Le nuove tecnologie digitali e immersive sono un dono di Dio? Una conversazione con Padre Gabriele Beltrami e Giovanni Tridente.

Continuiamo anche quest’anno la collaborazione con VRE – Virtual Reality Experience, il festival internazionale ideato e diretto da Mariangela Matarozzo al fine di esplorare le potenzialità delle tecnologie immersive i tutti i campi: dall’intrattenimento alla medicina, dall’arte al business fino alla valorizzazione del patrimonio culturale e turistico.

Oggi proponiamo una conversazione con P. Gabriele Beltrami, direttore dell’Ufficio Comunicazione Scalabriniani (UCoS) e Giovanni Tridente, docente di giornalismo alla Pontificia Università della Santa Croce e corrispondente della rivista spagnola OMNES, per la quale segue le attività del Papa e della Santa Sede. Al centro delle loro riflessioni c’è la domanda: come si possono  utilizzare  le tecnologie immersive per favorire il dialogo interreligioso e multiculturale?

  1. Un “dono di Dio” che “può portare frutti di bene”. Ma che deve essere utilizzato correttamente se non vogliamo che comporti “gravi rischi per le società democratiche”. E’ la definizione che Papa Francesco dà delle nuove tecnologie nel suo discorso per la Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, dedicata all’ Intelligenza artificiale. E i pericoli “non devono nasconderci le grandi potenzialità di questi strumenti”. Un’affermazione che apre le porte alle tecnologie emergenti e che solleva necessarie riflessioni sul corretto ed etico utilizzo di tali strumenti. Voi cosa ne pensate?

Giovanni Tridente. Tutte le tecnologie, anche moderne, sono considerate dalla Chiesa come “meravigliose invenzioni” che “l’ingegno umano è riuscito, con l’aiuto di Dio, a trarre dal Creato”, per cui vanno accolte e seguite, proprio per agevolare anche l’esercizio delle “facoltà spirituali dell’uomo” (Inter mirifica, 1963). Guardando al Magistero esercitato dai Pontefici degli ultimi decenni, appare chiaro da parte dell’insegnamento della Chiesa che non bisogna temere il cambiamento. E Papa Francesco in questo non fa certo eccezione, anzi. Questa apertura e questa fiducia nel progresso, però, deve necessariamente favorire un accrescimento della qualità della vita delle persone, e non un loro deterioramento.

È chiaro che l’uso che facciamo della tecnologia – sia essa nella grande industria ma anche quella attraverso i piccoli atti quotidiani mediante i social – non è qualcosa di esterno a noi ma un’abilitazione che ci permette di comunicare qualcosa di noi stessi (il frutto del nostro lavoro, e delle nostre aspirazioni) agli altri, così come realmente lo abbiamo generato. E questo comprende anche gli effetti e i difetti (di fabbrica, del cattivo uso…). La tecnologia, in pratica, non ci “purifica” dalle nostre malefatte; invece ci eleva se la utilizziamo per fini buoni.

Qui si apre dunque una responsabilità enorme per l’uomo inter-connesso, richiamato ad una grande urgenza, quella della conversione ecologica, che già nel 2001 San Giovanni Paolo II auspicava “globale”. Questo vale a maggior ragione oggi, quando ormai abbiamo raggiunto la consapevolezza che grazie a tutte le innovazioni raggiunte dalla tecnologia, “il mezzo siamo (diventati) noi”. In quanto condizionati dalla struttura sociale in cui viviamo, dall’educazione ricevuta e dall’ambiente, tutti questi elementi possono facilitare oppure ostacolare il nostro vivere secondo verità (Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 1991).

Da ciò non sono escluse le tecnologie emergenti, che non possono essere pensate come qualcosa di avulso dalle nostre stesse esistenze, come pura tecnica, puro strumento, ma vanno innestate in una riflessione complessivamente culturale, dove è l’uomo a “dettare la linea”, perché ogni loro utilizzo riguarda sostanzialmente l’individuo. L’imperativo si fa allora prettamente ecologico, ossia il rispetto che dobbiamo avere per la nostra persona e per la nostra dignità, manifestata in tutte quelle libere scelte orientate al bene, e perciò anche al bene degli altri.

