Le organizzazioni armoniche. Sette note per raggiungere l’eccellenza: è questo il titolo del libro scritto da Ferrario e Perego in cui si affronta il tema della progettazione e della gestione delle organizzazioni con l’obiettivo di ispirare il lettore e di orientarlo nella ricerca di un approccio adeguato al contesto della propria organizzazione; approccio che non sia riduttivo e schematico o, come loro stessi affermano, “meramente meccanico ed elementare”.
Scrive nella sua Prefazione Emilio Bartezzaghi, “per raggiungere questo fine gli autori fanno un ampio ricorso a metafore, esempi, racconti, storie e personaggi: la loro scrittura stimola continuamente riflessioni e sollecita il lettore a riconsiderare la propria esperienza, facilitando in tal modo percorsi di apprendimento e di approfondimento”. Non si tratta quindi di un classico manuale di organizzazione e management. Come affermano gli autori: Frederick Taylor, nei suoi classici Principi dello Scientific Management “in estrema sintesi, sostiene:
- che il management (inteso come organizzazione del lavoro) è una scienza;
- che gli esseri umani sono per natura guidati dall’istinto di evitare la fatica, e vanno motivati con incentivi economici;
- che occorre promuovere un approccio basato sulla specializzazione del lavoro, e sulla massima efficienza dei tempi impiegati per ogni compito.
Tutti naturalmente concordiamo sul fatto che queste tre affermazioni siano corrette; quel che occorre domandarsi, però, è se siano davvero sufficienti (…) Il management è scienza. Vero. Ma il management dovrebbe essere anche etica ed arte”.
Già da queste battute iniziali si capisce che siamo davanti a un testo che può essere annoverato nell’alveo di quello Humanistic Management radicato nel grande patrimonio umanistico della cultura italiana e europea e definibile attraverso questi tratti essenziali:
- accorta combinazione tra razionalità ed emotività
- equilibrio fra morale individuale ed etica collettiva
- cura di ciascuno verso il proprio autosviluppo e verso gli altri
- approccio narrativo ispirato alla generazione individuale e collettiva di senso
- enfasi sulla leadership convocativa e sulla metadisciplinarietà.
Per saperne di più ne parliamo oggi con i due autori, Mario Perego, Direttore HR di Heineken e Franco Ferrario, Docente del Politecnico di Milano. Nel corso dei prossimi mesi, inoltre, seguendo un suggerimento espresso da Adriano De Maio in apertura del libro, partiremo dalle sette “note organizzative” identificate nel testo per avviare una serie di considerazioni successive, insieme ad un’orchestra costituita da alcuni fra i migliori manager ed esperti italiani, “ipotizzando di prendere in esame un intero concerto da interpretare”. Delle vere e proprie “Variazioni Impermanenti” nel più puro spirito dello Humanistic Management.
MARCO MINGHETTI: Il punto di partenza del vostro lavoro è la rappresentazione dell’organizzazione come sistema aperto, in interazione cioè con il suo contesto esterno, con l’individuazione degli elementi e delle variabili che lo caratterizzano. Questi comprendono la missione e la visione, le funzioni del sistema (presidio dei confini, gestione e strategia, cura e custodia, produzione di output), le parti che lo compongono (persone e tecnologia) e le modalità attraverso le quali queste due parti devono coordinarsi tra di loro. Queste ultime in particolare sono: la cultura, i valori e le competenze chiave; i sistemi di gestione delle persone; i processi di pianificazione strategica ed operativa; i sistemi di coordinamento e controllo; le strutture e i ruoli; i processi, i metodi e le procedure; i sistemi di retribuzione.
Ed è qui che vi avvalete della metafora dell’armonia: un processo di progettazione è valido se fa sì che “tutte queste variabili riescano ad essere armoniche tra di loro ed in armonia con la visione e con la missione, determinando una prestazione migliore ed in definitiva il successo”.
