Per valorizzare il talento serve l’inclusione globale

“La diversità della Alice carrolliana – dicevamo in  Alice, la humanistic manager – Alice annotata 10 – come dei Nativi Digitali attuali è l’altra faccia della loro singolarità. La coglie bene l’Unicorno  che incontrando Alice nel Paese Al di Là dello Specchio commenta: ‘Una bambina? Ma io ho sempre pensato che fossero solo dei mostri favolosi!’. La stessa opinione che hanno gli scientific manager (offline ed online) rispetto a tutti i portatori di differenze. Le organizzazioni tradizionali come gli attuali Tecnocrati di Wikipedia, nonostante le dichiarazioni di facciata,  non cercano individui di talento, personalità originali, ma dei cloni, dei ripetitori razionali di compiti e mansioni. In cambio della propria individualità le persone ottengono la sicurezza derivante appunto dalla omologazione di tutti a codici di comportamento chiaramente definiti e sempre uguali; anche i prodotti che queste organizzazioni propongono al cliente generano questo senso di sicurezza.

In questo quadro, nel post Strategie Competitive, Core Competence E Valorizzazione Dei Talenti abbiamo visto più in profondità le relazioni fra modelli organizzativi  tradizionali e la loro inadeguatezza a gestire il talento. Oggi vogliamo focalizzarci più specificamente sulla definizione di cosa sia il talento e di quale sia il suo rapporto con la diversità, cogliendo l’occasione dell’uscita del  bel libro di Andrea Notarnicola, uno dei fondatori dello Humanistic Management,  Global Inclusion.

“Se è vero che  la valorizzazione del talento è  la chiave del successo di un Paese e delle sue imprese, allora il talento va cercato ovunque si trovi, va protetto e sviluppato in qualsiasi forma si presenti, va connesso e valorizzato perché possa aiutare a prevedere e a gestire i cambiamenti che continuamente si presentano, in un tempo veloce e complesso come quello in cui viviamo. La sfida è accettare che chi siede al vertice delle imprese e delle organizzazioni sociali non sia sempre un maschio, bianco, eterosessuale, sui quarant’anni, cristiano e perfettamente abile: le persone che presentano tutte insieme queste caratteristiche sono in fondo una sparuta minoranza, anche se sovrarappresentata nei luoghi in cui si prendono le decisioni. Se vogliamo dar fondo al talento ovunque si trovi, dobbiamo necessariamente aprire il nostro terreno di caccia a un’area assai più ampia e complessa della piccola riserva nella quale abbiamo operato sinora. Questo comporta un’attenzione fortemente focalizzata su una serie di parametri che non sono solo numerici, ma anche qualitativi: non basta chiedersi quante donne (o neri, o gay, o persone con disabilità o altro) abbiano raggiunto il grado di dirigente o siedano in Consiglio di Amministrazione, ma soprattutto come si faccia, nella filiera del talento, a costruire condizioni favorevoli allo sviluppo di tutte le persone (indipendentemente dalle loro caratteristiche personali) e di una cultura del Paese e d’impresa capace di comprendere e metabolizzare i rapidi cambiamenti della società contemporanea”.

Così si esprime Ivan Scalfarotto, Sottosegretario di Stato alle riforme costituzionali e ai rapporti con il Parlamento Fondatore e Presidente onorario di “Parks – Liberi e Uguali”, nella sua prefazione ad un testo che inizia affrontando di petto uno dei grandi problemi delle aziende italiane, l’autoreferenzialità. “In un mondo di cambiamenti continui, complesso per interconnessioni e interdipendenze, la varietà delle storie personali fa la differenza, e quindi la forza di un’azienda”, scrive Andrea. “Non basta tuttavia cambiare management ogni quattro anni perché il team dirigente sia diverso. La politica delle porte girevoli nei board delle imprese ha spesso distrutto valore a causa sia della visione di breve periodo di questo management a scadenza sia della sostanziale omogeneità culturale delle persone che spesso si avvicendano al vertice. Sempre diverse ma alla fine troppo simili. L’autoreferenzialità impedisce alle imprese di accogliere e valorizzare feedback esterni alla comunità chiusa della dirigenza, di cogliere nuove opportunità, di leggere possibili minacce: rende queste imprese fragili”. Viceversa, “se analizziamo le imprese e le comunità che hanno avuto successo, ci rendiamo conto di quanto un’organizzazione aperta alla complessità della vita e alla differenza delle esperienze sia in grado di fare i risultati, in quanto motivata dall’unica ragione che legittima il profitto di un’impresa agli occhi delle comunità: cambiare la vita delle persone in meglio”.

