora spazio per la parte relativa al colloquio in presenza e all’elemento umano, poiché esso è un’opportunità sia per il recruiter che per il nuovo talento di cogliere segnali, informazioni aggiuntive che agevolano la presa di decisione che, come già sottolineato, il digitale non consente.
Un ulteriore esempio è legato a uno dei processi che ha sofferto maggiormente in questa fase di lockdown: il processo di onboarding. Un processo di estrema importanza che da un anno a questa parte avviene mediante il digitale, un processo per il quale non si è ancora definita una riorganizzazione precisa.
Il lavoro da remoto è stato complesso nelle prime fasi, ma sicuramente agevolato per tutti coloro che conoscevano già il sistema aziendale in cui lavoravano poiché, in fase di Distance learning, avevano già conoscenze o riferimenti su cui contare in caso di bisogno o necessità. Un neoassunto percepisce solo la complessità del lavoro da remoto, fatica e vive in maniera particolare l’intero processo di onboarding. Salire a bordo di un’organizzazione secondo il metodo classico che prevede l’ingresso fisico della persona in azienda ha una serie di qualità tra cui la presenza sia di una fase formale che informale, come la pausa caffè o la vita all’interno dell’ufficio. La salita a bordo da remoto risulta lacunosa soprattutto nella creazione di momenti informali. Nonostante ciò, si è compreso che alcune cose funzionano ugualmente, se non meglio.
Quella dell’apprendimento è una tematica che mi piacerebbe approfondire poiché negli anni, specialmente in quest’ultimo di pandemia, l’approccio nei confronti dell’apprendimento digitale è innegabilmente mutato: nel 2000 la qualità dell’e-learning era molto più bassa, la mentalità e l’abitudine delle persone erano acerbe e fortemente legate alla concretezza, mentre oggi tutto si è evoluto e il fenomeno della crisi ci ha insegnato che tutto, o quasi, può essere oggetto di una trasformazione digitale.
Posso dunque sostenere che l’utilizzo del digitale genera inevitabilmente innovazione e che le attività svolte mediante questa strumentazione producono degli ottimi risultati, ma richiedono comunque un maggiore engagement delle persone e dunque il rapporto umano e l’incontro lavorativo, continueranno a rimanere e ad essere utilizzati in parallelo ai meccanismi dell’Agile working.
L’accelerazione dei processi messa in atto dalla pandemia di Covid-19 ha mostrato da una parte come alcuni meccanismi fossero già in procinto di evolvere e come essi non siano intenzionati ad interrompere questo percorso evolutivo, dall’altra ha reso evidente il cambio di paradigma conseguente all’accelerazione di ogni processo, funzione e strategia e modalità di azione.
Vedo almeno due strategie che devono essere formulate per rispondere all’assetto odierno dei processi organizzativi: ibridazione e asincronia.
La prima strada punta a rendere più sfumata la differenza fra la dimensione fisica e quella digitale in cui quest’ultima diventa realmente uno spazio al pari dei luoghi tradizionalmente deputati al lavoro.
Questa ibridazione, che a prima vista può apparire solo concettuale, può in realtà essere portatrice di conseguenze pratiche se si reimposta il processo che sta alla base delle interazioni fra le persone (per comunicare, per collaborare, per decidere). In altre parole, si tratta di disegnare le modalità con cui le persone interagiscono prescindendo dal luogo in cui queste transazioni avvengono, ma traendo dalla collocazione del momento il massimo dei vantaggi.
Per diventare più efficace, un’interazione online in sincrono va arricchita di elementi contestuali (chat che fissano i concetti chiave o le decisioni prese, registrazione della sessione, polls in diretta) da rendere disponibili immediatamente dopo la chiusura della sessione.
Questa impostazione va applicata anche alle interazioni in ambiente fisico (o misto fra chi presenza e distanza). È qui che la tecnologia cessa di essere un mero strumento, ma diventa un ambiente abilitante in grado di arricchire anche l’esperienza che avviene negli uffici aziendali.
E qui interviene la seconda dimensione che introduce la necessità di rendere maggiormente asincrona l’interazione.
Ciò significa utilizzare gli strumenti sia amplificando l’utilizzo conversazionale prevalentemente legato all’allineamento informativo nei team, sia l’adozione di semplici automi tecnici che semplificano workflow a basso valore aggiunto. L’effetto che si ottiene non è solo quello di rendere sostenibile, dal punto di vista psicofisico, il lavoro remoto riducendo la pressione sulle persone. C’è in ballo la possibilità di migliorare nettamente l’efficacia a parità di sforzo prodotto e probabilmente contribuire a dare, progressivamente, una forma diversa alle organizzazioni.
