Dal febbraio 2020 il mondo è stato catapultato in una realtà da film horror: la diffusione repentina e ampia del virus Covid-19 ha colto impreparata la maggioranza delle società occidentali e orientali, riversandosi con effetti dirompenti sul tessuto economico e sociale, mettendo le organizzazioni di fronte a una serie impressionante di nuove sfide.
Se da un lato la contingenza ha sicuramente accelerato processi di cambiamento già in atto nel mondo del lavoro e ha forzato alcune convinzioni consolidate, dall’altro il cambiamento innescato, in alcuni casi, è parso “momentaneo e precario” in attesa di un ritorno alla “normalità” pre-pandemica.
Ad oggi, non solo è difficile ipotizzare un ritorno ai precedenti modelli, ma occorre ulteriormente inquadrare le evoluzioni delle aziende nei prossimi mesi come parte di un processo a lungo termine. Un processo che difficilmente approderà ad un “new normal”; piuttosto, ad un alternarsi di “next normal” cui adeguarsi rapidamente.
Come ricordavo in una Conversazione con Mario Perego e Franco Ferrario qualche giorno fa, questo scenario pone al centro dell’attenzione un concetto centrale dello Humanistic Management, la Cura: una parola di enorme spessore. Nella storia della filosofia moderna è stato soprattutto Martin Heidegger a valorizzarla in una riflessione che parte dalla rilettura di Platone. Per Heidegger l’uomo (l’esserci) ha come sua determinazione esistenziale l’essere-nel-mondo, ovvero la relazione con gli altri enti, quelli che in termini aziendalistici chiameremmo risorse tecniche, economiche ed umane.
E questa relazione costitutiva, in cui consiste propriamente la nostra umanità, si qualifica come un prendersi cura degli altri enti, in particolare degli altri uomini. E possiamo prenderci cura di loro, dice Heidegger, in due modi: ponendoci al loro posto, sottraendo loro il proprio prendersi cura, quindi dominandoli e rendendoli dipendenti da noi; oppure aiutandoli nel loro prendersi cura, affinché divengano trasparenti a se stessi e liberi nella propria cura. Nel primo caso si avrà una coesistenza inautentica, nel secondo caso una autentica.
Questo assunto farà da guida alle Conversazioni che prendono vita da oggi (raccolte attraverso l’hashtag #EmployeeCaring) e seguiranno nelle prossime settimane, con l’obiettivo non tanto di definire l’assetto e la forma delle organizzazioni post-Covid, quanto di identificarne gli ambiti prioritari di intervento e fornire alcune linee guida su come far sì che questa evoluzione diventi sistemica e si trasformi in un turning point strategico.
Iniziamo il percorso con Rosario Sica, CEO di OpenKnowledge-Gruppo Bip, che ha appena pubblicato un volume intitolato Dall’employee experience all’employee caring. Le organizzazioni nell’era post Covid-19, Paolo Iacci – Presidente di ECA Italia e di AIDP Promotion, nonché autore di numerosi volumi di management e sviluppo delle risorse umane – e Fabio Troiani – CEO del Gruppo Bip e autore di diversi articoli sull’innovazione applicata all’impresa e del libro Chief Information Officer, la sfida dell’innovazione pragmatica.
È indubbio che la pandemia, di cui tutti conosciamo i tragici effetti in termini di vittime, ha dato avvio anche alla profonda crisi socio-economica che le aziende si trovano a fronteggiare: da un lato tutelando per quanto nelle loro possibilità i lavoratori, dall’altro, ripensando profondamente modelli organizzativi ed operativi consolidati.
Quali sono gli elementi imprescindibili da prendere in considerazione in questa situazione mai prima sperimentata?
Mi sento di dire che prima di tutto ci sono le persone. Perché? Perché di fronte al calo di fiducia nel potere istituzionale dello Stato, le persone hanno riposto ancora più fiducia nelle aziende, innalzando così l’asticella delle aspettative
Oltre alla sicurezza, le aziende hanno dovuto rispondere alla crisi pandemica incorporando un livello di attenzione e cura maggiore verso le persone accogliendo le loro nuove priorità: concetti come salute, famiglia, lavoro hanno assunto ancor più valore per le persone, mettendo le aziende sì di fronte ad una tragedia, ma anche ad un’opportunità. Sono fortemente convinto che tutte queste iniziative di vicinanza abbiano un “perché” di fondo.
