Cominciamo oggi una collaborazione con Science For Peace and Health, un progetto di Fondazione Umberto Veronesi nato su iniziativa del Professore nel 2009 per sottolineare che la scienza può – e deve – contribuire, con azioni concrete, al raggiungimento della convivenza pacifica e del benessere dell’umanità. Il movimento e la Conferenza annuale vedono il sostegno di protagonisti del mondo della scienza, della cultura, dell’economia, fra cui 16 premi Nobel. La Conferenza, nello specifico, è un dibattito internazionale che quest’anno si svolgerà dal 10 al 13 novembre in partnership con l’Università Bocconi, per analizzare le cause all’origine dei conflitti e proporre soluzioni concrete per il loro superamento. Con due obiettivi di altissimo respiro, condivisi dai protagonisti della scienza, della cultura, dell’economia che vi hanno aderito: diffondere una cultura di pace – soprattutto fra i giovani – e favorire maggiori investimenti in ricerca scientifica, obiettivo culminato quest’anno con la stesura dell’Appello rivolto alle Istituzioni italiane per aumentare gli investimenti nella ricerca scientifica passando, nei prossimi 5 anni, dall’1,43% al 3% del PIL, livello di investimenti caldeggiato dall’Unione europea.
Nel 2020, giunta alla sua dodicesima edizione, la conferenza si è rinnovata nel nome: mantenendo l’idea di fondo che ha fatto nascere il progetto, la centralità della salute come condizione necessaria per la prosperità di tutti è stata posta in evidenza anche nel titolo che è diventato Science for Peace and Health. Nel decennio 2009 – 2019, la Conferenza ha ospitato 23 Premi Nobel per un totale di oltre 427 relatori provenienti da 36 paesi diversi con oltre 33.000 partecipanti, di cui 19.509 studenti. Per questi motivi le Conversazioni che iniziano oggi saranno connotate dall’hashtag #S4PH (Science for Peace & Health).
Inauguriamo il percorso con Fondazione Veronesi approfondendo una questione fondamentale per il futuro dell’umanità: il cambiamento climatico. Lo facciamo guardando al problema da un punto di vista particolare: il possibile impatto della tecnologia denominata “gene editing”.
Il nostro ragionamento prende le mosse da alcuni dati di fatto. La Fao stima un aumento del fabbisogno di prodotti e necessità alimentari del 60% rispetto alla media annuale analizzata dal 2005 al 2007, in relazione alla previsione di crescita della popolazione mondiale stabilita in circa 10 miliardi entro il 2050 (Nikos e Bruinsma, 2012). Tuttavia, la superficie coltivata a livello globale aumenterà in misura trascurabile, riportano le attuali stime. Inoltre, una classe media in crescita, in particolare nelle economie emergenti, richiederà sempre più un’alimentazione variegata che comprenderà prodotti di origine animale. Allo stesso tempo, i consumatori richiederanno prodotti di migliore qualità e salubrità in relazione all’aumento della loro consapevolezza alimentare.
Anche la Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento Europeo ha fornito la stessa stima (McIntyre, 2015) circa l’aumento della popolazione mondiale, sottolineando come la domanda di alimenti sani e di una nutrizione ottimale costituisca una delle maggiori sfide future a livello mondiale. L’agricoltura sarà di conseguenza chiamata a produrre di più in maniera più sostenibile. Una sfida che presuppone un concetto chiave per l’agricoltura, ovvero l’innovazione.
La pagina del Corriere di giovedì 25 marzo dedicata all'”Agricoltura 4.0″ ad esempio esordisce così: “Robot, telecamere, sensori, algoritmi. L’agricoltura, negli anni ‘20 del nuovo millennio, è anche questo. E lo sarà sempre di più. Lo dicono gli imprenditori agricoli, lo certificano i dati dei ricercatori. Il mercato mondiale dell’Agricoltura 4.0, stimato attorno ai 13,7 miliardi di dollari, ha continuato a crescere anche nel 2020 (+76% rispetto al 2019). E anche quello italiano, che ne costituisce circa il 4%, per una stima di fatturato di 540 milioni di euro, con un balzo di circa il 20% rispetto al 2019. Lo certifica l’Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano (che ha lanciato anche un corso di laurea in Agricultural engineering) e dell’Università di Brescia, che stima la superficie coltivata con strumenti di Agricoltura 4.0 nel 3-4% della superficie totale. «In crescita — spiega Chiara Corbo, direttrice dell’Osservatorio Smart AgriFood — ma a livelli ancora lontani dall’obiettivo del 10% annunciato nel 2016 dall’allora ministro delle Politiche agricole Martina per il 2021».”
L’agricoltura di precisione è infatti uno degli strumenti che consentono di raggiungere in pieno il concetto di intensificazione sostenibile della produzione agricola, ritenuto da molti necessario a soddisfare le esigenze alimentari di una popolazione che cresce. Pur essendo stata introdotta a livello sperimentale da circa 20 anni, fatica purtroppo a diffondersi, perché in alcuni casi comporta investimenti importanti e gli agricoltori non sono sempre in grado di comprenderne i reali benefici (Fonte: Agriregionieuropa.univpm.it).
Parliamo di tutto questo con tre personalità d’eccezione: Chiara Tonelli, Prorettore alla Ricerca e professore di Genetica all’Università degli Studi di Milano, leader del gruppo di Genetica Molecolare delle Piante presso il Dipartimento di Bioscienze, Presidente del Comitato Scientifico di Fondazione Umberto Veronesi; Carlo Alberto Redi, Professore ordinario di Zoologia presso l’Università di Pavia, Presidente del Comitato Etico di Fondazione Veronesi, Membro dell’Accademia dei Lincei; Barbara Mazzolai, Direttrice del Centro di Micro-BioRobotica (CMBR) dell’Istituto Italiano di Tecnologia.
Cambiamento climatico ed ecosistema: quale futuro ci attende?
