L’intelligenza collaborativa come chiave per la trasformazione digitale dei processi HR

Da molto tempo vado sostenendo che, per affrontare con successo le trasformazioni determinate dalla pervasività del digitale, le aziende devono strutturarsi con una Direzione HR in grado di progettare e gestire percorsi di Change Management centrati sulla valorizzazione dell’intelligenza collaborativa di tutti i suoi stakeholder, a partire dai dipendenti.

Un buon esempio è dato dal successo di realtà come R-Everse,  un’azienda di ricerca e selezione del personale nata nel 2017 e diventata in due anni una S.p.A. con due milioni di fatturato e 40 persone impiegate. Il suo quid: ha applicato il modello collaborativo, tipico di realtà come Wikipedia e Airbnb, al recruiting. In pratica, attraverso una community esterna fatta di manager, detti Scout, riesce a trovare il candidato giusto. Gli Scout della community, distribuiti tra Italia, Germania e Austria, sono individuati secondo rigidi criteri, e alla fine di ogni processo di selezione vengono valutati anche dai candidati che hanno intervistato, proprio come i clienti  di Uber fanno con gli autisti. Gli scout svolgono una serie di attività, in collaborazione con il recruiter, come:

  • Preparare la job description
  • Comprendere al meglio i trend del settore, in particolare dove trovare il bacino dei potenziali candidati o qual è la giusta leva per attrarre i candidati
  • Individuare le reali competenze tecniche di ogni candidato intervistato
  • Aiutare ad ingaggiare i candidati, data la difficoltà di attrarre figure altamente specializzate, soprattutto nel settore IT.

Si tratta solo di un esempio, ma significativo del radicale cambiamento che stanno attraversando i processi HR. Ne parliamo con due testimoni, Marco Russomando, Direttore HR di illimity, e Marco Cerri, senior It di RCS, uno degli Scout di R-Everse.

M.M.: Nel mio libro del 2013 Intelligenza Collaborativa (tradotta poi in inglese l’anno successivo per Cambridge Scholars) sostenevo alcune tesi. La prima era che, per vincere le sfide della rivoluzione digitale, era essenziale attivare a tutti i livelli nelle aziende quell’attitudine alla collaborazione che è probabilmente innata negli esseri umani (l’uomo è un animale sociale già per Aristotele), ma che nelle organizzazioni di stampo tayloristico tradizionale (ancora assai numerose) entra in conflitto con un modello mentale che conduce alla rigida divisione in silos funzionali, con il mantra del comando e controllo, con la gerarchia fondata sull’autoritarismo e non sull’autorevolezza.

Al contrario, i comportamenti ispirati a trasparenza, fiducia, valorizzazione delle competenze, attitudine al dialogo interdisciplinare (“I mercati sono conversazioni”, Cluetrain Manifesto, 1999) sono quelli che risultano vincenti quando si agisce in Internet o tramite i canali digitali. In altre parole, la sfida del cambiamento si vince in primo luogo sul piano del cambiamento cognitivo individuale, quindi su quello della cultura aziendale, poi su quello dei processi (“nel libro proponevo il modello della “social organization”, basato su community collaborative analogico-digitali di pratica, di processo, di formazione, e via dicendo) e solo in ultima battuta su quello tecnologico. È d’accordo? Può fare esempi di come la sua azienda si sta muovendo secondo queste logiche in ambiti concreti (ad esempio rispetto ai temi del posizionamento competitivo, della strategia di marketing, dell’innovazione di prodotto, dell’organizzazione della rete commerciale)?

M.R (illimity): Nei miei oltre 20 anni nel mondo HR, ho assistito ad un costante cambiamento della culturale aziendale che oggi è diventato più che “esponenziale”. Un cambiamento particolarmente evidente in una realtà come illimity, una start up bancaria caratterizzata da un modello di business fortemente innovativo e ad alto tasso tecnologico. Abbiamo un posizionamento specifico in segmenti del credito difficile poco serviti dagli operatori tradizionali che presidiamo combinando innovazione ed esperienza, tecnologia e dimensione umana.  Siamo totalmente digitali – siamo la prima banca italiana nata in cloud – con un modello a zero filiali e la tecnologia pervade tutti gli ambiti di business e organizzativi. Ma tecnologia non vuol dire non mettere più al centro le persone, anzi. Ritengo sia di vitale importanza creare e viralizzare un clima collaborativo e appassionato. In questi primi mesi di attività abbiamo introdotto diverse iniziative tra cui un modello di performance management non convenzionale, basato sulla fiducia reciproca, costruito in funzione non solo degli obiettivi aziendali ma anche di aderenza al modello di competenze degli illimiters. L’allineamento degli interessi passa anche per il fatto che tutti i dipendenti sono anche azionisti dell’azienda. Inoltre, abbiamo adottato un piano di diversity & inclusion che abbiamo iniziato a costruire e che vogliamo realizzare in ottica di ecosistema con associazioni e network a partire da Valore D. Infine, grazie a un piano di mentoring interno all’azienda in cui Senior e Junior condividono esperienze e key learnings, puntiamo a creare empowerment nei giovani illimiters e consapevolezza e give back in quelli più adulti.