Ecco, il bene. Altro aspetto centrale che staziona nel cuore alla Chiesa poiché a esso è legata la verità sull’uomo e il significato della sua esistenza. A questo riguardo tornano utili le parole di Papa Francesco rivolte nel settembre del 2019 ad un gruppo di persone impegnate in vari ambiti delle scienze applicate: “Il bene comune è un bene a cui tutti gli uomini aspirano, e non esiste sistema etico degno di questo nome che non contempli tale bene come uno dei suoi punti di riferimento essenziali”.

Gabriele Beltrami. Il Magistero Cattolico, soprattutto se guardiamo i pronunciamenti degli ultimi decenni, ha sempre affermato che il cambiamento è costitutivo della esperienza umana. Si tratta di fiducia nel progresso, insomma, perché in esso si vuole riconoscere sempre l’occasione di coniugare la tutela della vita e il suo naturale sviluppo. Rimane vero il fatto che le persone, pur attraverso le nuove tecnologie, comunicano sempre le loro esperienze, positive o zoppicanti che siano: non esiste, quindi, una “garanzia” di esenzione da errore o da cattive intenzioni, ma solo la possibilità – da cogliere – di operare sempre meglio per il bene.

Credo che in questo preciso momento storico la Chiesa può cogliere l’attimo e ripensarsi, può “uscire” da schemi noti e consolidati: essere forieri di novità non dipende infatti dallo scintillio offertoci dalla tecnologia: esso nasce da una novità sostanziale che risponda alla più ampia e attuale crisi di senso.

C’è estremo bisogno di una comunicazione corretta ed etica, ossia al servizio dell’uomo. La Chiesa deve perciò coltivare una profonda conoscenza e coscienza della realtà e dello sviluppo continuo della tecnologia, sapendo come usarla, ma ricordandosi anche che esse sono al contempo “luoghi di seduzione e di facile consenso”; deve tenere bene a mente che un “like” non costa nulla, ma non cambia la vita di quello che lo offre, illudendo, magari potentemente, chi lo riceve. Una delle parole “più incisive” di Papa Francesco è stata quella “pronunciata in silenzio” in una piazza San Pietro deserta e spoglia, durante l’ultima quaresima in lockdown.

La Chiesa, quindi, deve continuare a raccontare e ripetere con determinazione che non si può continuare ad usare la comunicazione per manipolare e assoggettare, ma sempre e solo per crescere in libertà. E l’esercizio della libertà è prima di tutto esercizio di responsabilità per il bene comune, attraverso gli strumenti messi nelle nostre mani.

  1. L’uso delle tecnologie immersive può costituire uno strumento nel raccontare la Chiesa alle nuove generazioni? E più in generale tali strumenti possono aiutare a vivere la religiosità anche dove non esiste una chiesa, una moschea, un tempio o una sala per il culto? La tecnologia come è utilizzata dalla Chiesa e dalla Religione?

Giovanni Tridente. Quando il suo fondatore, Gesù Cristo, ha gettato le fondamenta della Chiesa, ha affidato un compito concreto agli Apostoli, e di conseguenza a tutti coloro che ne avrebbero seguito le orme: farsi annunciatori del Vangelo presso “tutti i popoli” e con “qualunque mezzo” ci sarebbe stato a disposizione. Che si chiami libro cartaceo (la Bibbia stampata?) o tecnologia immersiva, poco cambia per chi deve trasmettere questo Annuncio: l’evangelizzazione non teme confini, né territoriali né di dispositivi. Non vi è dubbio, allora che anche i moderni strumenti possono raccontare la Chiesa alle nuove generazioni, e casomai farlo in maniera sicuramente più attinente alle esigenze della gente.

Per i cristiani, l’impegno di annunciatori è accompagnato in pari tempo dall’essere destinatari della medesima Rivelazione divina. Non è possibile, infatti, annunciare la “Parola definitiva ed efficace che è uscita dal Padre”, se prima l’uomo non viene attirato e coinvolto “nella sua vita e missione”. Qui si nota un dinamismo bidirezionale, che mentre riceve trasmette, e che è emblematico dell’essenza comunicativa della stessa fede e appartenenza cristiane.

Il “dovere” di evangelizzare nella Chiesa Cattolica spetta a tutti coloro che hanno ricevuto il Sacramento del Battesimo, attraverso il quale si diventa – come spiega Papa Francesco – “discepoli missionari, chiamati a portare il Vangelo nel mondo”. In questo senso, tutti i battezzati sono un Popolo discepolo (perché riceve la fede) e missionario (perché trasmette la fede); ciascuno nel posto che il Signore gli ha assegnato. La trasmissione, come dicevamo, va fatta con ogni mezzo, l’importante è che resti chiara la portata di questo “contenuto” (deposito), che oggi è fondamentalmente veicolato dalla testimonianza personale.

