Ri-uso e Humanistic Management
“Esiste un momento in cui possiamo dire che la letteratura vince? Certamente quando viene letta, ma soprattutto quando scopriamo che un romanzo, un racconto o una poesia servono, più di ogni ragionamento, di qualsiasi astrazione o approfondimento teorico e intellettuale, a capire e ad affrontare la realtà”.
Queste parole di Stas Gawronski, in apertura dell’articolo di una decina di anni fa intitolato Azienda e letteratura, focalizzano l’idea che sta alla base di quell’orientamento disciplinare – che sempre più successo sta riscuotendo presso la business community – volto a ri-usare testi letterari per analizzare la realtà ed in particolare quell’ambito specifico del reale che è il mondo aziendale.
Si tratta di una dimensione fondamentale dello Humanistic Management: un’avventura iniziata nel periodo 1997-2003 attorno alla rivista “Hamlet”, da cui ho tratto il volume “L’impresa shakespeariana”, con tutte le copertine di Milo Manara. Questo è stato il punto di partenza che ha consentito di arrivare al “Manifesto dello Humanistic Management”, alla cui redazione hanno partecipato personalità determinanti per la storia della formazione manageriale in Italia (2004), e al libro meta-disciplinare, incentrato sulle poesie di Wislawa Szymborska, “Nulla due volte” (2006); fino ai romanzi collettivi “Le Aziende InVisibili” (2008), basato sulla rilettura delle “Città Invisibili” di Calvino, e “La Mente InVisibile” (2011), in cui ciascun co-autore ha riscritto un libro della Bibbia. A questi è seguito il progetto “blended”, ovvero sviluppato sia in analogico che in digitale, “Alice Postmoderna” (segnalato dall’Agenzia per l’Innovazione – Presidenza del Consiglio dei Ministri come “unico vero spunto di riflessione costruttiva realizzato relativamente a talento individuale ed intelligenza collettiva”), concluso nel 2012, e il saggio dal titolo non casuale “L’intelligenza collaborativa” (2013, edizione Cambridge parzialmente rivista, 2014).
Ecco perchè ha immediatamente attirato la mia attenzione il primo romanzo scritto da Giulio Xhaet, I sogni di Martino Sterio, che non mi è sembrato solo un campione, per quanto eccellente, di quella letteratura per Young Adults che va oggi tanto di moda: piuttosto come esempio del ri-uso quale meccanismo situato direttamente al cuore di qualsiasi esperienza estetica e artistica: dunque della letteratura, che dell’esperienza estetica costituisce tanta parte.
Come di consueto, ne parliamo direttamente con l’autore, che presenterà il libro MERCOLEDÌ 19 APRILE alle ore 19 al Fuori Salone di Tempo di Libri al Mondadori Megastore di via Marghera 28, Milano.
M.M.: E tu chi sei (per dirla con il Brucaliffo di Alice)?
G.X.: Dai 15 ai 29 anni ho avuto il privilegio di trastullarmi con le possibilità della vita, in modo spesso inconsapevole.
La mia più grande fortuna è stata quella di non avere abbastanza soldi per fare il mantenuto inconcludente, altrimenti all’epoca l’avrei fatto. A un certo punto ho dovuto affrontare la vita VERA, con fallimenti e porte in faccia. Trasferirmi in una città più grande, cercare lavoro, frequentare gente nuova. Per lo Xhaet dell’epoca era una specie di film horror, da far invidia all’Esorcista e Profondo Rosso.
E questo mi ha salvato. Le strade in discesa senza ostacoli ti fanno schiantare. Le strade in salita ti salvano. Che le difficoltà sempre siano lodate.
Guardandomi indietro c’è un filo rosso che tiene insieme traguardi e progetti: l’amore per le parole. Mi sono laureato in triennale con una prima tesina in semiotica sul geniale testo “Ubik” di Philik K. Dick, cercando di sviscerare i significati nascosti nel testo. Ubik è diventato il nome della band rock nella quale ho riversato le energie per molti anni. I testi degli Ubik partivano quasi sempre da neologismi (spesso improbabili), codici, anagrammi e simili. Mi piace smontare e ricombinare le parole come un bimbo alla presa con i Lego. Sono convinto che la scatola di Lego più straordinaria che esista sia il vocabolario. Le parole spesso contengono storie incredibili: smanettaci e otterrai un potere pazzesco, quello di risvegliare forme e significati dormienti. Questo è rimasto nella mia attività professionale: ad esempio nel mio primo libro, Le Nuove Professioni del Web, il concetto di partenza è il “Codice Umanistico”, che deve integrarsi con il Codice Informatico. Ed è presente in modo consistente in questo romanzo: I Sogni di Martino Sterio per me è un omaggio alla potenza delle parole.