M.M.: La seconda tesi del libro era la crescente importanza della funzione HR in questo quadro evolutivo, sotto un duplice aspetto: da un lato, in quanto “cabina di regia” di un cambiamento che deve vedere l’armonioso coordinamento di tutte le competenze ed aree aziendali, spesso a gradi diversi di “maturità digitale”; dall’altro, in quanto il rinnovamento di metodi e strumenti HR deve guardare ad una “employee experience” oggi sempre più indistinguibile dalla “customer experience”, abilitata da una familiarità verso il digitale veicolata da device mobili di ogni tipo che è ormai trasversale a tutte le generazioni. In estrema sintesi, un dipendente oggi si aspetta che la Comunicazione corporate sia divertente come una serie tv su Netflix, che gestire una trasferta sia semplice come organizzare una vacanza su Booking, che partecipare a un corso di formazione dia l’adrenalina di un videogioco. A questo si aggiunge sempre di più la necessità di attivare la collaborazione non solo fra esseri umani, ma fra esseri umani e Intelligenze Artificiali, robot, reti neuronali, chatbot e via dicendo. Ritiene che oggi le Direzioni HR sono all’altezza di questi nuovi obiettivi?

M.R (illimity): Le direzioni HR hanno finalmente compreso e in molti casi stanno genuinamente lavorando per essere (di nuovo) all’altezza delle aspettative dei dipendenti. Non è facile, ma è certamente la sfida di oggi. Sono molto d’accordo che l’ecosistema – come la funzione HR – deve e dovrà sempre di più garantire l’esperienza che le persone si aspettano e che sul mercato si distingueranno sul mercato i prodotti o servizi – e le aziende – che riusciranno a sorprenderle. L’essenziale per me, in questo paradigma, è mantenere il focus sulle persone, il fattore competitivo più prezioso, attraverso un’ecosistema organizzativo aperto, semplice e ingaggiante dove il potenziale di ciascuno può svilupparsi e convergere in una performance collettiva superiore, abilitato anche da strumenti come social collaboration e gamification.

A questo proposito vorrei dire cosa per me significa la parola contaminazione, nella mia esperienza in HR ed in particolare in illimity. Uno dei regali della contaminazione è smontare o smussare pregiudizi. La funzione HR è oggetto di una trasformazione radicale di cui forse proprio i professionisti del personale non hanno colto alcuni risvolti.
Abbiamo continui esempi di come quella umana sia la forma di capitale per eccellenza o, in termini da new economy, l’unica capace di creare la scintilla della disruption.
Ad esempio, tutti conosciamo la storia dell’i-phone o di come Pixar abbia dato filo da torcere al gigante Walt Disney. Chi non ricorda lo scetticismo feroce intorno alla tastiera virtuale del primo i-phone?
Un milione di pezzi venduti in dodici mesi e un miliardo in meno di 10 anni. Non male per un telefono che aveva solo un tasto, no?
Certamente tutto questo deriva anche dall’evoluzione tecnologica ed organizzativa, ma proprio in un’era digital la chiave di lettura più interessante riguarda l’impatto dell’essere imperfetto: la persona.
Per concludere mi sento di affermare che con tempo e denaro si può riprodurre qualsiasi prodotto, ma non basteranno fiumi di denaro e dieci anni per riprodurre la cultura di un’azienda, che altro non è che  la somma (anzi la potenza) di una miriade di fattori umani, relazionali ed organizzativi.

M.M.: Uno dei processi HR più coinvolti nel cambiamento è quello del recruiting, sempre più connesso a quello più ampio dell’Employer Branding. Potete descrivere l’esperienza di recruiting collaborativo che avete vissuto insieme a R-Everse, che citavo in apertura? Una provocazione: ritenete che in un futuro prossimo gli attuali “Scout” umani potranno essere sostituiti da algoritmi di ricerca in grado di setacciare sul Web tutte le informazioni utili all’individuazione del candidato ottimale?

M.R.(Illimity): Per noi il candidato è come un potenziale cliente, e in quest’ottica insieme a R-Everse ci piace stabilire con lui una relazione di lungo periodo, cosa non semplice per cui servono competenze specifiche. Altro aspetto che apprezziamo molto è la condivisione con tutti i candidati – che proseguono o non proseguono il percorso in azienda – un report strutturato sulle loro competenze. Anche questo per noi è give back.