Il tema centrale diventa quindi come perseguire dinamicamente l’armonia organizzativa. La vostra proposta è di identificare alcuni criteri di fondo, che definite “fattori dell’armonia”: sono criteri a cui riferirsi per operare scelte di progettazione e gestione dell’organizzazione e che supportano la ricerca dell’armonia degli elementi organizzativi e il raggiungimento degli obiettivi di prestazione. Ne individuate sette, ciascuno associato a una delle sette note musicali; in tal modo si vuole enfatizzare che tali criteri o fattori devono essere coordinati tra di loro, come le note in uno spartito, per ottenere l’armonia voluta. La prima domanda che vi rivolgo dunque è: come nasce questa idea, come avete selezionato proprio questi elementi del sistema organizzativo e non altre?
MARIO PEREGO: Conosco Franco da molti anni: le metodologie che utilizza hanno il tratto caratteristico di avere un approccio globale che tiene conto di tutte le variabili e di occuparsi di quei dettagli apparentemente insignificanti che fanno la differenza. Ed io da sempre condivido pienamente questo approccio. L’idea è che le organizzazioni sono sistemi molto complessi in continua evoluzione e che ciò che fa la differenza sia il modo con cui questi sistemi vengono tenuti assieme, attraverso la progettazione e la gestione delle variabili organizzative.
L’obiettivo del nostro libro è soprattutto quello di chiarire che queste variabili devono interagire, essere coordinate e gestite, ottenendo un equilibrio che consenta di perseguire al meglio finalità e direzione comuni e che questo equilibrio non può che essere dinamico. In un ambiente che muta non puoi stare fermo e se muovi una parte, anche le altre si devono armonicamente muovere con essa per non creare fratture e disallineamenti che fanno calare le performance. Come diciamo nel libro non c’è niente di più pericoloso per un’organizzazione del permanere staticamente in posizioni rigide.
Però i sistemi organizzativi sono troppo complessi ed hanno troppe variabili per poterle gestire tutte contemporaneamente con un unico modello. Di qui la necessità di selezionare quei fattori, che hanno un notevolissimo impatto sul funzionamento e l’armonia delle organizzazioni e che contemporaneamente sono tra i meno analizzati e gestiti. Ne abbiamo discusso ed abbiamo condiviso che i più rilevanti erano 7, non troppi e non troppo pochi. A quel punto alla figlia di Franco è venuta un’intuizione brillante: “Scusate, ma se volete parlare di armonia ed avete sette fattori, perché non chiamare in causa le sette note?”.
L’idea ci è piaciuta subito, la metafora è potente. Rende l’idea. Le note sono sette ma le musiche che si possono produrre con solo sette elementi sono infinite, varie, e soprattutto belle.
Qui entra in gioco un altro tema cui teniamo molto. Per noi un sistema organizzativo armonico risulta sempre migliore di uno disarmonico, e questo è vero sia in senso etico che estetico. Paul Dirac, Premio Nobel, parlando delle teorie della sua amata disciplina, la Fisica, diceva che “la bellezza è la qualità che permette di giudicare una teoria.”
Secondo noi lo stesso principio può essere applicato all’organizzazione: un’organizzazione armonica, bella ed elegante a parità di risorse è sempre più performante, tanto quanto lo è un atleta nel suo movimento, una squadra, un corpo di ballo. Come una musica, che quando è bella, piace anche a chi magari ama altri generi.
Ecco, quello che abbiamo provato a fare è codificare le sette note per i presenti e futuri “maestri di orchestra”.
FRANCO FERRARIO: Che dentro un’organizzazione ci voglia coerenza è un fatto noto. Le azioni devono essere coerenti con le strategie, le strategie con gli andamenti dei mercati ed i punti di forza, i sistemi di controllo devono misurare i KPI, questo lo sa ogni manager che si rispetti.
Ma un’organizzazione (come diceva Mario) è un sistema complesso, molto complesso, così complesso che l’armamentario organizzativo è più ricco dell’officina di un meccanico di Formula 1. Ogni organizzazione definisce strutture, ruoli, sistemi di controllo, ha processi di pianificazione norma processi operativi, ha una cultura, sistemi contabili, basi dati, processi decisionali e di coordinamento, sistemi di valutazione delle performance e di premio punizione, politiche di gestione del personale, usa strumenti project e di change management, balance scorecard, circoli di qualità, il Kaizen, il Lean, Six Sigma, ha e produce una cultura, insomma c’è un’enorme complessità ed una molteplicità di strumenti per dominarla.