M.M.: La trama di cinque righe?
G.X.: Questa la trama: un ragazzo inizia a fare sogni molto particolari. Sembrano le versioni aggiornate di Alice nel Paese delle Meraviglie. Insieme si suoi amici scoprirà che i sogni lo stanno guidando alla scoperta di un mistero rimasto celato per secoli: la vera origine, il vero autore e il vero obiettivo di quel testo, celebre ed enigmatico quanto la Bibbia. Un mistero che in qualche modo si è intrecciata con la storia della sua famiglia.
M.M.: Perché questo libro, che sembra ispirato a slogan sessantottini tipo “la fantasia al potere” ma in chiave post cyberpunk (e, data la tua passione per Dick, la cosa non sorprende)? A chi si rivolge, c’è un “lettore ideale” cui hai pensato durante la stesura?
G.X.: Non ho velleità rivoluzionarie. Tanto per citare il buon vecchio Kurt: non è un testo sulla rivoluzione, è più un pensiero su una rivoluzione. Ma è un pensiero piacevole. Caricando i fucili con le giuste parole dette al momento giusto si può sempre tentare qualcosa. Anche nell’epoca delle fake news.
Il lettore ideale non riesco a immaginarmelo, però chi l’ha letto in anteprima mi ha detto che è godibile per tutte le età. Electa Mondadori ha voluto indirizzarlo a un target giovane, per poter mettere la copertina in libreria di fianco a quella di Harry Potter. Mossa furba, anche perché i bimbi leggono più degli adulti, alla faccia dei papà che dicono ai figli di non stare su social e poi non staccano un attimo lo sguardo da mail e WhatsApp. E a me va benissimo: chi meglio dei bambini sa giocare con i lego delle parole? Spero di organizzare presto dei seminari in qualche scuola, mi divertirei come un matto in mezzo a quelle letali creaturine.
M.M.: Il libro si sviluppa lungo due percorsi paralleli, veglia e sonno (fermo restando che diversi indizi, a partire dal titolo, fanno pensare che l’autore condivida l’idea shakespeariana secondo sui “Siamo fatti della stessa materia dei sogni” e dunque la distinzione non sia poi così determinante). Mentre il primo plot sembra ispirarsi a a modelli quali “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, il secondo percorso è una sorta di rilettura in chiave contemporanea di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Il Bianconiglio diventa il Biancooter, le parole portmanteau di Carroll vengono risciacquate nell’Arno del linguaggio dei “giovani d’oggi” (per dirla con Totò e Peppino) e via dicendo. Perché Alice continua a mantenere la sua “inattualità”?
G.X.: A mio parere, per tre motivi principali:
- “Alice nel Paese delle Meraviglie” e “Attraverso lo Specchio” sono allo stesso tempo capolavori pop e testi complessi di alta letteratura. Pop nel senso di popolare, contiene icone sempreverdi: lancia una gara a tema sui costumi di Alice alla festa del paese a fianco di braciole e salamelle e otterrai successo. Ma lancia una discussione erudita sui significati nascosti del testo al club degli intellettuali più eruditi di qualsiasi nazione e otterrai un altro successo.
- I numerosi personaggi sono iconici, e possiedono una forza transmediale innata. Con lo Stregatto o il Brucaliffo puoi farci un fumetto, una collezione di quadri, una canzone, un film, una serie tv, film, libri. Tutto nel romanzo ha una personalità eccezionale, che puà essere ripresa solo nella forma e solo nei contenuti, oppure con entrambe. E in qualunque chiave di genere: Tim Burton nella sua pellicola ha sottolineato il fantasy, ma un Quentin Tarantino potrebbe facilmente ricavarne un ottimo pulp, un Woody Allen una parodia psicanalitica.
- Sono testi non solo originali, ma unici. Si tratta di nonsense che strabordano di senso da tutte le parti. E colmi di misteri su Carroll (il cui vero nome è Charles Dodgson) ancora da svelare. Come spiega Ronald Foster, uno dei personaggi del mio romanzo:
“Il fatto è che una parte di lui si vergognava e aveva timore del suo stesso libro. Dodgson era un uomo austero, un moralista. In sua presenza era meglio non fare scherzi nemmeno lontanamente blasfemi. E invece, guarda che caso, le avventure di Alice diventarono celeberrime proprio grazie a questa peculiarità che non insegnano nulla. Di fatto, sono puro zucchero, prive di qualsiasi morale, quel fondo amaro che molti pensano debba trovarsi ben impresso in tutti i libri per bambini. Sta proprio qui il massimo paradosso carrolliano: nel fatto che il libro più anarchico della letteratura inglese sia poi diventato il più citato da sapienti, uomini politici e persone comuni, alla pari di Shakespeare e, guarda caso, la Bibbia!”