Carlo Alberto Redi – Il tempo cupo e solitario che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo ha funzionato da cartina di tornasole svelando l’origine della pandemia COVID-19: la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità del pianeta. Tra pochi anni saremo ben 10 miliardi e, se vogliamo evitare altre pandemie, è doveroso cambiare le nostre abitudini assai poco rispettose della natura e delle sue componenti ritenute, tout court, risorse economiche inesauribili. E’ dunque imperativo responsabilizzare i cittadini sulla gravità della “questione ecologica” e rivoluzionare gli attuali stili di vita. Siamo giunti al momento in cui i manufatti ed i prodotti dell’uomo (edifici, plastiche, etc.) che ammontano a circa 1.1 teratonnellate (1Tt equivale a 1012 tonnellate) hanno superato la biomassa dei viventi (inferiore ad 1 Tt; vegetali e animali). Le domande di risorse (materie prime, combustibili, legname, alimenti, etc.) e servizi (produzione di ossigeno, assorbimento della CO2 atmosferica, riciclo di nutrienti, capacità di eliminare scorie, etc.) che oggi poniamo al pianeta sono tali che dovremmo disporre di quasi due pianeti (1.6 per la precisione) per soddisfarle.
Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo devastato più dei 2/3 della superfice terrestre per processi di industrializzazione, urbanizzazione e produzione agricola; abbiamo deforestato l’equivalente della superficie del continente africano per l’allevamento intensivo di bovini per la produzione di carne rossa. Attualmente la biomassa dei bovini allevati (più di un miliardo di capi) equivale alla biomassa degli umani (ormai oltre i 7 miliardi); ad oggi circa il 70% della superficie agricola terrestre è impiegata per la produzione di mangimi.
Barbara Mazzolai – Siamo sempre più dipendenti dalle tecnologie, che ci aiutano e ci accompagnano sia nel quotidiano sia nelle emergenze. Tuttavia, le quantità delle tecnologie prodotte negli ultimi anni ci portano adesso davanti a una situazione estremamente preoccupante creata dalla cosiddetta “spazzatura elettronica”. L’allarme è stato rilanciato di recente anche dal nuovo report Global e-waste monitor 2020 a cura della United Nations University, componente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Solo lo scorso anno, abbiamo prodotto 53.6 milioni di rifiuti elettronici nel mondo, con una crescita del 21% negli ultimi cinque anni. Sono cifre impressionanti, che ci impongono di rivedere l’approccio utilizzato nella progettazione e fabbricazione delle tecnologie, e di considerare un sistema che sia più sostenibile, di minimo impatto ambientale, e che preveda strategie di economia circolare su piccola e vasta scala.
Carlo Alberto Redi – Per non dire della plastificazione del pianeta. Sono quasi dieci milioni le tonnellate di plastica che annualmente finiscono negli oceani: un intero camion della spazzatura ogni minuto! Nel 2030 due camion ogni minuto e ben 4 ogni minuto nel 2050. La Fondazione Ellen Mac Arthur stima che vi siano ormai circa 150 milioni di tonnellate di plastica negli oceani; nel 2015 avremo 1 tonnellata di plastica per 3 tonnellate di pesci e nel 2050 più plastica che pesci! La devastazione di interi ecosistemi ha come conseguenza sia la distruzione totale di tanti e diversi habitat (con eliminazione di specie, alcune estinte prima ancora di essere descritte), sia la forzata migrazione di specie in altri luoghi nel tentativo di adattarsi a nuovi habitat, ammassandosi nelle vicinanze di centri urbani, entrando in contatto con gli uomini (per svariate ragioni; sia a causa della fecalizzazione dell’ambiente sia perché vengono cacciati per alimenti).
Perché associare la tecnica del gene editing al cambiamento climatico?
Carlo Alberto Redi – Tra le innovazioni tecnologiche utili per la produzione di specie vegetali dotate di caratteristiche genetiche “personalizzate” così da rispondere ad esigenze di coltura rispettose della attuale situazione (con minore utilizzo di acqua, in ambienti desertici, etc) e con l’impiego di mezzi che oggi sono ancora prototipi ma domani saranno di usuale impiego (plantoidi), vi è anche la tecnica del gene editing.
Chiara Tonelli – Il gene editing è una delle tecniche che la scienza attualmente mette a disposizione per aiutare la natura a resistere al cambiamento climatico in corso. Attenzione però: le piante che possono essere sottoposte alla tecnica del gene editing sono in alcuni casi bravissime ad adattarsi da sole.
Infatti. Tra poco sarà il 35esimo anniversario della tragedia di Chernobyl. Quello che sconvolge è che, nonostante le radiazioni a Chernobyl siano ancora altissime e non ci sia forma di vita umana, in realtà ci sono piante ovunque. Possiamo approfondire questo aspetto? E ci può anche chiedere: le piante sono in grado di “assorbire” le radiazioni?
Chiara Tonelli – Le piante, proprio perché sessili (non hanno la capacità di spostarsi, camminare, fuggire) hanno un DNA plastico, cioè si adattano. Mentre negli animali, ad esempio, un cambiamento del numero di cromosomi non viene sopportato. Nell’uomo gli unici casi che non danno letalità sono il cambiamento del numero dei cromosomi sessuali X e Y e la sindrome di Down con tre cromosomi del 21. Inoltre, ricordiamo che noi siamo diploidi (vuol dire che per ogni cromosoma abbiamo due copie), negli animali i triploidi (tre copie per ogni cromosoma) non riescono a sopravvivere, mentre le piante sì (possono anche essere triploidi). Sono magari sterili perché le meiosi non riescono a formare (se non con una percentuale bassissima) dei gameti che funzionano, ad esempio la banana è triploide e infatti viene propagata in modo vegetativo. Ci sono anche piante tetraploidi come il frumento (il grano duro), mentre il frumento tenero (quello per il pane) è esaploide (ci sono sei cromosomi per ogni tipo). Questi sono esempi per dimostrare che le piante sono molto plastiche da un punto di vista del contenuto del DNA e riescono ad adattarsi. Quando si va in terreni come quello di Chernobyl, dove le radiazioni sono ancora estremamente elevate, si osservano nelle piante mutazioni non solo a livello genico ma anche a livello cromosomico e le piante riescono a sopravvivere. Questo dimostra proprio il grado di resistenza e di plasticità del loro DNA e pertanto la loro capacità di adattamento.
Ci sono piante che sopravvivono anche su terreni molto contaminati con metalli pesanti come piombo e lantanio perché riescono ad assorbire dal terreno queste sostanze letali e le mettono in un magazzino che hanno all’interno della cellula. Questo è un modo (phytoremediation) che si può usare per decontaminare i suoli, anche se ci vogliono anni.