Moltissimi di questi strumenti sono sotto l’attenzione del Management, ma tenerli tutti d’occhio è difficile ed anche costoso ed ahimè il diavolo si nasconde nei dettagli, perché è in quelli che le organizzazioni fragili falliscono e quelle leader costruiscono la loro eccellenza.
Nel libro parliamo di questi dettagli, di quegli aspetti apparentemente piccoli dell’armonia che però alla fine hanno enormi impatti sulla performance. Ne abbiamo scelti 7 che vanno da questioni più hard ad altre più soft, da aspetti interni a questioni e di frontiera, alcuni riguardano i processi, altri le persone ed i loro comportamenti, ma tutti hanno la caratteristica di essere fattori poco osservati, quasi nascosti.
Prendi la questione della fiducia. Quanto peso ha dentro un’organizzazione? Dove non c’è fiducia le cose si fanno e si controllano più volte, i processi decisionali sono farraginosi e ripetitivi, le persone poco motivate e sfiduciate, i processi ridondanti e costosi, l’azienda è lenta nel reagire ai cambiamenti del mercato, come accade in governi e parlamenti rissosi. Eppure, la variabile fiducia non è in nessuno dei cruscotti di controllo dei Management Team, così come non lo sono altri aspetti assai rilevanti.
Ecco, lo scopo di questo libro, che ormai da molti anni è anche la nostra ossessione di consulenti e formatori, è accendere un faro su questi aspetti che generano armonia e performance, ma anche quello di fornire strumenti e suggerimenti per gestirli ed in tal modo aiutare i Manager a far funzionare meglio le loro organizzazioni.
MARCO MINGHETTI: “Come acutamente osserva Giuseppe Bonazzi”, scrivete, “al termine organizzazione si attribuisce generalmente un doppio significato. In primo luogo, la parola denota il modo in cui le varie parti che compongono un sistema sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro. In questa accezione, “organizzazione” possiede un campo semantico molto vasto. Si può parlare di organizzazione di tipo pubblico, di vita domestica, oppure semplicemente di organizzazione di un gruppo social o di un’iniziativa, come un evento o una festa di compleanno. In secondo luogo, il termine viene impiegato per contraddistinguere una determinata specie di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze: imprese economiche, amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni sportive, culturali, e così via”.
Aggiungerei rifacendomi all’approccio di Gareth Morgan delineato nel volume Immagini delle organizzazioni, sempre per stare nel novero delle pubblicazioni classiche sul tema, il fatto che ogni organizzazione dipende anche dalla “metafora” o immagine che viene scelta per definirla. Ad esempio Taylor usava la metafora della macchina e da ciò discendeva una serie di conseguenze, fra cui quella di considerare le “risorse umane” come meri “pezzi” intercambiabili all’interno del “meccanismo” organizzativo. Ciò che importa qui è avere “l’uomo giusto al posto giusto”, definito con il classico sistema dei “tempi e metodi”.
Se invece utilizziamo la metafora del cervello come riferimento, ricorda ancora Giuseppe Bonazzi, ci focalizziamo sul fatto che “la proprietà del cervello è, secondo Gareth Morgan, quella di avere una struttura olografica, ossia ogni sua parte contiene potenzialmente le funzioni dell’intero organo. In tal modo se un trauma impedisce ad alcune parti del cervello di funzionare, le altre parti potranno subentrare per svolgere le funzioni prima svolte da quelle lesionate. La metafora del cervello suggerisce l’idea che le risorse umane presenti in un’organizzazione abbiano la capacità potenziale di sostituzioni indefinite. Naturalmente non tutte le organizzazioni hanno queste potenzialità in pari grado. Sono avvantaggiate quelle che, non avendo rigide divisioni del lavoro, favoriscono processi di apprendimento tra i loro membri“.
Voi avete scelto la metafora dell’armonia. Questa scelta quali conseguenze determina rispetto all’accezione che voi date al termine “organizzazione”? In altri termini: di cosa parliamo quando parliamo di “organizzazione armonica”?