Un perché che definirei come “perché collettivo”, fondamentale e necessario per creare un nuovo senso di fronte allo spaesamento (per usare un altro termine di derivazione heideggeriana) causato dalla pandemia.
Mi unisco alla tua riflessione, Paolo, per sottolineare ancor più l’importanza dell’attenzione e della cura verso le persone. Un’attenzione che sicuramente le aziende hanno dovuto irrobustire, per evitare di subire l’ineluttabile effetto di desocializzazione causata dal remote working.
Ti riporto l’esempio della nostra realtà aziendale – il Gruppo Bip: la struttura ha una diffusione capillare non solo sul territorio italiano, ma anche all’estero; per noi quindi era essenziale instaurare tra le sedi e i dipendenti una rete di contatto solida, una rete di comunicazione che consentisse alle persone di rimanere ancorate all’unica certezza che in quel momento avevano – il supporto dell’azienda.
Durante questi mesi abbiamo fatto tutto ciò che era necessario per mantenere vivo il legame tra azienda e persone attraverso la parte più stimolante del nostro lavoro, che è quella inclusiva, comunicativa e di incontro. L’intervento si è esteso anche all’assistenza domiciliare: ci siamo assicurati che tutti avessero accesso ad analisi e tamponi necessari a garantire la prosecuzione di un minimo di vita sociale. Questo intervento ha aiutato a mantenere coesione di intenti all’interno di tutte le aree del Gruppo, nonché nella relazione esterna con i clienti, a cui i nostri dipendenti hanno continuato a fornire supporto di qualità, forti della solidità e compattezza dell’azienda.
Siamo tutti concordi nel riconoscere che COVID-19 ha causato e sta tutt’ora causando enormi disastri nel mondo, tuttavia credo che stia a noi abbracciare davvero il cambiamento a cui ci ha costretti e trasformare questa enorme calamità in una grande opportunità.
In questo senso, credo che le organizzazioni per come le conosciamo debbano essere totalmente ripensate. Alcuni cambiamenti sono già stati “obbligati” dalle circostanze: pensiamo all’accelerazione tecnologica a cui il virus ha costretto l’intero sistema economico pubblico e privato (la valutazione di analisti e manager a questo riguardo è che la pandemia sia riuscita a determinare in pochi mesi i livelli di digital adoption che si sperava di raggiungere nei prossimi quattro o cinque anni), alla diffusione del concetto di “remote working” prima sulla bocca di pochi imprenditori e nei processi di ancora meno imprese (per lo meno nostrane), alla spinta alla collaboration e alla semplificazione dei processi che ne sono conseguiti.
Non tutti questi cambiamenti però sono frutto di un processo ottimale o hanno raggiunto risultati che possiamo definire soddisfacenti.
Come sottolineato da Paolo e Fabio, l’attenzione alle persone è la vera chiave di volta. Va in questa direzione il concetto di “Employee caring” che ho espresso nel mio libro: caring inteso non come ruolo genitoriale assunto dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, ma come visione sistemica che, a partire dal conosciuto concetto di Employee Experience, va nella direzione di una presa in conto molto più completa dei bisogni delle persone, includendo un’attenzione alla sfera psicologica ed emotiva dei propri collaboratori che la pandemia ha reso quanto mai necessaria.
Le risposte precedenti lasciano trasparire l’importanza del ruolo che le aziende ricoprono oggigiorno; la loro funzione non si limita più a fornire un’occupazione, ma si spinge oltre. Rappresentano un pilastro nella vita dei singoli, specialmente in periodi di crisi e incertezza come quello vissuto, che purtroppo si accinge a prolungarsi per un tempo ancora indefinito.
Dunque è giusto interrogarsi non solo sul ruolo sociale che hanno le organizzazioni, ma anche sulle modalità che hanno adottato in questa fase per esercitarlo. Il modello lavorativo attuale dello “smart working” consente infatti al dipendente di organizzarsi in maniera autonoma. Ma si tratta di un nuovo benefit che l’azienda offrirà ai suoi dipendenti in maniera strutturale anche dopo l’emergenza, oppure di una soluzione forzata che in molti hanno adottato in via transitoria?