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium – dove è raccolto praticamente tutto il progetto del suo pontificato – il Papa auspica un “nuovo protagonismo” dei cristiani “perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione”, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Allora appare chiaro che non bisogna risparmiare sui mezzi a disposizione, proprio perché il fine e l’obiettivo è quello di comunicare a quante più persone possibili la bellezza del dono che – grazie ad altri prima di noi – a nostra volta abbiamo ricevuto.

Gabriele Beltrami. Come tutti i nuovi linguaggi multimediali anche le tecnologie immersive, nello specifico, hanno e avranno sempre più un ruolo significativo nella cultura e nella azione pastorale giovanile. La prassi pastorale ci dice però che siamo ancora “novizi” nell’approccio a questo settore di sviluppo non capendo forse del tutto che molte proposte si sono fermate allo strumento quasi fosse ‘neutro’. Passare da qui alla comprensione che invece si tratta di una sorta di prolungamento dei sensi, del corpo umano – con implicazioni assai più profonde a livello sia del soggetto che ne usufruisce che dell’oggetto che mediano – è un’altra storia, tutta in divenire. La vera “rivoluzione digitale” applicata alla narrazione della fede e dell’essere chiesa non sta quindi nel mero utilizzo diffuso di alcuni media che tecnologicamente sono più avanzati dei precedenti, quanto piuttosto nel leggere correttamente questi nuovi mezzi le cui implicazioni non solo pastorali sono enormi, e richiedono ulteriori studi teologico-pastorali.

I new media, in generale, si fondano sui nostri sensi, amplificandoli e strutturando uno spazio ‘intermedio’ collocato tra il potenziale e la realtà. Ed è proprio in questo ambito nuovo che va promossa una ‘inculturazione multimediale’ della Buona Notizia di cui la Chiesa si fa portatrice da oltre 2000 anni: raggiungere istantaneamente moltissime persone in diversi punti del globo è senza dubbio il vantaggio più macroscopico sul fronte della missione e dell’annuncio, e ciò è un fattore di opportunità maggiore da cogliere.

Il documento Gaudium et spes, al n. 44, recita: “Come è importante per il mondo che esso riconosca la chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano […].È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta”. Credo sia questo uno spunto di riflessione quanto mai attuale.

  1. I temi del dialogo e della fratellanza universale sono cari a Papa Francesco, alla chiesa cattolica e a tutti coloro che vogliono contribuire a realizzare l’unità della famiglia umana nel rispetto dell’identità propria di ogni sua componente. Le tecnologie emergenti possono essere di ausilio a tale grande obiettivo?

Gabriele Beltrami. Il Santo Padre, anche di fronte agli sconvolgimenti globali, si è recentemente rivolto (3 ottobre 2020) non solo ai credenti, ma a “tutte le persone di buona volontà”, con un invito concreto a «reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Bisogna sognare insieme, perché da soli si rischia di avere dei miraggi. In questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità» (FT 6).  È questa la via della pace indicata dal Pontefice, possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana» (Messaggio per la LIII Giornata Mondiale della Pace, 1° GENNAIO 2020, 1).

Ascoltare, provare a comprendere l’altro è la base del dialogo, spazio dove diventa possibile essere sinceri, cercare punti di contatto e, soprattutto, lavorare ed cooperare. Il dialogo, poi, consente di congiungere il bene comune e la promozione dei più vulnerabili. Il Papa quindi lancia una critica dolorosa alla società odierna quando dice: «Siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente» (FT 64). Francesco perciò mostra come sia nella solidarietà la vera risposta all’indifferenza, una solidarietà che si esprime concretamente nel servizio. «Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo. In questo impegno ognuno è capace di mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello» (FT 115).

L’orizzonte che abbiamo di fronte è quello di un cambiamento d’epoca: assistiamo, di fatto, ad una rivoluzione tecnica in modalità permanente. Nel suo evolversi l’umanità ha visto la tecnica passare attraverso vere e proprie rivoluzioni. Nella realtà “iperconnessa” nella quale viviamo siamo sempre “online”, ma oggi dobbiamo riprendere, umilmente e con una “solidarietà planetaria”, a pensare e ri-programmare assieme il comune futuro. Per far questo è indispensabile una nuova alleanza tra scienza e umanesimo, tra credenti e tutti gli uomini e donne di buona volontà. È una nuova frontiera da oltrepassare e che sta proprio davanti a noi.