Il tema degli spazi, della collaborazione e della revisione dello spazio d’ufficio, sono temi su cui le aziende dovranno lavorare. La questione degli uffici e delle modalità attraverso cui le aziende stessero implementano la creazione di spazi virtuali e fisici per la collaborazione tra dipendenti erano un trend già indagato pre-Covid nella nostra survey di valutazione, ma nel 2020 queste tematiche hanno subito un incremento del 5% e che quest’anno ci aspettiamo variazioni ancora più alte. Questi aspetti erano dei focus già sotto traccia e quel che notiamo è che si sta riformulando il concetto stesso dell’ufficio: lo spazio prima era una sorta di benefit immateriale che l’organizzazione offriva al dipendente, ora invece sono in atto dei processi di vera riconversione di questi spazi.
Si sta passando dall’ufficio all’hub: una visione in cui gli uffici diventano spazi aperti e di coworking che consentono di avere maggiore accessibilità per i dipendenti e di accogliere persone esterne all’organizzazione, diventando degli spazi di lavoro in cui creare situazioni di condivisione. Questa situazione dà alle aziende la possibilità di ammodernare alcune tra le loro aree e di rivitalizzare alcune zone territoriali oltre che il tessuto imprenditoriale dell’azienda.
Esistono delle aziende che hanno già attuato delle politiche di smart working molto intense come, ad esempio, togliere l’obbligatorietà della presenza e questo attraverso accordi e spazi di coworking in modo che il dipendente possa accedere a quello spazio con convenzioni aziendali. Questa strategia ha un impatto immenso se pensiamo agli spostamenti e al commuting delle persone poiché l’effetto che si genera è una distribuzione della popolazione nel territorio.
Un ulteriore spunto di riflessione ci viene offerto dagli scenari generati dal lavoro continuativo da casa: poiché il lavoro è una dimensione sociale, venendo meno nella sua realizzazione convenzionale, genera diversi impatti sociali di cui bisogna tenere conto.
La digitalizzazione dell’esperienza lavorativa va gestita e questo è uno dei temi legati ai processi organizzativi da ristrutturare: va calcolato e regolato l’impatto della tecnologia nello svolgimento della vita lavorativa. Si passa sempre di più dall’Employee Experience all’Employee Life Experience, dove abbiamo perso il limite e confine tra lavoro in ufficio e lavoro in casa e si creano nuove dinamiche sulle quali le aziende devono lavorare.
Un’altra tematica che necessiterà di attenzione è dunque la dimensione del wellbeing, ovvero l’offerta che può essere fatta in termini di supporto al benessere del dipendente.Nel Nord Europa, ad esempio, esistono delle regole molto stringenti per far sì che tutti rispettino gli orari lavorativi; dopo un certo orario i server non sono più attivi e anche nei contesti più mediterranei e sudeuropei si sta diffondendo questa politica.
Questo diritto alla disconnessione è sul tavolo delle aziende per tutelare il benessere psicofisico del dipendente e del suo nucleo familiare. Stiamo passando da una gestione emergenziale a una visione strategica e quello che si chiede alle aziende è la capacità di capire quale sarà l’impatto della digitalizzazione nel prossimo futuro e, soprattutto, se questo impatto sarà regolato
Di fronte a questi cambiamenti repentini e ad un contesto in continua evoluzione, le aziende e la funzione HR devono porsi delle domande su come poter mettere le persone nelle condizioni di esprimersi al meglio e dare il loro solido contributo. Dare delle risposte non è facile, ma credo che una delle cose che ci ha insegnato la pandemia sia il coraggio di sperimentare e innovare approcci e processi in modo agile.
Ad oggi non è più pensabile lavorare al ridisegno di un processo o un progetto dandosi una prospettiva di anni, perché il contesto cambia talmente rapidamente che i bisogni di oggi possono essere diversi dai bisogni di domani. Credo che oggi una delle strade percorribili e più efficaci sia la sperimentazione e messa a terra veloce di piani di azione che ci consentano di testare nuove modalità, per poi eventualmente correggere ciò che non è andato bene, in un processo di continuo apprendimento e miglioramento.
In questi termini, nel gruppo De’ Longhi stiamo ridisegnando alcuni dei nostri processi, tra cui il processo di valutazione delle performance. Pensare di valutare le performance delle persone utilizzando delle modalità di giudizio calibrate su una tipologia di lavoro che ormai non esiste più è impensabile e per questo stiamo predisponendo un nuovo progetto il cui disegno è “utente centrico” e dove gli utenti sono parte integrante del processo a loro dedicato, sono i co-designer del progetto stesso. Un tratto fondamentale di questo processo sarà la fase denominata “The continuous growth” realizzata con l’intento di rispondere al nostro obiettivo principale: garantire una crescita continua delle nostre persone.