FRANCO FERRARIO: Lo spiega bene Morgan nel libro da te citato: la metafora è uno strumento potente poiché in una sola parola condensa moltissimi aspetti, e più di ogni spiegazione dettagliata consente alle persone di dare lo stesso significato. Una qualunque cosa (una situazione, un paesaggio, una squadra, un’immagine) è armonica quando è bella, coerente, ammirabile, attraente, è qualcosa dove tutto è magicamente al suo posto.
Per noi che ci lavoriamo da tanto tempo, armonia organizzativa indica una condizione di coerenza globale, senza sprechi, senza frizioni, dove niente stona ed è fuori di luogo, dove le performance sono straordinariamente buone, dove c’è dinamismo, ma non frenesia, dove c’è entusiasmo e non depressione, fiducia e non sospetto, dove ci sono pochi errori ed ai pochi si rimedia in fretta, dove c’è concentrazione e non distrazione, dove tutti hanno un obiettivo comune, dove le tecnologie sono quelle che servono e nulla più, dove i processi sono fluidi e semplici, dove tutti fanno bene il loro mestiere, dove il pensiero dei clienti (di tutti i clienti interni ed esterni, diretti ed indiretti) è al centro dell’attenzione di ognuno, dove i principi della visione che si è scelta sono noti a tutti e da tutti rispettati e sostenuti, dove c’è grande attenzione al domani, perché operare per il futuro è ciò che ci dà fiducia e sicurezza, insomma qualcosa che è attrattivo per chi ci opera e che viene ammirato da chi sta fuori. Un posto dove è bello lavorare e che funziona molto, molto, ma molto bene.
La nostra armonia non va confusa con un “volemose bene”, con una concordia forzata che nega le differenze od i conflitti, nelle organizzazioni armoniche (come nelle famiglie) si discute anche animatamente e ci si confronta, ma sempre con lo scopo di fare meglio e di affinare sempre di più i fattori (le nostre note) che tengono assieme l’organizzazione e la tengono in armonia continua con il contesto.
Certo bisogna fare il budget ed i numeri, ma un’organizzazione armonica sa bene cosa determina e da dove arrivano quei numeri, essi arrivano dalle persone, da chi lavora, da chi decide, da chi sceglie e progetta le tecnologie, da chi disegna i processi ed i sistemi, da chi fornisce i supporti e da chi opera con noi per soddisfare la missione che ci siamo dati. Essa tiene continuamente sotto controllo questi fattori senza mai abbandonare la presa su di loro.
MARIO PEREGO: In più c’è la questione del dinamismo. In un mondo che si muove molto velocemente per un sistema organizzativo, stare fermi, comporta un’elevatissima probabilità di perdere l’armonia con il contesto e venirne espulso ed è per questo che i fattori vanno tenuti costantemente sotto controllo, adattati, mi verrebbe da dire “nutriti” di continuo. In un’organizzazione armonica il cambiamento è vissuto come la norma, essa ha il coraggio di cambiare e di abbandonare meccanismi di successo del passato senza rimpianti, tentennamenti o nostalgie, quando ne riconosce (e lo fa per tempo) la necessità.
Einstein diceva: “La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”.
L’organizzazione armonica è capace di andare oltre la “gestione” dei processi di cambiamento. Essa sa interagire con il cambiamento, e lo fa bene, in modo rigoroso, dotandosi di quei metodi e modelli che funzionano, perché sa che il tempo è la variabile che conta di più di ogni altra che il quando ed il come (e non il chi e che cosa), sono ciò che divide il successo dall’insuccesso, ma di questo forse ne parleremo nel prossimo libro.
MARCO MINGHETTI: Il tema della complessità negli ultimi anni è senza dubbio il problema organizzativo più significativo che ci si trova ad affrontare, tanto che nel vostro testo vi dedicate un intero capitolo. “Esiste un confine che si oltrepassa quando ci si muove da un contesto complicato, dove la quantità di dati noti è comunque superiore alla quantità di dati ignoti, ad uno complesso, ove la quantità di cose che non si sanno supera quella delle cose che si conoscono”, scrivete. E ancora: “Tentare di dare una risposta razionale al complesso” è il paradigma dell’odierna condizione organizzativa”.