Per rispondere a questa domanda devo formulare una premessa, per confutare alcune convinzioni legate alla remotizzazione del lavoro. Non è sempre detto che lo smart working determini maggiore produttività: la determina solamente se alla base del costrutto aziendale ci sono un supporto tecnologico e un’organizzazione valida. È importante non attribuire un ruolo salvifico alla tecnologia, che è solo uno strumento e non sempre rende il lavoro smart. Fatta questa premessa, riprendo il concetto di spaesamento citato prima, determinato non solo dalla situazione sanitaria, ma dal cambio di paradigma che ha visto coinvolte le aziende.
Siamo passati da un modello basato sul paradigma “comando e controllo” (Scientific Management, ndr) a uno orientato alla “pianificazione e al monitoraggio” dei risultati. Cosa comporta tutto questo? Un urgente ripensamento dei processi da parte della leadership, ma anche un ripensamento del proprio ruolo da parte del dipendente, il quale non è più chiamato ad espletare un compito, ma al raggiungimento di un obiettivo. Detto ciò, ritengo che uno dei principali rischi dello smart working sia quello di porre il dipendente in una situazione di perdita di significato: se quelli che erano i driver principali di motivazione (necessità, socializzazione) vengono meno, quale diventa la risposta alla domanda “perché lavoro”? Le aziende devono spingere sulla creazione di nuove motivazioni, aiutare a trovare dei perché legati al senso e al valore. Senza motivazione ci sarà una partecipazione passiva e obbediente, con il conseguente tracollo dell’intero tessuto aziendale.
Il tema dello smart working fa poi sorgere altre questioni pratiche: come regolamentare ad esempio eventuali infortuni sul lavoro nel momento in cui la prestazione lavorativa non avviene più in una sede fissa? Come salvaguardare la salute del dipendente? Diventa quindi impellente la necessità di una revisione approfondita delle dinamiche sindacali e giuslavoristiche. Non solo, il lavoro cosiddetto smart risulta, per una buona parte della popolazione del mondo del lavoro, un ostacolo determinato dal digital divide che è oggi ancora elevato. Le aziende dovranno dunque avviare un forte processo di formazione sia dei dipendenti che dell’intera leadership, bisognerà riformulare le pratiche formative in funzione dei nuovi bisogni emergenti.
Rispondo alla domanda di Marco partendo proprio dal concetto di paradigma introdotto da Paolo. Un cambio di paradigma pienamente in corso, anche se non tutte le aziende sono state in grado di percepirlo, seguirlo e adottarlo.
Cosa intendo? Intendo dire che al momento dell’interruzione delle normali attività lavorative a causa dell’irrompere della pandemia e all’insorgere della necessità di adottare strumenti digitali per proseguire il lavoro, non tutte le realtà hanno saputo rispondere in modo ottimale. Chi era già avvezzo e incline a una modalità di lavoro digitale ha implementato gli strumenti e le infrastrutture a disposizione in tempi relativamente brevi e senza incontrare particolari complicanze, altre realtà con un mindset meno digitale si sono trovate invece in grande difficoltà. Tutto il mondo del lavoro è stato comunque chiamato a “ripensarsi” e sviluppare un approccio al digitale approfondito in tempi brevi nel tentativo di continuare a generare valore.
Il passaggio dal lavoro fisico al lavoro digitale ha certamente rappresentato un passaggio complesso, ma non insormontabile: credo che il remote working, se correttamente impostato, rappresenterà una fondamentale variazione dell’organizzazione del lavoro negli anni a venire. Certo, come sottolinea Paolo, occorre offrire strumenti di upskilling/reskilling e porre grande attenzione al benessere psicologico degli individui; occorre farli comunicare a distanza creando reti comunicative e di scambio solide e funzionali.
Concordo con voi, credo che il remote working possa rappresentare un nuovo modello di riferimento per le organizzazioni. Se pensiamo però al boom che il cosiddetto “smart working” ha registrato a seguito delle imposizioni di social distancing, non possiamo che notare come questo “smart working” emergenziale non sia però efficace. Lo smart working implica un’organizzazione delle attività in modo smart, consapevole, davvero intelligente. Quando è impostato correttamente esso è ben regolamentato da normative, mentre quello che sta accadendo in molte aziende in Italia è per lo più un adattamento forzato agli eventi che pone i lavoratori in condizioni di lavoro precarie, con attrezzature spesso non adeguate e senza le corrette tutele sanitarie e assicurative.