Barbara Mazzolai – Se posso unirmi a quello che dice Chiara, queste capacità di adattamento sono proprio quelle che stiamo studiando anche in robotica: il fatto che una pianta sia spesso colonizzatrice, soprattutto dopo situazioni di disastro o di contaminazione, quindi il fatto che siano così capaci di sopravvivere anche in condizioni estreme e poi anche di cambiare attraverso mutazioni è proprio quello che da un punto di vista morfologico e di strategia stiamo andando a studiare anche nei robot. Quindi le piante ci insegnano molto di più di un animale in questo senso.
Chiara Tonelli – Le piante hanno poi questa grande capacità di interagire con l’ambiente in cui vivono: in genetica è proprio definita Interazione Genotipo-Ambiente. Le piante percepiscono gli stimoli ambientali e attraverso modificazioni epigenetiche, cioè modificando l’architettura del DNA, si adattano. Questa è una loro capacità che si è sviluppata proprio perché non essendo organismi che potevano “tagliare la corda” – come fanno gli animali – hanno dovuto sviluppare nel corso dell’evoluzione questa capacità di adattarsi modificando il loro genoma.
Insomma, le piante sono davvero resilienti…
Chiara Tonelli – Certo. Le piante si evolvono da milioni di anni e poi l’agricoltura, negli ultimi 10.000 anni, ha selezionato piante che fossero in grado di poter produrre secondo quelli che sono i nostri desideri. Ad esempio, una pianta di frumento nel medioevo forniva 4-5 semi mentre adesso ne fornisce molti di più. A quel tempo c’erano le carestie perché una piantina dava 4-5 semi: il contadino poteva mangiarne 2 mentre 3 doveva tenerli da parte per riseminarli. Adesso una pianta produce 100 semi: 3 li teniamo da parte per seminarli e gli altri 97 li mangiamo.
Proprio per contrastare il cambiamento climatico stanno nascendo molte società benefit che hanno come scopo la piantumazione di alberi, come ad esempio Arbolia di CDP e Snam che si pone l’obiettivo di piantare 3 milioni di nuovi alberi entro il 2030 per il rimboschimento e l’assorbimento della CO2 sul territorio italiano, oltre ad aumentare la presenza di aree verdi. Dunque le piante sono un valido strumento per combattere il cambiamento climatico. Avrebbe senso piantare anche alberi editati geneticamente per meglio fronteggiare questa sfida?
Chiara Tonelli – Sì, certo: alberi in grado di resistere agli stress ambientali e agli attacchi di patogeni, insetti, batteri, funghi, ecc. Si potrebbe anche pensare ad alberi con una maggiore efficienza fotosintetica e quindi in grado di assorbire più CO2.
Carlo Alberto Redi – Non ho competenze né da ecologo né da biologo del clima ma attingendo ai miei ricordi di fisiologia vegetale direi di sì. Allargherei però la platea dei possibili benefici derivanti da campagne di intensa piantumazione andando oltre al discorso relativo al ciclo del carbonio (vi sono sistemi di cattura della CO2 ben più efficaci), per approdare a quelli del decoro urbano, dell’arredo nell’ambito della nuova urbanistica che va proponendosi per la vita covidizzata, per incrementare la biodiversità degli insetti ed altri ancora: tutti di grande rilievo per i più giovani e le generazioni a venire.
Direi che adesso possiamo affrontare un altro argomento attuale: che differenza c’è tra la tecnica del gene-editing e quella che conduce agli OGM? Sono la stessa cosa?
Chiara Tonelli – Assolutamente no. Negli OGM viene inserito un gene intero. Facciamo l’esempio delle piante più coltivate: la soia (resistente agli erbicidi), il cotone, il mais, ecc. Gli erbicidi sono sempre stati utilizzati perché è quello che ha tolto l’uomo dalla schiavitù del diserbo. Il diserbo è sempre stato fatto in agricoltura perché le cosiddette “erbacce” sono molto più forti e resistenti delle piante coltivate dall’uomo e competono con queste utilizzando acqua e sostanze nutritive (che quindi vengono sottratte alle piante coltivate). Da sempre le erbacce sono state estirpate a mano. In alcuni film come Riso amaro e molti altri si vedevano le mondine che andavano ad estirpare le erbacce. La svolta chimica ha creato degli erbicidi letali per le erbacce ma non ovviamente per le piante coltivate. Molti di questi erbicidi però non erano sostenibili da un punto di vista ambientale. Negli ultimi anni sono stati sviluppati erbicidi più sostenibili, letali per qualsiasi tipo di pianta (quindi vanno benissimo per tutte le malerbe/erbacce) e degradati dal microbiota presente nel terreno nel giro di uno/due mesi. Per rendere però le piante coltivate, come soya, mais, cotone, resistenti è stato inserito nel loro DNA un gene batterico che fornisce loro la resistenza all’erbicida. Allo stesso modo si è agito con il mais Bt, anche qui è stato inserito un gene preso da un batterio (Bacillus thuringiensis) che produce una proteina tossica per certi lepidotteri (insetti che mangiano la pianta).
Quindi negli OGM inseriamo un intero gene, mentre il gene-editing è una cosa completamente diversa perché cambiamo soltanto una piccolissima parte di un gene. Se immaginiamo che un gene è fatto da 1.000 mattoncini, noi con il gene-editing gliene cambiamo solo 1/2 per fare una proteina leggermente diversa che però va bene alle nostre condizioni. Quindi non andiamo a inserire un gene intero ma andiamo a fare una modificazione precisa e puntuale. Sono modificazioni che avvengono anche spontaneamente solo che, facendola noi, possiamo farla nel gene che vogliamo, nel punto desiderato e con grande velocità. Quindi sostanzialmente è come se fosse una modificazione spontanea: non abbiamo aggiunto un gene, abbiamo solo cambiato 1-2 basi nel gene di interesse in un tempo più ristretto.
Ma questi interventi dell’uomo non corrono il rischio di alterare lo status quo della natura?