Giovanni Tridente. Direi che le tecnologie emergenti sono già in qualche modo di ausilio al grande obiettivo della fratellanza umana, nella misura in cui mettono in comunione le normali aspirazioni e bisogni degli uomini di ogni cultura, accrescendo le possibilità di dialogo e di comprensione, che sono le uniche alternative alle ingiustizie e alle guerre.

Esattamente due anni fa (4 febbraio 2019) è stato firmato ad Abu Dhabi il Documento sulla fratellanza umana tra Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, con l’obiettivo dichiarato di suggerire e mettere in pratica tutte quelle iniziative che possano favorire “la pace mondiale e la convivenza civile”. Tutto ciò a partire senz’altro da visioni e culture diverse, ma consapevoli di essere accomunati da un medesimo atto creativo, quindi di paternità.

La firma nasceva da una comune riflessione tra i due leader religiosi, su tutte quelle gioie, tristezze e problemi del mondo contemporaneo, dai progressi scientifici e tecnici, le conquiste terapeutiche, finendo però alle ingiustizie sociali, la corruzione, le disuguaglianze, il degrado morale. Se le tecnologie emergenti saranno in grado – e non c’è motivo per dubitarne –, passo dopo passo, di offrire le “soluzioni” non solo tecniche ma anche di principio a queste “afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo”, sicuramente avranno dato una mano per un effettivo progresso della società.

Il Documento accenna però anche ai limiti che si riscontrano nella società moderna, nonostante i passi positivi compiuti nel campo della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e del benessere, indicandone indirettamente anche la loro soluzione: “un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità”. Non è escluso che in molte di queste pieghe di generale frustrazione, solitudine e disperazione possano insinuarsi addirittura gesti di estremismo e fondamentalismo, creando un assoluto danno agli individui e alla collettività.

Risulta allora chiaro su quali binari deve muoversi il contributo che la tecnologia può fornire in questi ambiti, e prima ancora quanto sia necessaria per favorire la conoscenza reciproca anche a partire dal differente sentimento religioso, evitando che possano generarsi strumentalizzazioni contrarie alla natura stessa della convivenza umana.

Papa Francesco e Ahmad AlTayyeb lo mettono nero su bianco: “il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano”. Ciò si realizza anche migliorando le condizioni della cittadinanza piena, che integra le minoranze; riconoscendo la piena dignità della donna e di tutti i suoi diritti; la tutela dei diritti fondamentali dei bambini e degli anziani, dei deboli, dei disabili e di tutte le persone oppresse per qualunque ragione.

Appare chiaro allora che proprio la tecnologia, e le tecnologie emergenti sono uno dei grandi mezzi che possono portare l’uomo a ottenere questi risultati, riducendo i confini, ampliando le conoscenze e creando comunità.

  1. Nel 2019 la Fondazione Centro Studi Emigrazione di Roma con la collaborazione della rete scalabriniana di supporto ai migranti presenta l’esperienza immersiva Ponte di Dialoghi. Come è nata l’idea di questo progetto innovativo?

Gabriele Beltrami. Conoscere e raccontare le migrazioni senza eccedere in semplificazioni e generalizzazioni stereotipate che addebitano ai migranti/rifugiati la responsabilità di ogni male sociale, economico, politico, culturale o ambientale non è certo agevole né portatore di empatia. Invece di essere considerate come elemento strutturale della vita sociale, le migrazioni diventano spesso corollario di altre problematiche come l’ecologia, la disuguaglianza di genere, lo sviluppo economico, il razzismo, l’identità nazionale, le discriminazioni, la criminalità.

Inoltre, i social network, occupando un grande spazio come mezzo di comunicazione, sono diventati anche il principale vettore di diffusione e proliferazione di numerose fake news sulla migrazione e i suoi primi protagonisti, riuscendo molto spesso ad ingannare una larga fetta dell’audience. Ecco perché la Fondazione Centro Studi Emigrazione (ed il network scalabriniano) e con noi numerosi ricercatori si propongono di contrastare tale “infodemia attraverso iniziative volte a ripristinare la verità dei fatti in modo sistematico contribuendo, ci auguriamo, ad un’azione di “disintossicazione” dell’opinione pubblica. Penso ad esempio a Yves Pascouau, ricercatore, fondatore e direttore di European Migration Law. Altri siti che sono impegnati in quest’opera di fact checking sulle “fake migratorie” sono quelli dell’Associazione Carta di Roma e dell’ISPI.