Nei prossimi mesi si renderà dunque necessario, non solo un adeguamento legislativo – come sottolineato da Paolo – ma anche un ripensamento dei processi di collaborazione e della leadership che permettano di ricreare un forte senso di coesione sociale anche nel mondo “ibrido” di imprese in parte localizzate, in parte disperse, verso il quale stiamo andando. Non è infatti possibile pensare che si possa lavorare nel digitale con le modalità del lavoro in presenza.
Il lavoro da remoto non rappresenta dunque una soluzione estrema di risposta alla crisi e di salvaguardia del lavoro, ma se ben strutturato rappresenta un’opportunità, che solo un’organizzazione solida e predisposta al cambiamento può cogliere. Il messaggio è chiaro, non si possono fare cose nuove con idee vecchie, per non rischiare di essere esclusi dal mercato bisogna introdurre un’attività che guardi soprattutto ai nuovi bisogni e ai nuovi equilibri richiesti dai dipendenti. In questo quadro, a vostro parere, quali sono i passi necessari per raggiungere, mantenere e garantire un corretto Work Life Balance? Non si rischia, portando il lavoro tra le mura domestiche, di rimanere ancorati alle dinamiche lavorative trascurando il benessere fisico e psicologico? Sarà necessario studiare delle nuove policy che gestiscano queste dinamiche?
Ogni lavoratore a distanza si trova a dover affrontare una sfida, mantenere intatto l’equilibrio tra la vita lavorativa e la vita personale. Anche quando il remote working è ben gestito e organizzato, non è detto che raggiungere il giusto work-life balance e mantenerlo sia agevole e immediato per tutti.
Si rende necessario un percorso di empowerment della forza lavoro che, facendo leva sulla responsabilità̀ individuale e sull’intelligenza collaborativa, elevi il ruolo dei dipendenti e garantisca loro flessibilità̀ nel modo di organizzare il proprio tempo di lavoro e sostenga una cultura aperta, flessibile, agile, incline alla collaborazione.
Come diceva Paolo poco fa, mai come ora è di vitale importanza mantenere viva la motivazione dei dipendenti, le aziende devono promuovere la nascita di nuovi purpose facendo innovazione e tralasciando il tatticismo e lo strumentalismo.
Worklife balance: questo termine a parer mio merita una riflessione approfondita. Innanzitutto il termine stesso mi pare obsoleto. Ritengo invece che sarebbe più opportuno cominciare a parlare di “life balance”, perché, a seguito dello spaesamento a cui tutti siamo stati sottoposti, bisogna analizzare il modo in cui si percepisce il significato della vita.
Il confine è sottile e la remotizzazione ha fuso il significato di vita e lavoro; molto spesso remotizzare il lavoro significa non essere più in grado di distinguere il momento del lavoro dal momento di vita privata. È vitale organizzare di nuovo il lavoro, i suoi orari, i suoi momenti, i suoi luoghi; altrimenti il rischio è di annullare il concetto stesso di balance.
Questo concetto è estremamente importante e vorrei ampliare la discussione portando come esempio le iniziative intraprese dal Gruppo Bip. Come corporate abbiamo cercato sin dall’inizio dell’emergenza di rispondere alle necessità di tutti i componenti del gruppo.
Ci siamo mossi in 3 fasi: fase 1, adozione del remote working; fase 2, risposta alle necessità nascenti dei dipendenti; fase 3, reinterpretazione degli spazi di lavoro.
Rispetto alla prima fase, il passaggio è stato relativamente semplice, eravamo inclini mentalmente a utilizzare gli strumenti di collaboration e tutte le agevolazioni del digitale.
La fase del cambiamento a cui abbiamo dovuto lavorare maggiormente, nel tentativo di essere flessibili e andare incontro alle nostre persone, è stata la transizione dalla fase emergenziale a un approccio meno “temporaneo”: quando abbiamo capito che la situazione, dai tre mesi inizialmente ipotizzati, si sarebbe inevitabilmente prolungata, siamo intervenuti per gestire un contesto in piena crescita: il Gruppo nel frattempo è passato da 2.700 persone ad un organico di 3.300 professionisti, dispersi non solo sul territorio italiano, ma a livello internazionale.
Ci siamo organizzati quindi creando una rete di contatto, nel tentativo di non subire la desocializzazione determinata dal remote working e abbiamo avviato a livello aziendale una serie di iniziative di comunicazione e di vicinanza alle persone.