Carlo Alberto Redi – Anche la mitica massaia di Voghera si chiede quali siano le cause che (solo per restare a decadi recenti) hanno portato l’umanità a confrontarsi in una successione sempre più incalzante di epidemie/pandemie con HIV, 1980 (da scimmie antropomorfe); Ebola, 1996/2013 (da macachi); Marburg, 1998 (da macachi); Nipah, 1998 (da pipistrelli – maiale; soggetto di un famoso film del 2011 Contagion interpretato da Matt Damon e Gwyneth Paltrow); SARS, 2002 (da pipistrelli – zibetti; identificata da Carlo Urbani poi morto per l’infezione); H5N1, 2003 (da varie specie di volatili); H1N1, 2009 (da maiale); Mers, 2014 (da pipistrelli – cammelli); Zika, 2016 (da zanzare, con la tragedia dei bambini nati da madri infette e portatori di gravi malformazioni neurologiche e microcefalia, i bambini invisibili del Brasile) e Covid-19 ….. ed è in grado di rispondere! Si tratta di zoonosi, di infezioni dovute ad agenti patogeni che per loro natura vivono ben adattati in altre specie animali. Quando si verifica il salto di specie, spillover è il termine tecnico (è anche il titolo dell’istruttivo romanzo/saggio di David Quammen), il sistema immunitario del nuovo ospite è del tutto sprovvisto di risposte (anticorpi) e così si manifesta la virulenza della capacità riproduttiva dell’agente patogeno. Lo studio delle precedenti epidemie ben poteva insegnare il rispetto della biodiversità e dell’ambiente. Tutti questi processi sono un esempio dell’impronta umana sul pianeta e sono carichi di conseguenze di cui il cambiamento climatico è il più noto. Ma non è corretto affermare che gli interventi dell’uomo alterino lo status quo e due grandi linee indicano i possibili rimedi: l’una è il cambiamento degli stili di vita, l’altra è il ricorrere a tecnologie che aiutino a riparare il danno inferto alla biodiversità (entrambe mutualmente necessarie). Ecco perché la tecnica del gene editing può essere un valido aiuto nella salvaguardia della biodiversità.
Chiara Tonelli – Ci si potrebbe chiedere: perché dobbiamo migliorare le piante? Se a Chernobyl crescono nonostante le radiazioni presenti, perché dovrebbe intervenire l’uomo? La risposta è: con il cambiamento climatico in atto le piante hanno bisogno di alcune modifiche perché devono essere molto più resistenti agli stress ambientali (caldo, freddo, siccità, inondazioni) che avvengono con una frequenza molto più alta rispetto al passato. Inoltre, siccome la popolazione aumenta sempre di più ma la superficie coltivabile della terra non può aumentare (perché non possiamo continuare a disboscare), dobbiamo cercare di produrre di più. Proprio per questo motivo abbiamo bisogno di piante che siano più resistenti agli stress ambientali e più resistenti ai patogeni (insetti, virus, ecc.) che stanno aumentando proprio a causa del climate change. Infatti, periodi di caldo con forti piogge fanno sì che aumenti l’umidità e di conseguenza anche le infezioni da funghi. Proprio per queste ragioni dobbiamo rendere le piante il più resistenti possibile ai patogeni anche al fine di utilizzare meno sostanze chimiche e aumentare così la produttività. Ciò si può fare attraverso le “normali tecnologie” (incroci e così via), ma dove non si riesce con gli incroci il gene-editing ci può venire in aiuto. Poi c’è un altro fattore, ossia il tempo: la pianta ha i suoi tempi che potrebbero essere troppo lunghi visto il cambiamento climatico in atto. Si pensi che per fare un esperimento genetico attraverso incroci ci vogliono – nelle piante arboree – 120/150 anni. Non abbiamo tutto questo tempo a disposizione.
E poi anche perché le piante che sono state selezionate per la coltivazione, sotto certi aspetti, sono molto deboli. Questo perché si è selezionato per la produttività a scapito di altri fattori come la resistenza. Se ad esempio prendete le piante di mela sono molto più attaccabili dai patogeni rispetto ai meli selvatici, che sono invece molto più resistenti. Questo accade proprio perché nel processo di selezione che ha fatto l’uomo, ha favorito alcuni caratteri rispetto ad altri. Ha favorito delle mele più grosse e con più gusto (perché le mele selvatiche sono piccolissime e amarissime, a volte contenevano anche sostanze nocive, ecc.) ma meno resistenti.
Quindi si tratta di un fattore di tempo in cui è intervenuto l’uomo per selezionare le piante migliori che però sono più deboli rispetto a quelle selvatiche.
Chiara Tonelli – Sì, esatto, perché l’uomo non ha selezionato la resistenza ai patogeni per favorire la raccolta di mele che fossero migliori per il consumo. Pensate che oggi i trattamenti chimici che vengono fatti alle mele sono più di una ventina e per l’uva è ancora peggio. Per l’uva il gene-editing è voluto persino dai coltivatori perché se si dovesse fare miglioramento per incrocio si perderebbe la caratteristica della pianta, cioè non produco più un amarone ma produco un qualcosa che deriva dall’incrocio fra la pianta con cui faccio l’amarone e un’altra cosa… mentre se io faccio una modifica specifica all’interno di questo mantengo sempre il prodotto tipico.
Quindi possiamo dire che l’esecuzione della tecnica del gene-editing viene richiesta dagli stessi agricoltori?
Chiara Tonelli – Sì, in particolare dai viticultori che lo richiedono per mantenere l’origine del loro prodotto DOP/DOC, proprio perché se si dovessero fare degli incroci non sarebbe più quel prodotto controllato ma sarebbe un prodotto che deriva dall’incrocio, dall’unione di due genotipi diversi. Con il gene-editing invece modifico 1/2 basi e quindi si mantengono le caratteristiche del prodotto originario.
Le piante stanno ispirando anche la robotica di precisione…
Barbara Mazzolai – Proprio così. Il plantoide nasce con l’idea di fare un robot autonomo che, come le piante naturali, sia in grado di muoversi soprattutto nel suolo. Il primo obiettivo del plantoide infatti è stato proprio quello del monitoraggio ambientale ed è stato costruito prendendo ispirazione dalle radici, in particolare dalle loro capacità di crescita e di movimento associato alla crescita per muoversi e superare condizioni estreme dell’ambiente (alte pressioni e alti attriti). Questo quindi è stato il motivo per cui noi siamo partiti proprio dalle radici e non da un animale, cioè il fatto che la radice riesca a penetrare perfettamente nel suolo attraverso una crescita che avviene a livello apicale (la parte più lontana dal fusto) – perché c’è una aggiunta di nuove cellule, un assorbimento di acqua dall’ambiente e quindi un allungamento anche delle cellule e pertanto poi la spinta avviene solo a livello apicale. Questa è una cosa fondamentale perché paradossalmente se una radice fosse spinta dall’alto non riuscirebbe a penetrare in questo modo e la stessa cosa succede con il nostro robot: quindi il robot non viene spinto dall’alto, il robot si muove in maniera autonoma e dunque senza spinta dall’alto (con conseguente richiesta di energia). Tutto è nato da questa domanda: come facciamo a imitare le caratteristiche di un essere vivente come quello della pianta per fare un robot che esplora il suolo?