Tramite una piattaforma user friendly, tutta la popolazione aziendale (dipendenti e capi) potrà chiedere e ricevere dei feedback reciprocamente sul proprio operato oppure sui progetti svolti. Questa modalità di raccolta di feedback è innovativa e flessibile, oltre che più funzionale, perché il dipendente in questione avrà la possibilità di avere una vista a 360° del proprio operato, dei propri punti di forza o carenze e ricevendo quindi degli spunti di miglioramento continuo. È una soluzione innovativa: prima il feedback era presidiato dal capo, mentre ora questo processo diventa inclusivo consentendo anche ad altri interlocutori di condividere il proprio feedback/punto di vista. Si tratta di un processo di continuous ed extended feedback che porta con sé la necessità di lavorare e sviluppare nella cultura aziendale la cultura del feedback. Fra le novità vi è anche l’opportunità di potenziare i propri punti di forza, e di strutturare percorsi di sviluppo basati anche sulle ambizioni personali, che le persone avranno modo di segnalare all’interno della piattaforma.
Anche il processo di onboarding è cambiato: prima della pandemia, con cadenza semestrale, facevamo venire a Treviso – nel nostro HeadQuarter – da tutte le nostre filiali i neoassunti delle funzioni marketing e commerciale per una induction globale sulla nostra storia, struttura, i nostri valori, vision e mission e sui prodotti, ma anche in questo caso purtroppo la situazione sanitaria non ci ha consentito di svolgere l’evento in presenza. Consapevoli che il momento di onboarding è per i nuovi colleghi davvero importante, abbiamo dovuto ripensare a come ridisegnare un processo efficace. Le possibilità erano due: proporre ai neoassunti dei moduli online grazie ai quali poter fornire una overview sull’azienda e quindi lasciandoli liberi ma “soli” nel processo di fruizione dei contenuti, oppure riprogettare l’evento di induction utilizzando le possibilità di interazione e socialità offerte dal digitale. Abbiamo optato per questa seconda strada, decidendo di prolungare l’evento originario (durata di un giorno) a una settimana e di estenderlo a tutti i nuovi ingressi (il digitale aiuta ad essere più inclusivi nei numeri di partecipanti eliminando il problema logistico e di trasferimenti). Nel corso dell’evento i nuovi colleghi, dopo il benvenuto da parte dell’HR e del CEO, si sono messi alla prova risolvendo una challenge dedicata ai valori e identità del gruppo: suddivisi in squadre, i partecipanti hanno così sperimentato un’esperienza di team building cross-function e cross-country, al termine della quale è stato creato un evento live per celebrare le squadre vincitrici.
I nuovi colleghi hanno così ricevuto una overview dell’azienda e allo stesso tempo respirato la cultura aziendale, elemento che, insieme al senso di collaborazione e appartenenza, si corre il rischio di perdere con il lavoro da remoto. Dico sempre infatti che la cultura aziendale è qualcosa che non si impara da slide o da corsi e-learning ma si può “respirare” dalle conversazioni con le persone dell’azienda, osservando e vivendo momenti informali di connessione tra colleghi. La capacità di entrare in sintonia con la cultura dell’azienda e il sapere leggere il contesto in cui si è arrivati, sono a mio parere tra gli elementi chiave che determinano il successo dell’inserimento di un nuovo collega e per questo non si possono perdere.
Da qui la necessità, anche in digitale, di disegnare, prevedere e progettare spazi virtuali dove le persone possano trovare queste risposte e confrontarsi, dove possano sviluppare questo match con la cultura aziendale e un maggior senso di appartenenza ed engagement. Altrimenti lavorare da casa per una qualunque azienda rischia di essere uguale, invece – come nel caso del gruppo De’ Longhi – è il pezzo culturale che aggiunge un enorme valore e senso alla collaborazione tra l’azienda e le sue persone.
In conclusione, le Organizzazioni sono state oggetto di una grande quantità di cambiamenti, dalla chiusura degli spazi di lavoro, alla dispersione degli employee all’affermazione del remote working. L’evoluzione dei processi non accenna ad arrestarsi e le aziende decidono di rispondere a questo impulso introducendo delle strategie di implementazione della digitalizzazione dell’esperienza lavorativa. L’adozione del digitale genera innovazione e obiettivi di business solidi, ma non esclude la centralità del rapporto umano e delle sue competenze che vanno coltivate nell’ottica della valorizzazione e diffusione a tutti i livelli dell’Intelligenza Collaborativa tramite una formazione continua e strutturata che riguarda tutti i livelli aziendali.
Immagine in copertina di Valeria Esposti.
Coordinamento editoriale a cura di Chiara Cravedi.