Io stesso partendo da un’intuizione avuta durante una serie di incontri del network scalabriniano volti a trovare nuove vie per coinvolgere positivamente i giovani in una dinamica empatica verso i migranti, assieme al presidente della Fondazione Centro Studi Emigrazione di Roma, P. Lorenzo Prencipe, siamo giunti a formulare il progetto Ponte di Dialoghi o Bridges Beyond Borders nella versione inglese.

       5. L’esperienza immersiva è concepita come strumento educativo, informativo e di intrattenimento. Quale pensa sia il contributo/potenziale di questo tipo di tecnologie?

Gabriele Beltrami.  Avendo chiaro in mente lo sviluppo concreto del nostro progetto di VR (Virtual Reality), credo che ciò che ci ha spinto a buttarci in questa esperienza e continuare mese dopo mese a limare sempre più le storie e il lavoro successivo con i ragazzi coinvolti, sia stata la volontà di promuovere una cultura della conoscenza, accoglienza e convivenza con l’umanità migrante non per sentito dire, per aver letto da qualche parte una storia “scioccante o strappa lacrime”, ma per aver provato da vicino cosa vuol dire intraprendere un viaggio come quello di tanti uomini, donne e bambini.

L’esperienza di VR è solo una parte, sicuramente quella più attraente, della ampia proposta di Ponte di Dialoghi di cui parlavamo prima, che ha visto infatti anche una formazione artistica e pedagogico teatrale per e con migranti e rifugiati per la realizzazione di performance e laboratori teatrali nelle scuole medie e superiori coinvolte nel progetto; la realizzazione in collaborazione con esperti di settore, di una serie di brevi volumi di taglio didattico per le scuole, sulla storia delle migrazioni in alcune città/regioni italiane.

Risulta quindi facile intuire che l’intento o potenziale di questa esperienza, in ultima analisi, è quello di diminuire le forme di discriminazione o xenofobia e sensibilizzare la cittadinanza tramite la conoscenza e l’educazione empatica, ed in particolare i giovani che rappresentano il presente ed il futuro di una società aperta e plurale, capace di garantire pari diritti, doveri e opportunità a tutti senza esclusioni di sorta.

D’altra parte il primo passo nella direzione di una società aperta e solidale non può che essere l’avvio del processo di riconoscimento dell’altro. Partendo da tali premesse la Fondazione CSER, sostenuta dalla Fondazione Migrantes e da altre realtà, in partnership con l’Associazione Scalamusic, progetto della Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo che lega l’arte ai temi della migrazione, ha voluto – non senza difficoltà tecniche da superare, vista l’assoluta novità ed unicità del tipo di esperienza – che il progetto Ponte di Dialoghi fosse fin dall’inizio rivolto alla società intera: alle associazioni che operano in favore dei migranti; al personale docente e non delle scuole medie inferiori e superiori; ai migranti e rifugiati per la realizzazione della formazione e dei laboratori teatrali nelle scuole; ai funzionari pubblici, ai rappresentanti delle Istituzioni; “last but not least” ai giovani dai 14 e i 25 anni nel loro percorso scolastico e formativo post scolastico.

  1. Oggi ci si abitua ad ogni tipo di immagine, niente ci indigna o commuove veramente. Crede che le esperienze immersive possano aiutare a riscoprire il valore umano dell’empatia?

Giovanni Tridente. La giornalista Assunta Corbo, che segue da vicino queste tematiche, spiega che come esseri umani siamo inclini all’empatia. È un qualcosa che appartiene alla nostra genetica, per cui ci verrebbe naturale immedesimarci in qualche modo nelle storie degli altri. Evidentemente, si tratta anche di una “pratica” da coltivare. E non è un caso che nell’epoca in cui siamo immersi si è fatto strada purtroppo un tarlo infestante, che Papa Francesco ha emblematicamente definito come “cultura dell’indifferenza”, dello scarto e dello scontro, alla quale bisogna rispondere con una sostanziosa “cultura della cura”.