Il plantoide, nella robotica, a quale domanda di ricerca risponde?
Barbara Mazzolai – La domanda è sia scientifica (legata proprio alla pianta) sia robotica. Ci sono tutta una serie di sfide che dobbiamo affrontare nei prossimi anni anche da un punto di vista tecnologico per fare dei robot che ci aiutino in ambienti che non sono necessariamente quelli industriali dove ormai i robot operano da tantissimi anni e sono molto efficienti, veloci, precisi.
Tuttavia, se noi immaginiamo un robot che si deve muovere in un campo agricolo dobbiamo pensare che si trova ad operare in un sistema mutevole, con intemperie, cambi di stagione, di temperature, ecc. La domanda è partita proprio da lì, cioè qual è l’organismo meglio adattato all’ambiente suolo? Qual è quell’organismo che ci offre anche degli spunti in termini di comunicazione e di “strategie di intelligenza” (con le piante parliamo di “percezione distribuita”, le piante non hanno un cervello però prendono delle decisioni perché sono in grado di analizzare tantissime informazioni e prendere quindi delle decisioni). Quello che ci interessa delle radici non è solo il fatto che loro si muovano in maniera capillare nel suolo, ma è anche il fatto che le piante hanno delle capacità percettive. Quindi le piante esplorano il mondo e la loro crescita è guidata anche da una risposta a un gradiente di acqua o ad un sale nutritizio, evitano gli ostacoli, fissano degli inquinanti oppure li evitano, ecc.
Sembra che le piante agiscano secondo una strategia ben definita… proprio come è descritto in maniera poetica nel libro vincitore del Premio Pulitzer 2019 Il sussurro del mondo, di Richard Powers, che per potenza e completezza è stato paragonato al Moby Dick di Melville (nel senso che Powers riesce a narrare il mondo delle piante con risultati letterari che si avvicinano a quelli ottenuti da Melville quando racconta quello delle balene). Nel mio piccolo, nel romanzo in progress Ariminum Circus, all’Episodio (Amarcord) Jay e Daisy, così descrivo un ballo dei due protagonisti: “Quella stessa sera, sui gradini all’ingresso del Grand Hotel, Jay e Daisy ballarono un fox-trot di Bruce Springsteen: per ore, sulle note di una musica che sentivano solo loro e alla formazione della quale partecipavano insieme alle piante del parco, dirette da un contorto ficus Bodhi rosso. Connessi alla vita segreta del giardino erano Viola e Cosimo, Tarzan e Jane, Adamo ed Eva – nel sogno perenne degli alberi, indifferente all’avvicendamento circadiano veglia-sonno, all’espandersi e al contrarsi dell’Universo, all’alternanza di Yin e Yang. Le conifere cantavano. I bossi si scambiavano melodie. I semi prendevano decisioni sulle chiavi da usare. Il Wood Wide Web delle radici dettava lo spartito, dava il via agli assoli, controllava il Tempo e lo Spazio. Il ritmo della jam session era quello del pulsare delle onde sulla battigia, che arrivava attutito dai banchi di mucillagine. Un algo-ritmo”.
Barbara Mazzolai – Certo. C’è una sorta di strategia decisionale per le piante che formano delle reti (non è una singola “sonda” ma un intero sistema radicale che si muove in direzioni diverse, esplorando il sistema e così via). Paragonandolo a un sistema animale, possiamo dire rispetto a un singolo animale è come se avessimo quasi una colonia: vi sono tanti apici radicali che esplorano l’ambiente, comunicano con l’ambiente circostante e internamente e quindi ottimizzano anche le loro strategie di ricerca. Questo è proprio ciò che ci interessa: rispetto a quella che in robotica è considerata “l’intelligenza di sciame” dove spesso abbiamo questi singoli “agenti” che possono essere formiche o altri organismi, qui abbiamo un unico organismo che ha tanti sistemi che esplorano. L’altra cosa affascinante della pianta è che è l’unico organismo che vive nel suolo ma che ha anche una parte che si trova in un ambiente totalmente diverso (la parte aerea). È come se fosse un organismo che ha due vite in parallelo e questo lo rende ancora più interessante da un punto di vista biologico e artificiale perché significa che noi possiamo prendere ispirazione dalla pianta sia per come cerca ed esplora nel sottosuolo ma anche per tutto quello che è la parte aerea. Quindi lo studio è partito proprio da qui, dal bisogno al tempo stesso di una domanda scientifica (cioè come fa la pianta ad adattarsi ad un ambiente difficile come quello del suolo) e pensando ad una sua applicazione (che è proprio quella del monitoraggio ambientale dell’agricoltura e così via).
Chiara Tonelli – Una cosa che mi affascina molto delle piante è che all’apice dello stelo c’è un gruppetto di cellule staminali le quali in condizioni normali si differenziano in foglie (quindi la pianta cresce). A un certo punto arrivano dei segnali dall’ambiente che riguardano luce (ore di luce, qualità della luce, ecc.) e temperatura, e la pianta decide che queste cellule staminali invece di differenziarsi in foglie devono differenziarsi in fiori per riprodursi. Non solo. Se ci sono condizioni ambientali peggiori (ad esempio un periodo di siccità), allora la pianta può decidere se accorciare o dilazionare il tempo di fioritura. Può decidere di fiorire subito perchè è meglio fare pochi semi ma farli subito prima di morire per la siccità. Quindi in questo caso per la pianta non è importante che ci sia la luce giusta o la temperatura giusta, l’importante è fare i semi subito per non rischiare di morire. In pratica le piante attraverso sensori (fotorecettori/recettori della temperatura) riescono ad integrare segnali multipli e prendere delle decisioni importanti per la loro crescita/sopravvivenza attivando una serie di geni.
