La “piattaformazione” del mondo
Nonostante la crisi dello Scientific Management (alias Taylorismo) fosse ormai già conclamata, agli inizi degli anni Novanta autori come George Ritzer potevano ancora vedere nella Macdonaldizzazione del mondo “un processo profondo e di ampia portata di cambiamento globale”, che coinvolgeva gran parte delle istituzioni sociali, basato su un modello fondato sulla riproducibilità universale dei principi di “efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo”, attraverso la “sostituzione di tecnologia non-umana a quella umana” e la realizzazione della “irrazionalità della razionalità” (The McDonaldization of Society, 1993).
Oggi, lo scenario è completamente cambiato. A fronte dell’inarrestabile processo di Digital Disruption in atto, le aziende devono fare i conti con la necessità di operare radicali trasformazioni nel modello di business, organizzativo e prima di tutto culturale, così come tutti i Top Manager che in questi mesi stiamo intervistando ci stanno variamente testimoniando. E’ l’alba di quella che possiamo definire “The Platfirm Age“, un periodo storico che secondo ad esempio la Technology Vision 2016 di Accenture sarà dominato dalla “Platform Economy”, per McKinsey porterà alla definizione di “Platform-based talent markets” e che secondo altri determinerà l’avvento della Platform Enterprise: della “Platfirm”, appunto.
Parafrasando i Red Hot Chili Peppers, potremmo parlare di una sorta di Platformication, intesa come sempre maggiormente diffusa consapevolezza che il mondo oggi sta diventando una piattaforma, sta subendo una sorta di “piattaformazione”, secondo i modelli proposti da aziende come Apple, Amazon, Facebook, Uber. Il fenomeno in Italia è stato lucidamente raccontato con grande visionarietà da Cosimo Accoto, VP Innovation di OpenKnowledge e, fra le altre cose, Visiting Scientist al MIT. E’ lui infatti che nel luglio dell’anno scorso ha lanciato il neologismo “Platfirm” dal palco del Social Business Forum 2015. Cerchiamo dunque di capire insieme a lui cosa sta succedendo al nostro mondo e, in particolare, alle nostre aziende.
Le aziende-piattaforma
M.M.: Cosimo, come è nato il neologismo “platfirm”, parola portmanteau che sarebbe piaciuta a Lewis Carroll?
C.A.: Viviamo, ci organizziamo e facciamo business utilizzando un linguaggio che diamo per “naturale”, poco consapevoli che i concetti e le parole che usiamo sono strumenti cognitivi in evoluzione che tentano di descrivere il mondo. Dimentichiamo anche che, come ha scritto Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-Philosophicus, “i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo, cioè di tutto ciò che io posso capire, pensare, esprimere”, mentre -continua sempre Wittgenstein- “Il limite non appartiene al mondo”.
Così, in una economia che cambia e in accelerazione, la necessità di superare i limiti del linguaggio e di inventare parole nuove diventa centrale perché solo parole nuove sono in grado di rendere visibili fenomeni nuovi come, per l’appunto, le nuove forme organizzative e di business che stanno emergendo. È così che ho cominciato a chiamarle “platfirm”, collassando, come si può intuire, il termine platform e la parola firm inventando, di fatto, una parola nuova.
M.M.: Ci spieghi cos’è, più precisamente, una platfirm?
C.A.: Partirei da una considerazione su quanto sta emergendo in ambito di framework strategici, di value innovation e business management. Quelli che hai citato non sono gli unici testi che stanno costruendo un “pensiero” della piattaforma (un platform thinking). Tra quelli più recenti cito, ad esempio, Shift di Shaughnessy, che ha raccontato in maniera molto articolata e documentata come, sotto la spinta delle tecnologie disruptive emergenti, la natura e la dinamica di quello che abbiamo conosciuto come “firm” stia evolvendo verso forme organizzative e di business nuove centrate su un core che è, per l’appunto, una “platform”.
Fig, 1 Shift, p.41
Come mostrano le due immagini riportate, estratte proprio dal saggio Shift e comode per dare una overview rapida, la natura e la dinamica delle organizzazioni (e di conseguenza anche dei modelli di business) sono in profonda trasformazione sia per quanto riguarda quella che chiamiamo organizzazione “interna” sia per quello che concerne le relazioni coi mercati “esterni”. Nella prima immagine è rappresentata una classica struttura d’impresa (Shift, p.41), mentre nella seconda l’economia elastica (Shift, p.47) che si organizza intorno ad una platform (una “platfirm” nel mio nuovo dizionario). La prima è una struttura a stack chiusa, la seconda ha una struttura aperta, predisposta per essere, in modalità plug&play, connessa costantemente con l’ecosistema, con cloud e connettori (un tipico esempio di connettore sono le Api – Application programming interface -, con cui un business si apre alla connessione e a scalare con altri attori dell’ecosistema).