Non siamo ancora preparati ad affrontare questa nuova sfida, che paradossalmente ci limita proprio in quanto esseri umani, andando a intaccare anche il nostro livello emotivo e mentale. Per cui, tutto ciò che può favorire il “ripristino” della qualità del nostro vivere insieme, condividendo con gli altri ascolto reciproco, atteggiamenti e quanto ricade nella sfera delle relazioni empatiche va assolutamente assecondato.

In questa linea, le esperienze immersive possono aiutare a coltivare la condivisione di vissuti e gettare le basi per condurci ad azioni empatiche, consentendoci di “avvicinarci”, anche a livello di percezione, alle condizioni degli altri. Questo vale sia per le situazioni di sofferenza – rispetto alle quali probabilmente saremmo più “reattivi”, anche per un meccanismo naturale d’immedesimazione – che per vicende gioiose. Ben vengano allora tutte quelle possibilità offerte dalla tecnica anche per (ri)prenderci finalmente “cura” di noi stessi e di chi ci vive accanto.

Gabriele Beltrami. Se la “VR” contempla, come nel nostro caso, l’interattività e immagini reali e non riprodotte al computer, quel poter compiere delle scelte e modificare il proprio percorso (in bene o ahimè in male) all’interno di una realtà quasi tangibile e non un “set” cinematografico o virtuale, ciò permette di aprire un dibattito serio sull’eventuale riuscita nel connettere empaticamente utilizzatore e rappresentazione di una storia “altra da sé”.

Se guardiamo un film tradizionale ed una scena ci disturba, ci possiamo voltare dall’altra parte, coprendoci gli occhi o tappandoci le orecchie, cosa che con la VR non è possibile, trovandoci, grossomodo, in un nuovo spazio vitale che, anche se non è il nostro corpo, percepiamo come “nostro”. La VR può aiutarci sicuramente a coltivare la compassione, e da questa incamminarci nel delicato campo dell’empatia mai completamente raggiungibile se non vissuta nel concreto dell’esistenza. Forse non toccheremo mai completamente il top dell’empatia, ma certamente la si potrà avvicinare, permettendo ad una persona di immergersi in qualcosa che al cinema, ad esempio, non si riesce a provare. L’esperienza, nel nostro specifico caso, porta lo spettatore/partecipante ad una fruizione ripetuta della stessa “storia”, perché ogni volta è possibile compiere scelte nuove, avere quella seconda possibilità che ai migranti e rifugiati è quasi sempre negata, ed imparare da questo fondamentali lezioni per la propria vita.

Ogni storia in VR, che nel nostro caso “dura” al massimo 8 minuti, si conclude con una testimonianza, faccia a faccia, con chi ha realmente vissuto la vicenda narrata. Pur rimanendo un’esperienza virtuale il nostro progetto permette di calarsi (grazie ad un esperienza interattiva tramite visori VR) nei panni dell’altro: ne scorgo finalmente i tratti e le espressioni come in uno specchio, in una nuova lettura della realtà che ci auguriamo resti scolpita nella mente e nel cuore di chi ha vissuto l’esperienza proposta da Ponte di Dialoghi.

  1. La Pandemia ha cambiato il modo in cui ci approcciamo gli uni agli altri e al diverso. Possiamo immaginare le tecnologie emergenti strumenti utili a comunicare ma anche a farci riflettere su una “Nuova Umanità” in cui i valori fondanti della società sono la solidarietà, l’inclusione, la sostenibilità?

Giovanni Tridente. La pandemia da coronavirus ha provocato a livello mondiale una rimodulazione di tutte le nostre abitudini intaccando molti aspetti della vita sociale che fino a soltanto pochi mesi fa ci garantivano assoluta sicurezza e tranquillità.  In una intervista rilasciata alla stampa inglese poco dopo l’inizio di questa disgrazia, Papa Francesco ha spiegato che la parola d’ordine di questo periodo è diventata “incertezza”, e attorno a questa siamo chiamati a ri-costruire tutto il nostro vissuto quotidiano. Ma ciò va fatto in prospettiva futura, quando l’emergenza sarà passata: tutti ci auguriamo il prima possibile.

