Quando il gioco si fa duro…
Un passaggio fondamentale nella trasformazione di una azienda tradizionale in social organization è lo sviluppo di una leadership diffusa con caratteristiche del tutto opposte a quelle cui siamo abituati nelle aziende tradizionali, gerarchiche, burocratiche, prescrittive e direttive: anche nel volume L’intelligenza collaborativa, la definiamo leadership convocativa – una visione che sta riscontrando ampi consensi, come ho avuto ad esempio modo di verificare in un workshop svolto qualche giorno fa con il Top Management di Banca Sella.
Un ulteriore contributo all’approfondimento del tema viene da un articolo pubblicato sull’ultimo numero della McKinsey Quarterly, che vale la pena di riprendere anche qui. Gli autori,’ Tunde Olanrewaju, Kate Smaje e Paul Willmott, sostengono che la fase di sperimentazione dei nuovi modelli digitali di social organization è finita. In un contesto spesso desolante di lenta ripresa economica, il digitale continua a mostrare uno sviluppo costante. L’ e-commerce, ad esempio, sta crescendo con tassi a due cifre negli Stati Uniti e in molti paesi europei, mentre è in piena espansione in tutta l’Asia.
Per approfittare di questo slancio, le aziende devono andare oltre gli esperimenti, generalmente consistenti nella creazione di qualche sporadica community, che spesso non si occupa di rendere più efficiente un processo core, ma è focalizzata su una value proposition “leggera” e “poco pericolosa” ( ad esempio, la generazione di idee “innovative” non meglio qualificate o la gamification di corsi di formazione per i più giovani): è giunto il tempo di trasformarsi in vere imprese digitali a rete, in social organization.
Eppure molte aziende sono in affanno quando tentano di trasformare le loro agende digitali in nuovi modelli di business operativi. La ragione, sostengono gli autori, è che la trasformazione digitale è un obiettivo impegnativo, che deve entrare a far parte della riflessione strategica del Top management poichè tocca tutte le funzioni e attività, almeno quelle ad alta intensità di conoscenza, e questo rende necessario il rapido sviluppo di nuove competenze e investimenti che sono molto diversi dal “business as usual”. Per avere successo, le aziende devono andare oltre le vaghe dichiarazioni di intenti e concentrarsi su quello che essi definiscono “digital hard wiring”: le strutture, i processi, i sistemi informativi e le modalità di incentivazione. Il gioco si fa dunque letteralmente “duro”: e, come è noto, in questi casi solo ” i duri cominciano a giocare”.
Come farlo? McKinsey propone una strada articolata in 7 tappe, basate sullo studio delle imprese in cui il processo di digitalizzazione sta avendo successo.
1) Essere “irragionevolmente aspirazionali”
Il management deve in primo luogo considerare il digitale come un nuovo modo di creare (o meglio: co-creare) valore, non come un mero nuovo canale attraverso cui veicolare prodotti e servizi tradizionali. In questo quadro va completamente rivista la strategia di prodotto e di mercato in chiave “aspirazionale”, che significa fare percepire agli interlocutori un loro accrescimento personale attraverso l’interazione digitale con il brand.
L’esempio proposto è quello di Angela Ahrendts che divenne CEO di Burberry nel 2006, prendendo in mano un marchio che stava perdendo smalto. Per riportarlo in auge osò applicare una visione apparentemente irragionevole: la ridefinizione di un rivenditore di moda di fascia alta come marchio digitale. Prendendo il controllo personale dell’agenda digitale, Ahrendts ha supervisionato una serie di iniziative innovative, tra cui un sito web (ArtoftheTrench.com) che consente ai clienti di immergersi in un’esperienza tipicamente britannica, che celebra il clima, lo stile e l’architettura inglesi; un irrobustimento del catalogo e-commerce; la digitalizzazione dei negozi al dettaglio caratterizzati dall’utilizzo di tag di identificazione a radio frequenza. Durante il mandato di Ahrendts, i ricavi si sono triplicati (Apple ha assunto Ahrendts lo scorso ottobre per dirigere la propria attività al dettaglio).
Ecco, io penso che la stessa “irragionevolezza aspirazionale” possa e debba essere applicata ai processi interni alle aziende: dove l’aspirazione irragionevole dovrebbe essere quella innanzitutto di ottenere l’engagement delle persone nella applicazione a processi chiave di nuovi metodi e strumenti di lavoro collaborativo, la cui efficacia ai fini del raggiungimento degli obiettivi aziendali sia misurabile attraverso specifici sistemi di verifica del ROI generato.
2. Acquisire competenze
Le competenze necessarie per la trasformazione digitale probabilmente non possono essere sviluppate completamente dall’interno. Il Management di una azienda tradizionale deve essere realistico circa la capacità collettiva della forza lavoro esistente. Le aziende leader di frequente cercano di attrarre talenti digitali anche attraverso acquisizioni di intere organizzazioni perché capiscono che il loro inserimento è di vitale importanza per il successo, almeno nelle prime fasi di trasformazione.
Tesco, il noto rivenditore di generi alimentari del Regno Unito, ha fatto tre importanti acquisizioni digitali nell’arco di due anni: Blinkbox, un servizio di video-streaming; We7, un negozio di musica digitale; e Mobcast, una piattaforma di e-book. Le acquisizioni hanno permesso Tesco a costruire rapidamente le competenze di cui aveva bisogno per muoversi sui media digitali. Negli Stati Uniti, Verizon ha seguito un percorso simile con acquisizioni strategiche che hanno immediatamente rafforzato la sua esperienza nel settore della telematica (Hughes Telematics nel 2012), e dei servizi cloud (CloudSwitch nel 2011), due mercati che stanno crescendo ad un ritmo molto rapido.
Ma acquisire o sviluppare talenti digitali non basta: occorre poi rivisitare l’intero sistema di gestione, formazione e sviluppo del personale per renderlo coerente con i nuovi assetti organizzativi: in una parola, occorre passare a sistemi che, da tempi non sospetti, definiamo di social HR.
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