Tengo però a sottolineare che il benessere delle persone non rappresenta una conseguenza della contingenza per BIP, ma è un obiettivo che perseguiamo con costanza da diversi anni. Sono appunto le iniziative intraprese da BIP negli scorsi 4-5 anni e non solo quelle predisposte durante la fase di crisi pandemica, che ci hanno consentito di ottenere il titolo TOP EMPLOYER in Italia. La certificazione, che attesta l’eccellenza della qualità della relazione tra l’azienda e i suoi dipendenti a livello internazionale, è un riconoscimento all’investimento costante intrapreso sulle nostre persone e le loro esigenze, per garantire loro un giusto bilanciamento tra la vita privata e il lavoro.
Il nostro obiettivo è fare sentire le nostre persone parte di un brand che oggi è molto apprezzato e conosciuto, soprattutto dai giovani neolaureati che riconoscono il valore di un’esperienza formativa impartita da persone estremamente formate e appassionate, in una realtà attenta alla sostenibilità e alle tematiche di inclusione.
Le vostre risposte convergono sull’importanza di porre al centro i bisogni e le necessità delle persone. L’importanza rivestita dal giusto equilibrio tra vita e lavoro non può prescindere e deve essere garantita; deve occupare il primo posto tra i doveri di un’azienda. Stabilire e rispettare le tempistiche di lavoro è prioritario, ma certamente complesso in un luogo diverso dall’ufficio, in cui i ritmi e gli orari erano scanditi e rispettati da tutti.
In questo quadro, abbiamo citato diverse volte la frammentazione spaziale a cui la Pandemia ha costretto imprese e lavoratori. Quale diventa quindi il ruolo degli uffici oggi e nel prossimo futuro? Uffici che da sempre sono luogo di aggregazione e scambio di competenze, ma che negli ultimi anni si sono trasformati anche in strumento di comunicazione dei valori aziendali ai dipendenti e agli stakeholders esterni.
Come già è stato notato, spingendo milioni di persone a lavorare da remoto, lo shock determinato da COVID-19 ha liberato molto spazio negli uffici. Alcune aziende hanno rapidamente scoperto che possono funzionare piuttosto bene con solo il 20% dei dipendenti seduti alla loro scrivania. Occorre quindi ripensare non solo gli ambienti e la distribuzione delle scrivanie, ma soprattutto il ruolo dello spazio fisico all’interno dell’employee journey.
Una delle tendenze che si stanno affermando più chiaramente è quella che, nel prossimo futuro, orienterà a usare l’ufficio soprattutto come luogo di interazione tra executive ed employee, o degli employee tra di loro, in occasioni che non siano il semplice lavoro quotidiano e per quel genere di interazioni in cui la presenza fisica, faccia a faccia, resta insostituibile.
In uno scenario office-free come sostenere quindi la collaborazione fra colleghi? Bisogna chiedersi come sostituire lo scambio spontaneo che avveniva nell’ufficio fisico quando questo viene meno. La distanza fisica ci ha infatti imposto il passaggio da una logica di collaborazione spontanea alla necessità di avere momenti strutturati per potersi parlare: occorre pertanto facilitare questi momenti, sia dal punto di vista tecnologico, sia dal punto di vista dei processi e della cultura.
Dal punto di vista tecnologico, diventa fondamentale sviluppare un ambiente digitale sicuro (l’attenzione alla cybersecurity dovrebbe essere prioritaria) unico, accessibile in modalità multi-device, che mette insieme i principali servizi per i dipendenti: un evoluto Digital Workplace.
Dal punto di vista dei processi, si rende necessaria l’attuazione di un Business Process Redesign, un intervento di performance improvement che agisce sul processo operativo, e che va a supportare le componenti collaborative che spesso – quando sono attivate – seguono canali inefficienti e dispersivi (e-mail, meeting, telefonate, ecc.).
Rimane poi fondamentale il ruolo della comunicazione interna e dell’engagement. Mai come ora il ruolo di collante e guida che questa funzione può svolgere diventa cruciale per garantire il coinvolgimento di tutta la struttura, non solo alla gestione della situazione precaria contingente, ma anche a una visione evolutiva dell’organizzazione. In questo senso non ci si può più limitare a comunicazioni top-down ma diventa necessario evolvere in chiave collaborativa anche i flussi di comunicazione interni.
