In questo periodo di celebrazioni del decennale dello Humanistic Management, mi fa particolarmente piacere segnalare il volume di Edoardo Bellafiore, che coordina l’area di formazione sulla Comunicazione e dirige il master HR di ELIS Corporate School, La letteratura come arte della formazione (Luigi Pellegrini Editore). Un testo incentrato sulla convinzione, leggiamo nelle prime pagine, che sia “essenziale lo studio dei modelli classici e umanistici per capire la formazione di oggi, nelle sue dinamiche legate allo sviluppo personale e ai comportamenti organizzativi. Facendo leva sull’approccio dello humanistic management, spero di aver concepito una nuova modalità di accostarsi a questi temi con il complesso, necessario e affascinante ausilio storico e testuale della letteratura”. E nelle conclusioni ribadisce: “L’approccio dello humanistic management, nella centralità che dà ai modelli umanistici per comprendere quelli organizzativi, è il filo rosso che lega tra loro i temi e la tesi di questo scritto: costituisce un’ottica indispensabile per cogliere il senso di ciò che ci circonda e di quanto viviamo ogni giorno”.
Abbiamo dunque parlato di tutto questo con l’Autore.
MM: Il tuo libro si intitola significativamente La letteratura come arte della formazione. Modelli umanistici alla base dello sviluppo personale e dei comportamenti organizzativi. Vuoi spiegarci il perchè di questa scelta anche alla luce della frase in cui affermi: “Nel campo della saggistica, una tematica “audace” è sempre quella che si pone al confine tra più ambiti e che cresce all’interno del loro terreno comune. In questo caso, gli ambiti sono quelli della letteratura, dell’educazione degli adulti, della formazione aziendale, uniti tutti dal filo rosso dello humanistic management, dello sguardo puntato ai modelli umanistici. La loro storia e la loro tradizione ci permettono, in queste pagine, di comprendere molti dei paradigmi formativi odierni (alla base sia dello sviluppo personale che dei comportamenti organizzativi)”?
EB: La letteratura è capace di offrire innumerevoli spunti alla formazione (dall’istruzione scolastica al training aziendale) ed è indispensabile per comprenderne le origini: per questo ne è “arte”. La formazione nel senso moderno del termine nasce infatti con i “modelli formativi” di cui parlava Petrarca, rappresentati dagli autori dell’antichità classica. E’ in questo periodo che la formazione inizia a essere concepita come un habitus che varia da persona a persona.
Dobbiamo quindi servirci della letteratura se vogliamo capire le nostre organizzazioni e il senso della formazione che oggi facciamo (o dovremmo fare) a qualsiasi livello: è necessario risalire ai modelli umanistici che rintracciamo negli scritti dei nostri autori. Il concetto moderno di sviluppo personale, ad esempio, nasce sulla scia della scrittura dell’io (in cui l’individuo ricerca e analizza sé stesso) che esplode con i letterati umanistici e rinascimentali: Petrarca, ma anche Machiavelli, Cardano, Cellini. E si costruisce su modelli classici: mentoring ad esempio deriva da Mentore, il veterano a cui Ulisse affida il piccolo Telemaco al momento di partire per la guerra di Troia. Stessa cosa per quanto riguarda i comportamenti organizzativi: il primo trattato sulla leadership è Il Principe di Machiavelli, mentre Leonardo da Vinci – tramite il modello della bottega – insegna il lavoro in gruppo e il feedback (leggere il suo Trattato della Pittura per credere). Nella corte si ritrovano i meccanismi e le dinamiche dell’organizzazione moderna. Con i trattati di Pontano (De Sermone), Castiglione (Il Cortegiano) e Della Casa (Galateo) vengono definiti gli statuti della conversazione e delle competenze relazionali. Nascono le Accademie, in cui il sapere si trasforma: straborda dai rigidi schemi precedenti del Trivio e del Quadrivio e diviene dialogico.
MM: La tua proposta è profondamente radicata in una riflessione del valore anche per le aziende contemporanee di Umanesimo e Rinascimento. C’è una assonanza con L’Effetto Medici di cui parla Frans Johansson?