Fig. 2 Shift, p. 47
La platfirm ha proprio in questo ridisegno di ciò che è interno e di ciò che è esterno (con i meccanismi del plug&play) forse il suo tratto più distintivo e prefigura – come ha scritto di recente Ridley nel suo ultimo saggio The Evolution of Everything– la scomparsa progressiva dell’entità impresa o organizzazione per come l’abbiamo conosciuta storicamente finora. Più evidente questo aspetto di scomparsa nelle organizzazioni native digitali tipo Uber o Airbnb, meno evidente (ma con impatto crescente) sulle organizzazioni non native digitali.
Le dimensioni del fenomeno
M.M.: Come possiamo misurare l’impatto di questa “platformication”?
C.A: È proprio di questi giorni una ricerca che ha provato a dimensionare, a livello internazionale, tipologia e numeri del fenomeno platform. Il rapporto The Rise of The Platform Enterprise. A Global Survey (Evans & Gawer, 2016) si concentra sull’impatto dei modelli di business a piattaforma esplicitando il contributo che portano alle economie contemporanee.
La survey documenta la presenza e la crescita del fenomeno a livello mondiale provando anche a categorizzare per tipologia le platfirm esistenti sia pubbliche sia private. Ne sono state individuate 176, classificate in quattro gruppi: a) transazionali, b) di innovazione, c) integrate e d) di investimento. In questa immagine (p.14), vengono raggruppate e individuate le quattro tipologie:
Il report analizza anche la distribuzione geografica delle piattaforme rilevandone la presenza in 5 aree del globo e in 22 paesi. Usa, Asia ed Europa centro-nordica contribuiscono in quota maggiore alla presenza di piattafirm che non appartengono più solo al dominio dei social media, libri o musica, ma stanno penetrando un po’ tutte le industry (p.17): dal banking ai trasporti, dall’healthcare all’energy. Quindi non solo i nomi più noti come quelli di Amazon, Apple, Google e Alibaba, ma anche piattaforme meno note come: Rakuten (Japan), Delivery Hero (Germany), Naspers (South Africa), Flipkart (India) or Javago (Nigeria).
I modelli operativi
M.M.: Come si costruiscono le platfirm?
C.A.: Se passiamo dal platform thinking al platform building, quindi dal disegno strategico della piattaforma alla sua progettazione operativa, è utile riferirsi ad un altro testo chiave per i modelli organizzativi e di business platform-based, Platform Scale (2015) di Sangeet Paul Choudary. Choudary, che sarà keynote speaker alla IX Edizione del Social Business Forum 2016 e che sta per pubblicare anche Platform Revolution (2016), ha esplicitato un platform thinking canvas specifico con cui è possibile mappare gli elementi chiave per la progettazione operativa di una platfirm. Nella definizione di Choudary, una piattaforma è: “a plug-and-play business model that allows connected users and things to plug in and orchestrates them toward efficient interactions”.
In particolare, il framework dettaglia, con un focus su ambienti crowd-driven, come combinare asset, pratiche di interazione e meccaniche di ingaggio, tool e funzionalità di cocreazione, moneta di scambio e modelli di cattura del valore. Lavorando con un approccio tipico di “market design” su tre dimensioni (pull – attraggo una crowd che produce; facilitate – agevolo le interazioni sulla piattaforma; match – incrocio con le esigenze di una crowd che consuma), il modello viene raccontato con esempi di realtà come Facebook, Airbnb, Uber, Instagram, ma anche piattaforme meno immediatamente percepite come tali del tipo di Nest, il termostato intelligente di recente acquisito da Google.
In questo modello, rilevante la capacità delle piattaforme di attivare dei filtri che possono essere di natura editoriale, algoritmica o social con cui la produzione della crowd viene filtrata (la produzione crowd non è sempre di qualità o mirata) e può arrivare alla crowd che consuma in maniera la più rilevante possibile. Pensate a come Airbnb attiva meccanismi di filtro, curation e customizzazione (tag, rating degli utenti, selezione per geolocalizzazione, prezzo, ecc) per fare match rilevante tra chi propone una stanza e chi la sta cercando. Naturalmente, la platfirm deve prevedere meccanismi di cocreazione del valore, la moneta di scambio (che può essere simbolica o monetaria) e un modello di cattura del valore specifico. Le piattaforme rendono esplicito un modello di creazione del valore che è distribuito tra gli attori coinvolti e in cui l’azienda non è più il (solo) produttore del valore.