Barbara Mazzolai – Mi affascinano molto queste cose. Le piante riescono a prendere delle decisioni, a fare una sorta di analisi costi-benefici, ad analizzare le situazioni sulla base delle informazioni, a integrare tantissimi dati. Anche per questo possono offrire dei grandi spunti per nuove tecnologie in robotica e per l’intelligenza artificiale, dove una delle sfide attuali è come gestire l’elaborazione di grandi quantità di dati e di scelta di un determinato comportamento.
Chiara Tonelli – È vero. Quando in seguito ad uno stimolo ambientale andiamo a fare l’analisi dei trascritti dei geni notiamo che cambia il trascritto di 2-3 mila geni quindi non è un gene solo che cambia ma tantissimi, a riprova che le piante devono prendere decisioni anche estremamente complesse.
Barbara Mazzolai – Al di là dell’aspetto biologico comunque molto affascinante, ciò che lascia più a bocca aperta è proprio questa capacità di analizzare tantissime informazioni.
Chiara Tonelli – Un altro semplice esperimento: un po’ di anni fa stavamo studiando dei geni che poi abbiamo chiamato touch genes. Abbiamo fatto crescere delle piantine di Arabidopsis e, per 20 giorni consecutivi, abbiamo toccato leggermente con un dito sempre la stessa foglia. Alla fine dell’esperimento abbiamo notato che le piantine le cui foglie erano state toccate, erano cresciute molto meno rispetto a quelle mai toccate. Questo che significato ha? Significa che le piante che vengono toccate tendono a rimanere più basse. In natura questo capita quando le foglie di una pianta vengono toccate dalla pianta vicina a causa dei movimenti dovuti al vento. E’ come se la pianta dicesse “se c’è vento è meglio che io cresca poco perché più alta divento più c’è il rischio che mi possa spezzare, che possa essere sradicata dal suolo e quindi è meglio se sto bassa”. Tutto parte semplicemente da un leggero tocco sulla foglia.
Barbara Mazzolai – E forse ancora abbiamo studiato e capito poco delle piante, della loro complessità, di quanto siano evolute. Spesso l’opinione comune è che una pianta sia passiva e non faccia nulla ma se consideriamo tutte le cose dette oggi non è per niente così. Sono dei nuovi calcolatori, sono in grado di analizzare e processare delle informazioni senza che ci sia un’intelligenza centrale o un cervello. In una pianta ci sono tanti decisionali, tanti punti di analisi delle informazioni che poi vengono integrate e portano ad una decisione. È un nuovo modo di prendere decisioni che è molto legato proprio al materiale stesso, alla forma, all’interazione con l’ambiente, come dici tu Chiara. Quello che si utilizza oggi è un approccio nuovo, a cui non siamo abituati, un approccio che va oltre il classico umanoide. Noi facciamo piante proprio a partire dall’intelligenza artificiale, dai materiali, dai sensori, dall’energia. Oggi possiamo progettare avendo già nel progetto quello che poi avverrà: se noi studiamo un seme a livello di struttura possiamo già capire come diventerà (il seme ha già il magazzino di riserva, ecc.). Eppure, non dimentichiamoci che la struttura che trasporta il seme è morta, non c’è energia metabolica. È quindi tutto già definito: con determinate condizioni di luce, determinate condizioni di umidità e di temperatura, se trovo quel determinato terreno io so già che a un certo punto nasce la vita.
Chiara Tonelli – E poi attenzione: i semi non germinano finché non hanno avuto/vissuto un periodo di freddo, perché il fatto di avere sperimentato un periodo di freddo gli fa dire “bene, l’inverno è finito e adesso ci sarà la primavera quindi posso germinare”.
Barbara Mazzolai – Attraverso il robot abbiamo validato qualcosa che in biologia già si sapeva, ovvero la crescita dalla punta. Attraverso il sistema robotico abbiamo visto anche come ciò avviene: facendo un’analisi comparativa tra un sistema che viene spinto dall’alto e un sistema che invece è in grado di crescere dalla punta, abbiamo visto che nel secondo caso il sistema è molto più efficiente energeticamente perché risparmia più del 70% di energia e anche molto più veloce (oltre il 40% più veloce). Quindi è ovvio che la pianta ha bisogno di fare la stessa cosa perché magari una pianta semplice con un milione di apici non può permettersi di spendere energia nel muoversi in un ambiente così difficile. Queste cose sono le regole per progettare i robot di domani, quindi dei robot che veramente possano agire in un ambiente reale, darci diverse informazioni come ad esempio eventuali inquinanti nel suolo e nell’aria, quanta acqua devo somministrare a quella pianta, l’eventuale presenza di condizioni potenzialmente pericolose. L’obiettivo a lungo termine è di avere delle macchine capaci di movimento, con dei sensori e dei comportamenti ispirati alle piante che forniscano dati che poi vengono analizzati con processi anche basati su intelligenza artificiale e che forniscano poi conoscenza all’operatore umano. In questo modo si potrebbe intervenire in maniera ancora più accurata, cioè utilizzare meno acqua, meno pesticidi, risparmiare così nei costi e quindi essere sempre più virtuosi sia da un punto di vista ambientale sia nell’ottimizzazione delle risorse (è quell’agricoltura di precisione di cui tanto si parla, che è sicuramente ottima ma che richiede del tempo e soprattutto molti dati per essere implementata).
Quindi è corretto affermare che, al momento, il campo di applicazione dei plantoidi è nell’agricoltura. Io ci ho scherzato un po’ su in Assenzio e Madeleine (Episodio 2 della Quarta Stagione di Ariminum Circus): “Ai lati della via maestra, presso le case coloniche, si separavano i chicchi di grano dalla pula. Ogni tanto nella penombra si presentava il profilo di un carro colmo di strame, e la bianchezza d’acciaio dei buoi si appressava con l’alito mite del presepio. In un’atmosfera comunque pesante, va detto, con tutto quel fertilizzante chimico in giro, sparso dai droni spandiconcime (gli Exacta CL con terminale Isomatch Tellus di Kverneland, dotato del sistema di geo-referenziazione e di un apposito software per il dosaggio variabile, N.d.R.), mano a mano che i trebbiatori satellitari terminavano il loro lavoro. Ci addentrammo fra le campagne, nella quiete fra il passaggio di uno sputacchiante plantoide (il robot ispirato alle radici delle piante per l’esplorazione dei suoli, N.d.R.) e l’altro (la macchina è in grado di muoversi nel suolo costruendo il proprio corpo. Il processo consiste in una stampante 3D miniaturizzata all’interno dell’apice radicale robotico che consente la deposizione di strati successivi di un materiale termoplastico, imitando così la crescita naturale, N.d.R.), appena velata dal ronzio proveniente dalla rete di sensori e antennine (con cui gli agricoltori tengono sotto controllo i dati relativi alla temperatura, al livello di acidità dei terreni, al grado di maturazione delle sementi e milioni di altri, N.d.R.). Oddio, anche i robobuoi made in Sant’Arcangelo (“robobuoi dei paesi tuoi!”, era lo slogan scelto dalla Direzione marketing della ditta produttrice, la Acme, N.d.R.) non erano proprio in classe A, quanto a rumorosità”. Ma, scherzi a parte, si tratta di un tema cruciale, è corretto ?