EB: Sì, c’è assonanza eccome. Frans Johansson parla ad esempio di “intersezione”: il contatto con culture e persone diverse che genera contaminazione e produce creatività e innovazione. Per far questo è necessario aprirsi al nuovo e al “diverso”, apprendere dalla vita prima ancora che dallo studio ed essere sempre pronti a mettere in discussione gli assunti che ci vengono dati. Tutto ciò è alla base della lezione che ci danno Umanesimo e Rinascimento, un momento storico in cui cambia totalmente il quadro educativo e formativo: vengono riscoperti i classici (da qui “Rinascimento”) e con Petrarca nascono i cosiddetti “studi umanistici”. Ciò determina apertura e contaminazione tra i diversi saperi e questo genera innovazione a qualsiasi livello: dalle incredibili scoperte geografiche all’introduzione della stampa, dalla rivoluzione eliocentrica alla nascita della moderna economia (nascono le banche e la figura dell’imprenditore). Questa apertura al nuovo e questo cambio totale di prospettiva trasforma il mondo: al concetto di “ipse dixit” aristotelico che vigeva nel medioevo subentra quello dell’indagine e della sperimentazione in ogni ambito. Frans Johansson poi, parla di personaggi eclettici e geniali. Ebbene nel Quattro e Cinquecento la chiave di volta della società (e quindi dell’apprendimento) è proprio l’eclettismo: la curiosità di conoscere abbatte le barriere tra i diversi campi del sapere e li collega tra loro. Oggi abbiamo assoluto bisogno di questo: coniugare l’iper-specializzazione che ci è richiesta con la capacità di una visione allargata e una comprensione sinergica di quanto ci circonda.
Oltretutto Umanesimo e Rinascimento danno alle nostre aziende una lezione importantissima sulla gestione del cambiamento e su come la creatività possa divenire innovazione.
MM: Il libro è diviso in due parti. La prima è fortemente incentrata sul valore dello storytelling. Vuoi parlarcene?
EB: Oggi si parla molto di storytelling, ma spesso non si comprende la potenza di questo strumento antichissimo e non se ne conosce l’origine. Lo storytelling è narrazione, è capacità di raccontare (e inventare) storie, che nel loro svolgersi trasmettano messaggi e valori.
E’ molto utilizzato in ambito management: le imprese se ne servono per esprimere la propria identità e per far conoscere prodotti e servizi. Il mondo della scuola invece, che ne avrebbe assoluto bisogno, non lo utilizza affatto: con questo strumento potrebbe generare nei giovani la curiosità di imparare, sicuramente poco stimolata da una modalità prettamente teorica e astratta.
Le origini dello storytelling sono da ricercare nel mondo classico: è lì che si trova il suo dna. I greci infatti avevano capito prima di noi quanto fosse importante il racconto delle storie per l’apprendimento: con Iliade e Odissea si tramandava di generazione in generazione la summa del sapere: come ci si siede a tavola, come si uccide un nemico o si costruisce uno scudo. Tutte cose che avrebbero annoiato terribilmente i ragazzi se fossero state scritte non sotto forma di una storia avvincente ma sotto forma di un trattato teorico. Lo storytelling infatti è la forma più potente per far passare un messaggio: capace di generare condivisione e scambio, stimola l’immaginazione e risponde riga per riga ad uno degli impulsi umani più diffusi e più naturali: la curiosità. La principessa delle Mille e una notte salva la sua vita, ogni giorno, proprio grazie alla capacità che ha di raccontare storie e di generare interesse nell’interlocutore. E così predica Gesù: per parabole, cioè per storie.
MM: Nella seconda parte riprendi un tema fondativo del Manifesto dello Humanistic Management, l’autobiografia, che nella social organization di oggi diventa blog, timeline sul wall di Facebook, selfie su Instagram. Cosa pensi di questa evoluzione?
EB: Esatto, si tratta di un’evoluzione: nel senso che l’autobiografia non è morta, ma rispetto al passato prosegue in altre forme e con altri obiettivi. La scrittura di sé rispecchia non solo la persona, ma l’epoca: ad esempio, se leggiamo la produzione autobiografica di Petrarca, troviamo tutti i segnali della fine di un’era (il medioevo) e l’inizio della successiva (Umanesimo e Rinascimento). Così anche oggi, nelle scritture autobiografiche, possiamo rintracciare gli elementi caratterizzanti la società in cui viviamo. Rispetto al passato, l’autobiografia ha perso completamente uno dei due obiettivi che la animava, quello dell’autoformazione: la persona scriveva di sé per conoscersi e ciò rendeva la scrittura quasi “terapeutica”. Seneca, in una delle sue lettere, scriveva che “il primo indizio di una mente sana è il saper star fermo e trattenersi con sé medesimo”. Oggi invece è rimasto solo l’aspetto legato all’autopresentazione: si scrive (all’insegna di velocità e brevità) per raggiungere quante più persone possibili e far sapere loro chi sono e che faccio in tempo reale. Questa necessità, personale o professionale, rispecchia la natura “esteriore” della società che viviamo ed è il meccanismo base dei social, ormai diventato un impulso naturale. Quanto si resiste senza sbirciare Whattsapp, Twitter, Facebook, Instagram, ecc.?