M.M.: “What is the use of a book without pictures or conversation?” E’ la prima frase articolata da Alice, nell’incipit di “Alice in Wonderland”. “A che serve un libro senza figure e dialoghi?” è il pensiero che le frulla per la mente, così come tutte mentali sono le sue avventure: che si compongono in un sogno (a curious dream, lo definirà nelle battute finali del libro,un curioso sogno di mezz’estate) fatto di immagini in movimento e conversazioni, come un film. Le differenze fra le due forme di immaginazione sono del resto minime: un film, è stato spesso notato, per molti aspetti non è che un sogno condiviso nella grande stanza buia del cinema, mentre la coincidenza fra la data di pubblicazione de “L’Interpretazione dei sogni” e quella della nascita della cinematografia (1899) appare a molti come qualcosa di più di una mera casualità. Cinematografia e psicanalisi sono due fra le più caratteristiche espressioni della modernità, che in Alice hanno trovato innumerevoli occasioni di sperimentazione.
Ma l’incrocio di immagini e conversazioni segna anche maggiormente la contemporaneità incarnata nei social network. Cosa è Facebook, il più rilevante fenomeno del web 2.0, se non un libro con immagini e conversazioni? Ricordo tutto questo perché non mi sembra casuale che “I sogni di Martino Sterio” rimandino a percorsi che saranno sviluppati su Facebook e altri social network….
G.X.: I sogni sono pezzi ricordi mescolati insieme dal nostro cervello, in modalità e per motivi ancora sconosciuti.
Un aspetto che mi affascina e allo stesso mi inquieta dei social network è che postando contenuti giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, costruiamo un album di ricordi permanente. E quei contenuti non sono di nostra proprietà, sono del social network. Un po’ come dire che paghiamo la gratuità delle piattaforme regalando non solo i contenuti (Come spesso viene ripetuto: Facebook è il più grande owner di contenuti al mondo, e non ne crea nemmeno uno, siamo noi a creare il suo immenso valore) ma anche i nostri ricordi.
È vero se un ricordo lo condividi, vuoi che non sia più solo tuo, ma di tutti (perlomeno se ne sei consapevole, e se non lo sei, caro amico datti una svegliata e capisci come funziona lo strumento). E mi piace che entri a far parte della crowd della rete. Ma non dovrebbe essere di proprietà di un’azienda privata. Quello della proprietà dei dati, d’altronde, è uno dei temi che infiammerà il dibattito sociale, politico e aziendale dei prossimi anni. Questa intervista a Alex Pentland del MIT, ad esempio, anticipa in modo chiaro lo scenario.
Tornando a “I Sogni di Martino Sterio”: sì ovviamente ci siamo divertiti a lanciare una campagna ad hoc: #MartinoSogna. Ed è emerso ciò che dovrebbe essere evidente a chi lavora da anni nel Social Media Marketing: funzionano i contenuti che raccontano una storia, in cui le persone possano identificarsi, o per cui possano incazzarsi, o possano dire la loro, o ci possano ridere sopra. Abbiamo anche progettato alcuni post a micro-pagamento per divulgare minigames in stile “Sei più A o più B?”, puntando soprattutto al target young che può dedicarti il tempo di un click, che infatti ha risposto con migliaia di reactions (Facebook) e cuoricini (Instagram).
Ma l’oggetto di comunicazione migliore della campagna (e da cui stiamo attingendo a piene mani per i social) è l’infografica ufficiale. Penso infatti che un libro possa anticipare ed esplodere i suoi contenuti con questo formato, che permette di creare “isole di significato” visivamente impattanti e collegare temi e fonti di ispirazione di un testo in modo inedito.
Eccola qui.
M.M.: Quanto l’esperienza maturata sui temi delle Digital HR ha influito su forma e contenuti del libro? Penso ad esempio all’infografica di supporto in cui il libro è riproposto in chiave “videogamificata”: mappe, personaggi, livelli.. per altro un’altra intuizione carrolliana (“Alice nel Paese delle Maeraviglie” è costruita intorno al gioco delle carte, “Attraverso lo Specchio” è una partita a scacchi).