Barbara Mazzolai – Sì, al momento le applicazioni sono l’agricoltura e il monitoraggio ambientale. L’idea di partenza è prevalentemente quella, poi ci possono essere anche altre applicazioni perché tu alla fine hai un sistema dotato di sensori che potenzialmente può essere usato anche in archeologia o altro. È un supporto decisionale, vi è il vantaggio che essendo dei robot si possono lasciare agire per il tempo necessario (senza il bisogno di un operatore umano che va sul campo), sempre comunque considerando che le tecniche di laboratorio sono molto più precise e sofisticate e quindi questi robot senza ombra di dubbio vanno sempre affiancati con tecniche più precise e con un occhio anche dell’esperto (dell’uomo). A gennaio è partito un altro progetto dove noi ci ispiriamo ai semi delle piante per realizzare dei robot che vanno nell’ambiente (ispirati all’Erodium cicutarium e ai semi Samara) e riproducono le capacità di movimento associate all’ interazione con l’umidità dell’aria. Inoltre hanno dentro anche dei materiali che interagiscono per esempio con il mercurio e la CO2, emettono una fluorescenza che verrà letta poi da un sistema di telerilevamento che appunto legge questa fluorescenza su dei droni. Questi materiali inoltre sono biodegradabili.
Chiara Tonelli – È con questo che hai preso l’ERC? Complimenti!
Barbara Mazzolai – Grazie. Il progetto sui robot ispirati ai semi è in realtà un progetto FET (Future Emerging Technologies). L’ERC l’ho preso invece proponendo lo studio della rete di comunicazione tra piante che è mediata dalle simbiosi tra le loro radici e i funghi (fenomeno chiamato anche “Wood Wide Web”), allo scopo di realizzazione di un nuovo modello di reti di robot pianta, muniti di intelligenza artificiale e dotati di un comportamento collettivo, per monitorare la salute del sottosuolo. Il Wood Wide Web è strettamente legato al cambiamento climatico con un ruolo nel fissare la CO2. L’obiettivo è fare tecnologie partendo da questi studi di interazione e creare dei robot che alla fine dovranno anche rilasciare spore nell’ambiente e dovranno facilitare la formazione di queste simbiosi. Quindi, anche in questo progetto c’è molta biologia e borse di studio per cui potrò attivare delle collaborazioni anche con i biologi che si occupano di queste tematiche: l’argomento è talmente ampio che richiede degli studi in profondità che nei nostri laboratori di robotica non possiamo fare. In tutti questi progetti cerco sempre di trovare delle collaborazioni con esperti del settore perché nel momento in cui cerchi di quantificare il fenomeno sorgono moltissime domande che spesso rimangono irrisolte. Per esempio, tutta la parte del rapporto tra la crescita e l’allungamento è da studiare. Nei robot non abbiamo ancora l’allungamento ma solo la crescita: induciamo la crescita attraverso una stampante 3D nel robot, quindi il robot effettivamente cresce dalla punta, però come detto manca tutta la fase di allungamento (cioè uno strato depositato poi non viene allungato), mentre nella pianta la fase di allungamento è importante (vi è quindi una fase di crescita e una fase di allungamento). Anche nell’efficienza di penetrazione sarebbe interessante capire quale di questi due componenti/fattori sono più determinanti nell’applicare una pressione più importante nella penetrazione del suolo, perché renderebbe molto più efficiente il robot e chiarirebbe anche il meccanismo di crescita della pianta.
Quindi capendo ciò si potrebbero sviluppare tutta una serie di strategie a seconda dei terreni (anche per quanto riguarda il piantare le piante, ecc.). Bisognerebbe quindi capire dove possono essere più resistenti, studiare ad esempio le loro capacità di ancoraggio, l’angolo che formano a seconda della durezza del suolo, ecc. Sono tutte caratteristiche che servono ovviamente da un punto di vista robotico ma che potrebbero anche dare delle spiegazioni sul comportamento delle piante. La cosa veramente affascinante è che basta che ci sia una fessura per far sì che la radice passi. La radice entra in una fessura e si allarga, cioè crea una frattura e cresce di dimensioni. Questa capacità della radice è favolosa perché se noi riuscissimo in futuro a creare dei sistemi autonomi per la penetrazione nel suolo, sarebbe veramente molto più sostenibile rispetto alla trivellazione. La trivellazione distrugge tutto perché quando si spinge dall’alto si crea talmente tanta energia nel suolo che distrugge tutto quanto.
Ricordiamoci che il suolo è fondamentale perché quello che avviene nel suolo ha influenze su quello che succede poi sopra il suolo, quindi il suolo andrebbe preservato molto di più. La rizosfera è fondamentale per il benessere degli ecosistemi in cui viviamo, invece noi pensiamo che sotto i nostri piedi non ci sia niente o che comunque non sia importante. La tecnologia quindi ci può aiutare a capire cosa fa una pianta insieme a un fungo, un batterio o altri organismi. Con la tecnologia potremmo capire meglio questi fenomeni e poi creare delle macchine che funzionano meglio. Adesso fare un robot autonomo per il suolo è una sfida enorme perché sono veramente tante le caratteristiche che un robot dovrebbe avere per avvicinarsi anche vagamente a quello che riesce a fare una radice.