Anche su questo punto trovo grandi analogie con le tesi dello Humanistic Management. Complessità è infatti una delle parole chiave su cui si incentra la riflessione del manager umanistico. È lo iato fra la “realtà” e la sua rappresentazione simbolica a determinare la definizione di complessità come l’impossibilità per ogni sistema formale (dunque scientifico) di cogliere in modo adeguato tutte le proprietà del mondo reale. La distinzione fra razionalità dello Humanistic Management e la tendenza razionalizzante dello Scientific Management è rappresentativa dei due approcci rispetto a questo problema così definita da Edgar Morin: “La razionalizzazione innanzi tutto accorda il primato alla coerenza logica sull’empiria, tenta di dissolvere l’empiria, di rimuoverla, di respingere ciò che non si conforma alle regole, cadendo così nel dogmatismo.
Del resto è stato notato che c’è qualcosa di paranoico che è comune ai sistemi di razionalizzazione, ai sistemi di idee che spiegano tutto, che sono assolutamente chiusi in sé ed insensibili all’esperienza. Non è un caso che Freud abbia usato il termine di razionalizzazione per designare questa tendenza nevrotica e/o psicotica per cui il soggetto si intrappola in un sistema esplicativo chiuso, privo di qualsiasi rapporto con la realtà, pur se dotato di una logica propria. In qualche modo la grande differenza tra razionalità e razionalizzazione è che l’una è apertura, l’altra è chiusura, chiusura del sistema in se stesso. Vi è una fonte comune della razionalità e della razionalizzazione, cioè la volontà dello spirito di possedere una concezione coerente delle cose e del mondo.
Ma una cosa è la razionalità, cioè il dialogo con questo mondo, e altra cosa è la razionalizzazione, cioè la chiusura rispetto al mondo. La razionalità complessa parte dall’idea che non c’è adeguazione a priori tra il razionale e il reale. Parte dall’idea che la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni conoscenza è al tempo stesso costruzione e traduzione: traduzione a partire da un linguaggio ignoto, a cui prestiamo dei nomi. Siamo noi che assegniamo i nomi a partire da certe qualità o proprietà che rinveniamo nelle cose. Dunque la conoscenza è una traduzione costruita e la razionalità in particolare è un modo di costruire la traduzione con un certo numero di qualità verificatrici e correttrici”.
Cosa ne pensate? Quali sono le considerazioni relative a questo tema proposte nel vostro libro?
MARIO PEREGO: Le organizzazioni diventano più armoniche tanto più sono capaci di “suonare” le note giuste rispetto al contesto ed alle sfide. Se restiamo nella metafora, gli spartiti musicali sono certamente razionali, non razionalizzanti.
Occorre considerare che l’ambiente esterno spinge sempre le organizzazioni a diventare capaci di essere in un certo senso “paradossali”, quindi occorre razionalità ma certamente non razionalizzazione.
Voglio dire che i sistemi organizzativi sono chiamati ad adottare comportamenti tra loro contrapposti, contrari, inconciliabili. Per Taleb le organizzazioni dovrebbero dimenticarsi di pianificazione, previsioni, in un certo senso di essere razionali e semplicemente accettare di essere immerse in un mondo imprevedibile e dominato dal caos per trarre vantaggio dal disordine, dalla volatilità, dagli errori. E’ un po’ come dice il vecchio adagio : ““bisogna bere e soffiare insieme”.
Non è cosa nuova nella cultura d’impresa. In misure molto più contenute questo antidoto era già, fortunatamente, presente e girava nelle organizzazioni, è una situazione comuni a tanti.
Alcuni esempi, sono sicuro che vi ci ritroviamo in tanti: fare valore e fare volumi, essere semplici e frugali ma dover gestire sistemi complessi ed estremamente formali, fare efficienza ed innovare, ridurre le risorse e aumentare le iniziative in portafoglio….. E potrei continuare a lungo.