G.X.: Appunto, l’infografica 😊
Un contenuto visivo strutturato può offrire grandi soddisfazioni anche se declinato per mappare un’organizzazione. Si può partire dalle persone che la compongono e dalle loro competenze. Un oggetto che non esprima solo dati statistici di business ma faccia emergere i valori delle persone in modo più creativo. Informazioni, dati, numeri e statistiche per divulgare il cuore umano di un’azienda, e non il contrario come spesso vedo accadere nelle infografiche di grandi imprese.
Più in generale, sul tema della gamification vorrei dire questo: viene percepita ancora come una modalità per far fruire contenuti alle persone di un’organizzazione in modo più divertente e leggero. Ma “gamificare” un’esperienza può portare invece alla comprensione più approfondita e densa dei contenuti. La sfida è quella di progettare attività davvero piene di significato per chi le svolge. Un ottimo testo che consiglio per approcciare e applicare le logiche della gamification è “L’arte del coinvolgimento” di Fabio Viola. Un caro amico, che approfitto per salutare.
M.M.: Questo blog si rivolge alla business community: cosa potrebbero imparare manager e in particolare Direttori HR dalla lettura del tuo romanzo? Ad esempio, un tema che è stato oggetto di una riflessione del progetto “Alice Postmoderna”, ripresa e sviluppata anche nell’ambito del Wikiromance “Racconti invernali da spiaggia“, è l’essenza della leadership al femminile che, a mio avviso, si identifica con la capacità di Alice di dialogare con tutti i “diversi” in cui si imbatte nel corso delle sue avventure: personaggi bizzarri, animali parlanti esistenti e persino estinti (come il Dodo), creature mutanti come lo Stregatto…
Lo ricordavo in un post dedicato al volume Global Inclusion: “la diversità della Alice carrolliana come dei Nativi Digitali attuali è l’altra faccia della loro singolarità. La coglie bene l’Unicorno che incontrando Alice nel Paese Al di Là dello Specchio commenta: ‘Una bambina? Ma io ho sempre pensato che fossero solo dei mostri favolosi!’. La stessa opinione che hanno gli scientific manager (offline ed online) rispetto a tutti i portatori di differenze. Le organizzazioni tradizionali, nonostante le dichiarazioni di facciata, non cercano individui di talento, personalità originali, ma dei cloni, dei ripetitori razionali di compiti e mansioni. In cambio della propria individualità le persone ottengono la sicurezza derivante appunto dalla omologazione di tutti a codici di comportamento chiaramente definiti e sempre uguali; anche i prodotti che queste organizzazioni propongono al cliente generano questo senso di sicurezza”.
La leadership di Alice al contrario è quella che nei termini dello Humanistic Management definiamo “convocativa”, fondata sul suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. Mi sembra un tema molto presente anche nel tuo libro o sbaglio?
G.X.: Il libro è anche un testo di formazione, di una persona molto insicura, incapace di parlare in pubblico, e che per questo spesso si priva di occasioni, metà per paura metà per arroganza. In molte pagine Martino deve lottare con il suo orgoglio narcisista, e alla fine dovrà ascoltare tutti per riuscire nella sua quest (se ci riuscirà, ovviamente…). Se volete, leggetelo come un invito ai manager con un’attitudine al controllo nello sfidarsi e abbracciare l’ascolto e la collaborazione.
Sul tema diversity: uno dei personaggi che preferisco è Giulia, una ragazza lesbica che affronta a testa alta tutti i giorni la sua bellissima diversità. E lo fa da una parte prendendosi in giro e prendendo in giro gli altri, disseminando in giro della sana ironia e poi lottando per comunicare ciò che pensa. In questo modo trova il suo posto nel mondo.
Chiudo con una riflessione tra il personaggio di Martino e il concetto di “leader”.
Inizialmente è quanto di più lontano da un leader si possa immaginare: confuso, impacciato: un “Cuor di Coniglio”. Ma affrontando gli eventi che lo vedono suo malgrado protagonista dovrà scegliere se combattere per “diventare se stesso”, oppure fuggire e “rimanere se stesso”. Il “se stesso” è un’espressione scivolosa e stucchevole, perché in realtà puoi rimanere tale pur rivoluzionandoti da capo a piedi. Credo che i leader non nascano tali, ma lo diventino, grazie alle cicatrici dei vecchi se stessi uccisi. Un sognatore, un innovatore è colui che non ha paura di cambiare, e nemmeno di cambiarsi.