Ecco allora l’obiettivo del libro: “aiutare i manager a comprendere, su un piano concettuale e pratico, come far crescere il  business attraverso una strategia di inclusione globale finalizzata allo sviluppo di servizi e prodotti per i mercati”. Obiettivo tanto più importante, quanto più le aziende hanno ormai inevitabilmente intrapreso “un processo di osmosi tra quanto accade “dentro” e “fuori” l’organizzazione (Social Business, ndr). Il mondo si fa plurale sul piano demografico e sociale, la comunicazione diventa social in virtù dei nuovi media e di conseguenza cambia il panorama organizzativo”. In altri termini, nel momento in cui il modello di riferimento è quello della social organization, la “global inclusion”, perseguita non retoricamente attraverso specifiche strategie di diversity management, diventa la premessa ineludibile per la sua realizzazione.

Ma cosa significa più esattamente tutto questo? Come è consuetudine di questo blog, ne abbiamo parlato direttamente con l’autore.

MM: “Andrea, ci dai innanzitutto una definizione dei concetti di inclusione globale e diversity management, illustrandoli anche con qualche esempio di loro declinazioni possibili?”

AN: “La gestione delle differenze è un tema sentito dalla società, e non solo dalle aziende. Dopo la strage di Parigi, nelle sue conseguenze emotive, i media hanno raccontato la paura diffusa di uno scontro di civiltà: nelle periferie europee, e nei centri decisionali, la questione è quindi al centro dell’agenda. E tuttavia questa tematica non può essere ridotta ad una sola dimensione. La diversità include le cosiddette differenze visibili, quali etnia, sesso, età, disabilità o la nazione di origine, e quelle cosiddette invisibili come le condizioni economiche, l’orientamento affettivo-sessuale, l’identità di genere, la religione, la diversità di pensiero e tutte le altre differenze, spesso quelle più interessanti, che rendono ciascuna persona unica. L’inclusione globale è una pratica tesa a costruire un contesto in cui le differenze vengono accolte cosicché i talenti, i contributi e le idee di tutti siano messi a sistema e valorizzati. In molte aziende questi concetti sono intesi come una questione di pari opportunità o di comunicazione d’impresa sulla sostenibilità. In questo testo ho voluto considerarli come pratiche tese al sostegno della creatività dell’azienda, perché credo che ci sia bisogno di mettere a fuoco il valore competitivo e strategico di queste politiche. In sostanza, senza inclusione, non possiamo gestire mercati e contesti sempre più complessi”.

MM: “Quali vantaggi di business si producono concretamente quando si superano il conformismo e la paralisi organizzativa di team omogenei?”

AN: “Negli ultimi 10 anni le 50 imprese globali USA top nella gestione della diversità hanno ottenuto risultati migliori: più alti del 22% nel Dow Jones Industrial Average, e del 28% al NASDAQ, secondo Catalyst. McKinsey & Company ha misurato l’effetto della diversità negli Stati Uniti, in Francia, Germania e Regno Unito: le aziende classificate nel quartile superiore per diversità degli executive hanno ottenuto già nel 2012 ritorni sul capitale più alti del 53% e margini EBIT superiori maggiori del 14%, in media, rispetto alle altre. Sul piano interno questo approccio promuove la ricerca dei migliori talenti disponibili e facilita la creazione di un contesto in cui prospettive sfaccettate migliorano il processo decisionale. Sul piano esterno esso facilita la comprensione etnica, culturale, religiosa e personale dei clienti e permette quindi di mantenerli e conquistarli. Le aziende hanno bisogno di chiedere a se stesse “Riusciamo a capire la società emergente?” o meglio “Come possiamo metterci nelle condizioni di comprendere la società emergente, i nuovi bisogni, le nuove famiglie?”. Si ritiene che l’applicazione di modelli chiusi di gestione inibisca lo sviluppo di innovazione utile per affrontare un mondo in rapido cambiamento. In termini generali facilita il benessere organizzativo e la qualità delle relazioni con gli stakeholder: purtroppo il Sudeuropa vive ancora un modello antagonista in cui il ruolo dell’azienda spesso non è inteso come distributore di benessere e quindi non viene valorizzato socialmente. Se l’azienda produce valore per la società e non è un luogo di battaglia, lavorare sull’inclusione significa prendere posizione rispetto alla relazione tra azienda e lavoratrici e lavoratori. Un progetto sull’inclusione globale ha senso in aziende pensate per essere luoghi di benessere”.

MM: “Nel tuo libro presenti una serie importante di case history aziendali. Ce ne vuoi riassumere qui un paio fra quelle che ritieni più significative per cogliere il significato del tuo libro?”

AN: “Volentieri. Mi sembrano particolarmente significativi i casi IKEA e Procter&Gamble. Il motto che accoglie i nuovi assunti in IKEA, socio fondatore di Parks, è “Per essere uno di noi devi essere te stesso”. L’azienda multinazionale aveva nel 2013 151.000 collaboratori con un management composto per il 47% da donne e un fatturato annuale di oltre 29 miliardi. I valori dell’azienda fondano una cultura d’impresa aperta all’inclusione. Lars Petersson, amministratore delegato di IKEA in Italia, spiega la strategia di inclusione dell’azienda: “Nessuno deve sentirsi escluso. Siamo partiti con la lotta alle discriminazioni di genere, poi ci siamo occupati di quella alle discriminazioni verso i dipendenti GLBT, tra poco sarà la volta di etnia e età”. In Italia le donne sono il 58,60% e nelle posizioni manageriali superano il 41%. Anche grazie a questa capacità inclusiva, IKEA è una delle aziende con il più alto livello di soddisfazione della clientela in Italia. I clienti stessi infatti le riconoscono la capacità di essere contemporanea e vicina alle esigenze della società di oggi”.