Il COVID ha accentuato moltissimo questo aspetto, fino a far diventare la gestione del paradosso un elemento nel quotidiano di tutti. Qui mi viene facile parlare di ambidestrismo….magari qualche appassionato sa di cosa si parla, ma ci porterebbe lontano e non è nel tema.
Ora naturalmente è chiaro che bere e soffiare è impossibile, ma passare velocemente da un’azione all’altra, e farne una mentre si pensa all’altra invece è possibile, è questione di allenamento, di approccio mentale. Occorre senz’altro che l’organizzazione si mantenga razionale, per non andare a sbattere, ma oggi più che mai per guidare la macchina bisogna guardare la strada, non il cruscotto.
Questo perché, ed anche qui tocchiamo un tema a noi molto caro, quel che conta è lo scopo dell’organizzazione, il perché esiste, la finalità che persegue. I risultati (quelli economici per esempio) sono uno strumento per perseguire la ragione della propria esistenza. Spostare la conversazione dello sviluppo organizzativo dal razionale alla razionalizzazione fa correre il rischio di confondere i mezzi con i fini, o come diciamo noi, di confondere gli obiettivi con la missione.
Le organizzazioni diventano più armoniche tanto più sono capaci di “suonare” le note giuste rispetto al contesto ed alle sfide. Se restiamo nella metafora, gli spartiti musicali sono certamente razionali, non razionalizzanti.
Anche perché quel che conta è lo scopo dell’organizzazione, il perché esiste, la finalità che persegue. I risultati (quelli economici per esempio) sono uno strumento per perseguire la ragione della propria esistenza.
Spostare la conversazione dello sviluppo organizzativo dal razionale alla razionalizzazione fa correre il rischio di confondere i mezzi con i fini, o come diciamo noi, di confondere gli obiettivi con la missione.
FRANCO FERRARIO: Noi crediamo che sia estremamente importante distinguere tra una impostazione sistematica (che cioè analizza le parti in modo metodico) ed una sistemistica (che cioè guarda all’insieme ed alle sue interazioni con l’ambiente esterno). Quel che importa è l’armonia con il contesto, questo è quel che consente di ottenere prestazioni brillanti nel tempo. L’atto del razionalizzare può essere utile in alcuni momenti per migliorare una parte del sistema, ma non può sostituirsi all’atto dell’essere razionali.
L’approccio non può che essere quello del sistema aperto, che riceve input e interagisce con l’ambiente esterno, ne viene influenzato e a sua volta influenza. Le organizzazioni si integrano con il contesto sia adattandosi ad esso, sia trasformandolo in uno scambio reciproco, quasi simbiotico.
Inoltre, pensiamo che la non-linearità sia la nuova norma, la conseguenza della complessità in cui è immerso il mondo. In tale situazione volatilità e caso diventano questioni rilevanti, che non si possono ignorare. Se questo è vero, persino la razionalità non basta più, figuriamoci la tendenza alla razionalizzazione.
Noi non trattiamo direttamente la questione della razionalità nel libro, ma il nostro approccio credo evidenzi bene il nostro pensiero. Il tutto ha a che fare con ciò che intendiamo con razionalità e con logica. Il nostro mondo (come abbiamo già detto) è diventato enormemente più complesso di prima, lo è per la globalizzazione, per l’informatizzazione, per le sviluppo di internet, del bio-tecnologie, della robotica e di quant’altro, le fileiere che generano i prodotti ed i servizi che usiamo sono complessissime e difficili persino da seguire. Come già diceva Fritjof Capra nel suo “Punto di svolta”, il mondo è andato avanti ed a progredito sulla base del pensiero cartesiano, logico e sequenziale, ma ora esso non basta più, abbiamo bisogno di modelli più sofisticati e sistemici, ed anche se ormai sappiamo che l’intelligenza è fatta di percorsi ricorsivi, intricati ed articolati, la nostra cultura, e soprattutto, la nostra formazione è ancora quella. Dobbiamo prendere atto che la razionalità sequenziale, va bene solo per situazioni semplici e lineari e che per gestire un’organizzazione non basta, come ben dice Morgan, utilizzare la metafora della macchina. Dobbiamo agire e sfruttare tutto quel mix che è insito nella nostra intelligenza e nel modo con cui prendiamo le nostre migliori decisioni.