Si sta quindi cercando di mettere insieme molte applicazioni. L’ambiente potrebbe senza dubbio essere una delle nuove professioni, potrebbe aprire nuovi mercati (le aziende produrrebbero nuove macchine, svilupperebbero sensori chimici, ecc.). Noi stiamo studiando anche le piante rampicanti e in particolare quello ci interessa è come molte di loro (non tutte ovviamente) trovano un supporto per arrampicarsi e crescere. E, ovviamente, le piante non hanno occhi, pertanto le strategie sono totalmente differenti. Allora ci siamo messi a studiare la relazione, ad esempio, tra lo scototropismo e il fototropismo soprattutto nelle piante in ombra che non hanno lo stimolo della luce e quindi non possono essere guidate dalla luce. Queste piante vanno a percepire allora il rosso oppure la riflettanza di un ostacolo, ecc. Stiamo proprio cercando di compiere studi in questa direzione perché questa è la strategia di un robot che si muove in un ambiente complicato senza poter usare la visione perché la visione comunque costa da un punto di vista energetico e computazionale (perché io ricevo delle immagini che devo analizzare e poi il robot decide se andare da una parte dall’altra). Allora l’obiettivo è proprio quello: avere un robot che, sulla base di altre capacità sensoriali, diriga la propria crescita. Stiamo provando a studiare proprio questi aspetti, però è ovvio che farlo con degli esperti di genetica è molto più utile ed efficace.
Chiara Tonelli – Certo. Se si vuol capire come funziona una cosa (ad esempio la radio) devi cominciare a rompere una parte di essa e vedere cosa succede. È proprio quello che facciamo noi genetisti: per capire come funziona un gene facciamo delle mutazioni e vediamo cosa succede.
Barbara Mazzolai – Finora noi abbiamo sempre studiato mais – anche per la parte radicale – perché è più resistente, è più facile da crescere, ecc. Adesso iniziamo con l’Arabidopsis con una biologa che da poco si è aggiunta al nostro gruppo.
Chiara Tonelli – La conclusione che possiamo trarre è che l’agricoltura del futuro è un’agricoltura più sostenibile per il pianeta e con un approccio multidisciplinare. Quindi dobbiamo prendere spunto da tutte le tecnologie che sono messe a disposizione per arrivare a un’agricoltura che sia più amica dell’ambiente e quindi più sostenibile.
Carlo Alberto Redi – Direi che su questo punto dovrebbe convenire la società tutta e, soprattutto, i decisori politici
Barbara Mazzolai – L’approccio deve essere necessariamente multidisciplinare. Se devo progettare un robot che deve inserirsi in un determinato ecosistema, devo tenere in considerazione il suo potenziale impatto ambientale. Non posso quindi prescindere dalle conoscenze in biologia, scienze ambientali, materiali, e dall’interazione uomo-macchina o tra macchina e specie animali o vegetali. La sfida è affascinante e i team di lavoro in questa direzione sono molto eterogenei: ingegneri, biologi, esperti ambientali, di materiali, di nanotecnologie, matematici, e chi si occupa di studiare il rapporto uomo-macchina.
Da un’agricoltura dove si guardava alla luna per individuare il momento migliore per la semina siamo arrivati a sistemi avveniristici guidati dai robot e finalizzati alla sostenibilità da un lato, e a far fronte a ai cambiamenti climatici dall’altro (ad esempio, attraverso la messa a punto di strumenti che vadano a centellinare l’utilizzo delle risorse proprio perché non sono infinite, ecc.). Possiamo dire che il filo rosso è la tecnologia: il gene-editing, il plantoide, ecc.
Chiara Tonelli – Non c’è una ricetta unica. L’obiettivo è produrre di più utilizzando di meno, quindi devo produrre di più utilizzando meno terra e utilizzando meno risorse e per far questo utilizzo tutto ciò che mi serve (dai robot ad un approccio più conservativo come può essere l’incrocio, al gene-editing e così via). È come se avessi una cassetta degli attrezzi e questa la utilizzo al fine di produrre di più utilizzando meno.
Barbara Mazzolai – Assolutamente d’accordo, avete fatto una sintesi perfetta perché l’obiettivo è proprio quello, ovvero produrre di più preservando. Tutto passa dalla conoscenza: se riusciamo ad aumentare la conoscenza anche dei fenomeni complessi che avvengono negli ecosistemi riusciamo forse anche a intervenire in maniera più ragionata, ad essere più produttivi, a risparmiare risorse, ecc. Dobbiamo ricordarci che è tutto collegato, spesso ci sfugge questa cosa. In realtà siamo molto più collegati e uniti di quello che pensiamo. Di conseguenza, la conoscenza che passa attraverso discipline anche non necessariamente tecniche (discipline che studiano i popoli, le loro abitudini, ecc.) andrebbe comunque considerata.
Carlo Alberto Redi – Ma certamente! siamo frutto della tecnologia! E’ solo l’ignoranza di aspetti storico-evolutivo che fa gridare aiuto e temere la tecnologia. La tecnologia è intrinseca alla Scienza, con la s maiuscola, non è banalmente l’applicazione tecnica degli avanzamenti del sapere. Da Cartesio in poi è connaturata al fare Scienza. E’ la politica (l’arte di trovare compromessi tra diverse esigenze) che deve proporre scelte applicative a cittadini informati. Qui si potrebbe parlare e scrivere per giornate intere, la letteratura al riguardo è sterminata. Mi limito a ricordare che i principi etici che debbono guidare le necessarie scelte tra diverse opzioni è bene che si rispecchino nell’etica della responsabilità: ciascuno di noi può e deve responsabilmente contribuire a consegnare alle generazioni a venire un pianeta ancora vivibile: ad oggi non siamo stati dei buoni antenati.
Possiamo concludere affermando che la tecnica del gene – editing può rappresentare un aiuto per la sopravvivenza della biodiversità e la salvaguardia degli ecosistemi, come pure gli organismi OGM possono svolgere un grande ruolo se utilizzati al di fuori dell’agricoltura intensiva. Non ci sono controindicazioni se si fa sempre una valutazione caso per caso e costi e benefici. Ciò che distrugge la biodiversità infatti sono il metodo intensivo e le monocolture, non il tipo di piante che si impiegano. Volendo fare una previsione si può dire che la tecnica del gene editing sarà ampiamente utilizzata nel futuro prossimo venturo. Ma tutto sarà vano se non sarà radicalmente cambiata la politica di produzione alimentare.