La squadra di illimity è una squadra che fa dello spirito collaborativo il suo asse portante. I nostri valori, il non fermarsi davanti alle sfide e alle diversità ma andare “oltre” sono parte integrante del nostro modello di business e, di conseguenza, del nostro modo di lavorare e reclutare nuove risorse. Per questo motivo, usiamo la parola “illimiter” per indicare chi – dentro e fuori illimity – abbraccia questi valori che fanno parte della nostra identità. Gli illimiter, nel nostro linguaggio, sono coloro che non si accontentano del presente, che non si fanno fermare dagli ostacoli o dai pregiudizi. Il nostro simbolo è, infatti, il simbolo dell’oltre.  Quanto agli algoritmi, ritengo che questi potranno setacciare le competenze, ma visto che la principale competenza del 21° secolo è l’empatia, serviranno abilità nuove: dall’UX, alle neuroscienze passando per l’antropologia per trovare il cultural mindset più in linea con l’organizzazione.

M.C.(Scout): La mia esperienza col recruiting collaborativo in qualità di Scout è del tutto positiva, mi permette di far parte di un meccanismo che funziona, e in cui ho modo di guardare tutto il processo di recruiting da vicino. Il principale valore aggiunto di questo modello è la possibilità per il candidato di confrontarsi con una persona preparata nel suo ambito specialistico, insieme al quale può comprendere appieno le richieste dell’azienda cliente e venire valutato da un tecnico. Infatti per un tecnico è possibile comprendere skill tecniche in una maniera impossibile per un recruiter generico. E il candidato si rende conto perfettamente se ha di fronte una persona che parla la sua stessa lingua o meno. La valutazione complessiva è quindi più corretta. Per noi Scout è un’esperienza assolutamente calabile nella nostra vita personale e professionale, dato che possiamo fissare i colloqui tramite video-call in orari non lavorativi. Chiaramente anche per il candidato questo è un gran valore aggiunto. Oltre alla retribuzione, per me è una crescita professionale perchè il mondo del lavoro è in continua evoluzione e affinare le mie skill di recruiting è un aspetto interessante. Inoltre mi permette di conoscere altre realtà aziendali e altre figure professionali, e di approfondire temi tecnici con cui vengo a contatto più raramente nel mio lavoro ma che devo conoscere al meglio per poter intervistare i candidati in maniera competente.

Venendo alla tua provocazione, credo gli Scout “umani” non potranno mai essere sostituiti da algoritmi. Difficilmente una macchina può portare lo stesso risultato di un uomo in questo campo. Alcune skill, soprattutto le soft, non sono auto-dichiarabili ma vanno testate con un colloquio approfondito. L’esperienza umana non potrà mai essere del tutto sostituita (anche se parlando di tecnologia il “mai” è sempre più un concetto relativo: potremo rimanere molto sorpresi dalle scoperte tecnologiche del prossimo futuro).

M.M.: Quali aspetti dell’employee experience sono a vostro avviso sempre più caratterizzati dalla valorizzazione dell’intelligenza collaborativa delle persone attraverso l’utilizzo di strumenti e piattaforme digitali?

M.C. (Scout): Per quanto riguarda il recruiting, gli aspetti in cui la tecnologia sta portando maggiori benefici a mio parere sono la trasparenza e le tempistiche del processo di ricerca e selezione.

Nella ricerca di lavoro il candidato ha sempre una difficoltà: sapere chi sia il suo interlocutore, cosa pensa, come ti vede, quale sia l’esito del colloquio. Infatti quasi mai vengono dati feedback alle persone scartate e questo porta molti candidati a rimanere in stand-by per mesi senza sapere se procedere con altre selezioni, o peggio procedendo alla cieca con decine di selezioni, con conseguenti perdite di tempo del candidato e delle aziende selezionatrici. Inoltre imparare dai propri colloqui grazie ai feedback consentirebbe ai candidati di capire meglio quali posizioni sono in linea col proprio profilo e quali no, e quindi di candidarsi in maniera più oculata. Grazie alla tecnologia è possibile condividere feedback e mantenere la relazione con i candidati in maniera molto più veloce ed efficace.

Altro aspetto sono i tempi di selezione: fare i colloqui “a km 0”, grazie alle video call, (almeno il primo colloquio conoscitivo) oggi è possibile grazie alla tecnologia e cambia completamente il processo, consentendo ad entrambe le parti di capire velocemente se proseguire con la selezione o meno, prima di investire tempo lavorativo.

M.R.(Illimity): Oltre al recruiting, sicuramente è impattato il mondo della formazione, che è importante sia per lo sviluppo delle hard skills – le parti più core e tecniche – ma soprattutto per le soft skills – l’abilità di sviluppare doti interpersonali, di public speaking e un mindset aperto e collaborativo, che permette di affrontare qualsiasi possibile sfida. Il legame tra hard e soft skills è sicuramente il digitale. Le competenze digitali sono indispensabili ai lavori del presente e del futuro e sono per noi un grande punto di attenzione, per questo parteciperemo anche a Campus Party a Milano tra il 24 e 27 luglio, un’esperienza per confrontarsi con millennials e generazione Z, ideare e prototipare con loro la banca di nuovo paradigma.