Questa è la ragione per cui riteniamo che non vi sia un modello unico per creare l’armonia, ma tante note che chi guida le organizzazioni deve armonizzare come un direttore di orchestra od addirittura come un jazzista che ogni volta suona una melodia diversa.
Il Management deve accettare i limiti delle procedure, delle norme, delle regole dei meccanismi ed operare con tutto lo spettro degli strumenti che ha. E se non si sente in grado di dominare questo contesto (e sinora in molti casi non era necessario), può farsi aiutare ed ispirare da chi nel tempo ha maturato queste competenze e, soprattutto, utilizzare quell’inesauribile fonte di saggezza che è la diversità dei pensieri e delle intelligenze delle persone, poiché dall’unione delle differenze che esce la completezza e la bellezza e che questa unione, più che altre cose può servire a farsi un’idea più chiara di quello che è giusto fare.
MARCO MINGHETTI: Un’altra parola chiave dello Humanistic Management è Cura: una parola di enorme spessore. Nella storia della filosofia moderna è stato soprattutto Martin Heidegger a valorizzarla in una riflessione che parte dalla rilettura di Platone. Per Heidegger l’uomo (l’esserci) ha come sua determinazione esistenziale l’essere-nel-mondo, ovvero la relazione con gli altri enti, quelli che in termini aziendalistici chiameremmo risorse tecniche, economiche ed umane. E questa relazione costitutiva, in cui consiste propriamente la nostra umanità, si qualifica come un prendersi cura degli altri enti, in particolare degli altri uomini. E possiamo prenderci cura di loro, dice Heidegger, in due modi: ponendoci al loro posto, sottraendo loro il proprio prendersi cura, quindi dominandoli e rendendoli dipendenti da noi; oppure aiutandoli nel loro prendersi cura, affinché divengano trasparenti a se stessi e liberi nella propria cura. Nel primo caso si avrà una coesistenza inautentica, nel secondo caso una autentica.
Ora, il vostro lavoro esce nel pieno della crisi determinata dalla pandemia. Come ha scritto Rosario Sica nel suo libro appena uscito Dall’employee experience all’employee caring. Le organizzazioni nell’era post Covid-19, “le organizzazioni per come le conosciamo devono essere totalmente ripensate. Alcuni cambiamenti sono già stati “obbligati” dalle circostanze: pensiamo all’accelerazione tecnologica a cui il virus ha costretto l’intero sistema economico pubblico e privato (la valutazione di analisti e manager a questo riguardo è che la pandemia sia riuscita a determinare in pochi mesi i livelli di digital adoption che si sperava di raggiungere nei prossimi quattro o cinque anni), alla diffusione del concetto di “remote working” prima sulla bocca di pochi imprenditori e nei processi di ancora meno imprese (per lo meno nostrane), alla spinta alla collaboration e alla semplificazione dei processi che ne sono conseguiti”.
In altre parole, occorre trovare nuove modalità di “prendersi cura” delle persone che utilizzino tutto il potenziale delle tecnologie digitali e collaborative, pur rimanendo “umano-centriche”. Come si inerisce la vostra riflessione in questo quadro?
FRANCO FERRARIO: Domanda difficile e complessa. Noi pensiamo che le organizzazioni, in disperata sintesi, siano sistemi composti da due soli elementi: persone e tecnologie, tenute insieme da elementi simbolici (strutture, ruoli, processi, sistemi di comunicazione, etc.). Rendere armoniche le tecnologie è talvolta tecnicamente non facile, ma è enormemente più semplice che tenere assieme le persone. Le tecnologie non hanno emozioni, liberi pensieri, opinioni ed obiettivi personali, punti di vista etc. (almeno per ora) e danno tutto quello che a loro si richiede e che sono progettate a fare. Le persone si. Hanno loro orientamenti ed in funzione di questi, delle competenze che hanno, delle motivazioni, etc. immettono maggiore o minore energia nelle organizzazioni in cui operano. Tenerle insieme, farle operare in modo armonico nelle medesime direzioni, dipende certamente da come progettiamo e gestiamo gli aspetti organizzativi (ed alcune delle nostre sette note per raggiungere l’eccellenza agiscono proprio su di essi), ma non è sufficiente. Il tenere insieme le persone passa anche attraverso altre note dell’armonia e sono i valori, gli stili di management, la fiducia e questi vengono veicolati (e molto) attraverso le relazioni, i rapporti interpersonali, i dialoghi e le discussioni, ed in una situazione in cui sappiamo che il 95% della comunicazione è non verbale, farlo a distanza può risultare molto difficile.