Questo modello consente di centrare l’attenzione non solo, come classicamente si fa, su user experience e service design, ma sul disegno delle interazioni che si vogliono generare dentro e grazie alla piattaforma. È un approccio “interaction-first”, come dice Choudary, che strategicamente si focalizza su “market design” e “behavior design” e che solo dopo passa a ragionare sulle interfacce e sui device, oltre che sull’esperienza che si vuol dare agli utenti.
Le esperienze di OpenKnowledge
M.M: Ci fai qualche esempio o esperienza di casi di platfirm?
C.A:: Il modello astratto va, naturalmente, declinato di volta in volta sulle esigenze e le necessità di business delle imprese e non solo di quelle native digitali. Anzi, i casi più stimolanti, a mio avviso, li troviamo lavorando con imprese che stanno provando ad applicare il platform thinking al proprio business e all’ecosistema esteso entro cui operano. Pensiamo ad esempio alla piattaforma MyOpen di Bticino/Legrand. Si tratta di una social support community b2b costituita da più di 15.000 utenti (system integrator, installatori, appassionati di domotica, studenti) che la utilizzano per supportarsi vicendevolmente, fare networking e business.
In questo caso, il post di social support scritto dagli utenti è il valore offerto dalla crowd sulla piattaforma, opportunamente filtrato dal lavoro di curation dei community manager e degli stessi utenti (che danno un voto alla risposta più efficace per il loro problema). Oltre alla conseguente riduzione delle chiamate ai call center (beneficio per Bticino Legrand), la piattaforma serve da stimolo ai processi di innovazione aperta e partecipata tra gli attori della piattaforma e indirettamente per lo sviluppo del business di Bticino.
Anche la piattaforma di innovation di Scottisch Water che abbiamo progettato e implementato è stata costruita valorizzando i caratteri del platform thinking, partendo dalla necessità, che la municipalizzata dell’acqua aveva, di coinvolgere i propri employee nella generazione di idee di nuovi processi e servizi.
In Scottish Water il graduale, ma deciso, processo di avvicinamento alle logiche della open innovation è stato affrontato in modo assolutamente complementare sia all’interno dell’organizzazione sia verso l’esterno: i driver di cambiamento sono infatti stati, da un lato, l’esigenza di incrementare la produttività dei dipendenti e dall’altro la volontà di garantire una comunicazione verso la clientela efficace, tempestiva e multicanale. La spinta all’innovazione non deriva tanto dall’esigenza di rispondere alla competizione esterna quanto dallo stimolo al miglioramento continuo del servizio offerto ai cittadini e all’attenzione sempre maggiore rivolta agli aspetti di comunicazione con il cliente.
Qui il valore generato dalla piattaforma sono le idee e i meccanismi di filtro sono i commenti degli esperti, i tag, il social score dato all’originalità delle idee. Un progetto del tutto analogo di social innovaton lo abbiamo appena realizzato per una rilevante azienda energy italiana.
Altra esperienza è il ridisegno della piattaforma di digital working di Bper. La nuova Intranet, progettata con un forte approccio di co-design delle interazioni e coinvolgimento dei futuri utenti, è stata pensata come un portale unico aziendale (digital workspace), fruibile anche in mobilità, a supporto dell’operatività quotidiana delle filiali e degli uffici interni: rappresenta l’unico punto d’accesso alle tecnologie, alle applicazioni e alle informazioni disponibili, inclusi tutti gli applicativi aziendali.
La Intranet prevede, inoltre, la profilazione automatica (filtri) dei contenuti per personalizzare e differenziare i servizi per l’Utente, in funzione dell’organizzazione di appartenenza e del ruolo aziendale e la definizione di una governance con ruoli e processi definiti per garantire un presidio e una gestione efficiente della Intranet. Per far fronte agli ambiziosi obiettivi, in fase di progettazione, si è agito su tutte le principali aree di interazione degli utenti sulla piattaforma che, da letteratura, costituiscono il digital workspace: Comunicazione, Collaborazione,Attività, Knowledge.
L’alba della platfirm age
In sintesi, siamo solo all’inizio di quella che abbiamo chiamato “Platfirm Age”. Riusciamo per ora ad intravederne solo alcuni contorni. Potenzialità e criticità (si vedano le proteste dei tassisti nei confronti di Uber) emergono quotidianamente entro un divenire complesso (che è tecnologico, regolatorio, culturale, organizzativo e sociale) con cui le vecchie firm sono chiamate, volenti o meno, oggi a confrontarsi.