MM: “E per quanto riguarda Procter&Gamble?”

AN: “Sono clienti di Procter&Gamble circa 4,8 miliardi di oltre 7 miliardi di persone sul pianeta. Il modello di business di multinazionali come Procter&Gamble è guidato dai consumatori. L’azienda nei suoi dichiarati afferma di non poter creare marchi e prodotti per migliorare la vita dei consumatori di diversi mondi “se non comprendiamo il valore della diversità delle persone che serviamo e delle persone con cui lavoriamo. E’ così semplice”. Le persone alle quali vengono serviti oggi marchi e prodotti dell’azienda e i consumatori potenziali “sono individui unici. Sono difficili da conoscere, difficile da capire. Ma più si comprende, più si è equipaggiati nella creazione di prodotti e marchi che soddisfano le loro esigenze”. Per poter comprendere l’evoluzione dei bisogni impliciti, espliciti e latenti dei clienti attuali e potenziali, Procter&Gamble segue un principio semplice: le persone che lavorano in azienda devono riflettere la pluralità dei consumatori e dei mercati nei quali l’azienda vuole vincere. Questa strategia globale di diversity e inclusione è stata inaugurata nel 2010”.

MM: “Un aspetto importante nel contesto di cui stiamo parlando è la leadership al femminile. Come sai questo tema è stato oggetto di una mia riflessione nell’ambito del progetto Alice Postmoderna, ripresa e sviluppata anche nell’ambito del Wikiromance Racconti invernali da spiaggia. L’essenza della leadership al femminile, infatti, a mio avviso si identifica con la capacità di Alice di dialogare con tutti i “diversi” in cui si imbatte nel corso delle sue avventure: personaggi bizzarri, animali esistenti e persino estinti (come il Dodo), creature mutanti come lo Stregatto… tu cosa ne pensi?”

AN: “Alice dialoga per rispetto degli altri, perché è curiosa, perché non deve difendere una sua posizione o un suo mondo di idee. Sono questi in fondo gli atteggiamenti che servono in una cultura inclusiva. Mellers ha scritto: “L’intelligenza dei migliori previsori è fluida, cioè malleabile e pronta ai cambiamenti, il loro stile cognitivo è di grande apertura mentale (open-minded), applicano un’attenzione viva e prolungata al problema”. Educare un gruppo di lavoro all’apertura mentale significa quindi portarlo ad accettare, verificare, considerare punti di vista diversi. Alice affronta l’imprevedibile e l’imprevisto senza voler necessariamente prevedere il futuro. Le ricerche ci dicono che questo è uno dei contributi più significativi della leadership al femminile”.

MM: “Nella terza parte del libro descrivi, per la prima volta in una pubblicazione, il coraggioso percorso scelto in Italia da un collettivo di aziende prestigiose, associate a Parks, per la costruzione di una cultura di inclusione globale che consideri anche la più ostica delle tematiche per il contesto sociale italiano: queste aziende hanno scelto di lavorare su una piattaforma di innovazione per il Paese ovvero l’inclusione delle persone gay, lesbiche e bisessuali e transessuali (GLBT nell’acronimo correntemente utilizzato dagli organismi internazionali, dalle aziende e dalle organizzazioni impegnate nei processi di equality)”. Ci puoi anticipare in breve di cosa si tratta?

AN: “Parks è una associazione non-profit fondata da Ivan Scalfarotto che si affianca alle aziende in qualità di consulente secondo un approccio professionale, allo scopo di aiutare le imprese a rivedere le sue politiche del personale e di comunicazione. A causa dello stigma che in Italia permane ancora fortissimo, le persone GLBT nella maggior parte dei casi preferiscono non condividere nulla della propria vita personale sul lavoro. Nonostante questo, un numero crescente di aziende – non solo grandi, non solo straniere – ha cominciato a chiedersi se non fosse opportuno, proprio in questa fase, cominciare a lavorare su politiche delle risorse umane che, anche senza dipendere dalla leva monetaria, potessero rimotivare e coinvolgere tutto il proprio personale, al di là delle differenze. Parks crede che l’inclusione e il rispetto siano vincenti soltanto se coinvolgono davvero tutti. Per questo l’organizzazione si è data la missione di lavorare avendo un focus preciso e prevalente su una delle aree più difficili e culturalmente sfidanti del cosiddetto diversity management: quella legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Anche l’Associazione Italiana Direttori del Personale è socia di Parks: l’AIDP ha deciso di sostenere Parks perchè questo è un tema di frontiera indispensabile dal punto di vista etico, sociale ed economico”.