La digital collaboration è una soluzione applicativa che rinvigorisce ed allena ad affrontare meglio la complessità, in modo anche molto efficace e non se ne può fare a meno, ma pensare che sia la panacea di tutti i mali corrisponde a “cancellare” tutta la complessità organizzativa; la digital collaboration è uno strumento fondamentale quando usata nel contesto, quando “fa parte dello spartito”, è un ingrediente talvolta anche molto importante, non è tutta la ricetta. E’ uno strumento non l’orchestra.
Come ci sta insegnando il periodo del Covid le persone hanno bisogno di relazioni, di incontro per sentire che qualcuno di “prende cura” di loro e farlo attraverso un monitor non basta, come sempre ci vuole equilibrio.
E qui veniamo ad una questione fondamentale. Non si può creare un’organizzazione armonica applicando una macchinetta od un algoritmo, le aziende, gli enti, i gruppi, sono diversi gli uni dagli altri, hanno culture diverse, mercati diversi, strategie diverse, uomini e tecnologie diverse, che mutano nel tempo e nello spazio, ottenere “l’armonia” e con essa le performance è un lavoro paziente che va svolto con cura ed attenzione, utilizzando gli schemi ed i modelli delle sette note adattandoli a quello specifico contesto in quel determinato momento. Occorre (per dirla come fa John Kotter) non solo un buon management, ma soprattutto una forte leadership, e non quella dei gloriosi ed audaci condottieri, ma quella paziente, calma, solida e determinata di cui parla da sempre Mintzberg e di forte spirito di squadra.
Perché è di quella leadership che ci si fida, a cui ci si appoggia, in cui si crede ed a cui si guarda con rispetto ed è nella squadra che si sente la forza dell’essere uniti, ed esercitare la leadership e sentirsi parte di un team attraverso uno strumento (schermo, smartphone o qualunque altra cosa), senza un caffè assieme, una pacca sulla spalla, una stretta di mano, un pranzo o quattro passi, mi creda è davvero molto difficile.
MARIO PEREGO: Proprio per questo, nello scrivere il libro, quando dovevamo scegliere come corredare le Sette Note con esempi concreti, abbiamo pensato fosse più originale, ma soprattutto più opportuno, rivolgere lo sguardo al passato ed utilizzare casi “applicativi” recuperati dalla Storia (con la S maiuscola).
Abbiamo voluto con questo esemplificare che quel che è fondamentale per l’armonia organizzativa ha a che fare con l’uomo e con la sua esperienza nel mondo e nella storia. Questo ha radici profonde, ha memoria, c’era, c’è e ci sarà. Dunque ci sono lezioni preziose da recuperare studiando chi ci è passato prima di noi.
Ecco quindi Leonardo da Vinci per la centralità del cliente, o il Corpo Militare dei Giannizzeri per le competenze, oppure Adriano Olivetti per la fiducia, e mi fermo qui per non rovinare la sorpresa ai lettori.
Sono riletture dalla storia ove emerge con estrema, a nostro avviso, limpidezza un parallelismo con ciascuna nota, corredate con gli insegnamenti che abbiamo appresi dai casi stessi.
Gli esempi potrebbero essere naturalmente molti di più, noi abbiamo scelto questi perché ci piacevano, perché li troviamo originali o quantomeno non banali e naturalmente perché possono aiutare a comprendere ancor meglio cosa siano le Sette Note di un’organizzazione armonica.