Una ricostruzione da realizzare con “creatività” e riportando al vertice delle nostre preoccupazioni l’attenzione per chi è più debole e soffre la solitudine. La pandemia, infatti, se da una parte ci ha messi in guardia per preservare la nostra salute – facendoci sperimentare anche molti fallimenti – dall’altra ci ha allontanati ancora di più da chi è abituato a soffrire privazioni anche nei tempi in cui nessuna emergenza incombe. La scelta di Papa Francesco di aprire le porte della sua cappella per una Messa fino ad allora svolta in intimità è andata proprio nella direzione di vicinanza verso coloro che non possiamo toccare perché distanti, e nel caso specifico confinati a casa.

Se ci pensiamo bene, ciò è stato possibile proprio grazie alle tecnologie. Lo stesso è avvenuto nelle comunità parrocchiali dei piccoli centri e delle grandi città, così come nelle realtà ecclesiali dei movimenti e delle associazioni, che hanno potuto mantenere vive le loro attività – pur con le limitazioni dovute alla presenza fisica – ricorrendo a mezzi e strumenti sui quali fino al giorno prima nutrivano non poche remore. Oggi sembra un dato acquisito e non si fa neppure più attenzione a quante volte si è preferito escluderle dal panorama della condivisione comunitaria per non doversi “occupare” anche degli inevitabili limiti e rischi. Siamo a un punto di non ritorno, fortunatamente.

Ritornando ai continui richiami sociali del Pontefice verso gli ultimi, gli esclusi, i “periferici”,  ma anche verso la costruzione di un mondo migliore (zero armi, più salute), troviamo che egli sia oggi la vera guida morale dell’umanità. Una volta passata l’emergenza – si domanda Bergoglio – saremo capaci di risolvere la fame, silenziare le armi, cambiare stile di vita con comportamenti più austeri, frenare la devastazione ambientale e così mettere fine alla “globalizzazione dell’indifferenza”? I suoi auspici, d’altronde, sono gli stessi dei Pontefici di sempre: “una civiltà dell’amore e della speranza” che possa porre fine alla paura, alla tristezza, allo scoraggiamento, alla stanchezza. Un bel compito per le tecnologie emergenti governate da tutti noi, membri della stessa famiglia umana, fratelli.

Gabriele Beltrami. Inclusione, solidarietà e sostenibilità – mi permetto di invertire in parte l’ordine – sono una triade chiave per il futuro post-covid, per continuare ad evolvere come umanità nelle novità costanti posteci davanti: la pandemia ha mostrato con chiarezza e crudezza, a volte, come, trovandosi tutti su una comune barca in balìa di onde sconosciute e violente, l’unione faccia la forza e che anche la più piccola delle azioni compiute nella comune responsabilità sociale ha effetti sulla collettività.

L’inclusione sociale, ad esempio, è quella spinta che promuove parità, partecipazione attiva, integrando il presente e guardando insieme al futuro, un ponte di dialoghi, per citare il nostro progetto, tra generazioni, tra culture e tra stratificazioni sociali altrimenti recluse in un “oltre” spesso perso nel dimenticatoio.

La solidarietà ne è il motore che va riscoperto e alimentato quotidianamente: non possiamo ricominciare una vita a compartimenti stagni, nella quale lo sguardo termina poco al di là del mio naso, del mio egoistico orticello; quando guarderemo a questi anni con una certa distanza temporale e meno pathos, forse noteremo come solo l’aver sentito e sperimentato la vicinanza di altri fratelli e sorelle in umanità quando era più necessario ha “salvato” la nostra storia, senza aver lasciato indietro nessuno.

La sostenibilità, infine, dice che siamo tutti in viaggio su questo puntino nell’universo, responsabili della sua sussistenza e del suo futuro. Il sogno di evaderne ci pervade da tempo, è insito nell’essere umano, e la mente già sogna altri mondi da colonizzare: il nostro oggi però è qui, hic et nunc, direbbero i saggi, con una serie di responsabilità inevitabili. Le nuove tecnologie sempre più connotano e possono facilitare l’avvento di una nuova umanità, stilare un patto rinnovato tra l’uomo e la madre terra che ponga la triade su menzionata tra le basi solide della tanto invocata “ripartenza”.

Il contributo generoso della mente umana ci ha condotto fino a questo punto nella storia dell’evoluzione tecnologica e del pensiero e, più spesso di quanto si possa immaginare, sono state proprio le menti più pronte a reagire e aperte, quelle dei giovani, che hanno puntato con ottimismo e fiducia sull’essere umano, trovando nuovi percorsi di narrazione del presente, spalancando l’orizzonte e superando limiti apparentemente invalicabili.