Diversi cambiamenti, che dovranno essere supportati da processi e sistemi che ne facilitino l’implementazione, ma soprattutto l’accettazione da parte di tutti i livelli aziendali. Per fare questo diventa strategico sviluppare processi di Change Management in cui, facendo leva sulla cultura aziendale e sui valori condivisi, si crei un ambiente coerentemente favorevole alla trasformazione – un ambiente in cui ogni messaggio ricevuto dagli impiegati e converga nel chiarire le ragioni del cambiamento e ciò che ognuno deve fare per renderlo possibile.
La frammentazione spaziale imposta dalla pandemia ha certamente posto le aziende nella condizione di dover ripensare in toto il ruolo degli uffici, concordo con Rosario: non possiamo pensare di riprendere a lavorare e vivere gli spazi dell’ufficio così come facevamo in epoca pre-pandemica. Non saranno sicuramente più luoghi in cui stare otto ore e concludere i propri impegni lavorativi, ma diventeranno ambienti di scambio ed eterogeneità. Lo spazio non sarà più circoscritto fisicamente, la scrivania personale scomparirà lasciando invece posto a scrivanie condivise a turno in ampi locali condivisi.
Verrà anche meno il rapporto tra il “fuori” e “dentro” l’organizzazione: le aziende devono evolvere e aprirsi alla parte esogena, impiegando gli ampi spazi di cui dispongono per attività più ampie e accogliendo la città al loro interno.
Non solo verrà meno il rapporto dentro-fuori, ma verrà meno anche la differenziazione tra dipendenti e freelance; viene meno il punto di vista giuslavoristico classico insieme alla modalità fisica e organizzativa di lavoro.
Per pensare a “nuovi uffici” è necessario uno sforzo creativo legato alla capacità di mettere i piedi in molteplici “scarpe future”.
Per quanto ci riguarda, in coerenza con l’evoluzione evidenziata da Rosario e Paolo, stiamo ri-disegnando gli spazi lavorativi aziendali, alla luce anche della nuova policy di smart working entrata in vigore nel Gruppo su tutto il territorio italiano.
La abbiamo scritta nella convinzione che il futuro sarà dettato da scelte e non da obblighi: sarà la scelta dei nostri collaboratori, ma soprattutto dei nostri clienti, a orientare la nostra struttura. E poiché riteniamo che gran parte della nostra forza lavoro sceglierà, come luogo di lavoro, la propria casa, abbiamo già in corso una serie di iniziative volte ad aiutare i dipendenti a creare in ambito domestico uno spazio predisposto al lavoro. In alternativa, abbiamo intenzione di creare degli uffici satellite in città più decentrate, così da avvicinare il luogo di lavoro ai nostri dipendenti e non viceversa.
Per quanto riguarda invece l’ufficio, questo muterà la sua funzione e diventerà un luogo di incontro e scambio, non solo fra i nostri dipendenti, ma soprattutto con e fra i nostri clienti.
Come sottolineava Paolo, vogliamo aprire i nostri spazi, permettendo ai clienti di lavorare nei nostri uffici, di utilizzarli come loro luogo di confronto, non solo sul nuovo modo di lavorare, ma soprattutto sulle sfide che l’economia e il cambiamento stanno determinando. L’ufficio, in sintesi, diventerà un luogo di scambio di sapere e conoscenza tra i consulenti BIP e i loro clienti.
Questa nuova interpretazione e strutturazione degli spazi comporta una “rivoluzione copernicana” per il ruolo dei consulenti: la diminuzione del contatto con il cliente e della permanenza nei suoi uffici farà sorgere in lui una maggiore attenzione circa il valore del contributo consulenziale. Sarà dunque ancor più necessario garantire che il cliente abbia la giusta percezione del valore portato dal consulente. Stiamo perciò sviluppando delle nuove modalità di relazione contrattuale, in base a cui sarà retribuito non il “tempo” dei nostri dipendenti, ma il Capital Gain creato con i nostri progetti.
Gli ambienti fisici, in conclusione, sono da ripensare e ristrutturare. Se, in prima istanza, si è dovuto fare i conti con le nuove normative sul distanziamento sociale, ora le organizzazioni hanno scoperto che possono funzionare molto bene anche con solo una parte dei dipendenti seduti alle loro scrivanie. Gli uffici del futuro saranno predisposti all’insegna dello scambio, della cooperazione e dell’eterogeneità: si svincoleranno dunque dall’idea canonica dell’ufficio come semplice luogo in cui adempiere al proprio incarico.
Immagine in copertina di Valeria Esposti.